Arturo, Maestro abissale

A

«È un famoso maestro di pianoforte. Si chiama Michelangeli. Dicono che sia un po’ matto». Così rispose mio zio, che pure nulla sapeva di musica, quando un giorno gli chiesi chi fosse quell’uomo vestito sempre di nero, cupo e solitario, che tornando da scuola mi capitava di vedere spesso seduto a un tavolino del bar Impero di piazza Domenicani a Bolzano, davanti al Conservatorio, prima ancora che sapessi che cosa fossero un Conservatorio (dove allora Michelangeli insegnava) e la musica. Questa memoria infantile racchiude ancora oggi l’immagine indelebile di una presenza concreta, di un fantasma inquietante: eloquente e perfino più viva delle tante emozioni provate in seguito ai concerti, in pellegrinaggio per le sale di un’Europa di cui, per suo sdegno, l’Italia già non faceva parte. Michelangeli era davvero il cavaliere nero. Un maestro del pianoforte. Forse un po’ matto.

L’enigma che ha sempre circondato Michelangeli di un’aura favolosa non era frutto di una scelta ma di un destino. Ora che la sua parabola terrena si è definitivamente conclusa nel silenzio (Michelangeli è morto a Lugano il 12/6/1995), possiamo escludere che lo avesse costruito per alimentare una fama esteriore che lo infastidiva, da cui non poteva trarre benefici più grandi di quanti già non avesse acquisito per i suoi soli meriti artistici. Quel destino egli anzi lo subì: in modo doloroso, tutt’altro che ascetico, portandone le conseguenze non solo nei nervi ma anche nel cuore, fino a farlo cedere. Il nodo dell’enigma era evidente, tanto semplice quanto inestricabile: che cosa opporre alla caducità dell’interprete, quale senso dargli una volta riconosciutane la fondamentale inanità, specchio di una più vasta, cosmica vanitas vanitatum? Essere interprete di che cosa, per chi, con quale scopo? E poi: da dove incominciare e dove fermarsi nel sacro cammino della rivelazione?

Michelangeli non si pose mai questi interrogativi per via intellettuale o ideologica, lui che dell’ignoranza del mondo sembrava sarcasticamente convinto, ma perché con essi nel sangue era nato, senza mai riuscire a scrollarseli di dosso. Non ne aveva fatto un principio negativo, anzi; essi erano piuttosto un dato di fatto obbiettivo con cui confrontarsi. Di cui le pose superbe, i capricci e le intemperanze erano solo l’aspetto più superficiale, beffardo e demoniaco: facciata di un ben più profondo rovello, di una infelicità immensa, solitaria. Egli guardava nel fondo di un abisso con la lucida follia dei visionari predestinati che non si arrendono all’incompiutezza. Un vezzo speciale nel suo modo di suonare, l’anticipo del basso, ne esplicitava per così dire la vertigine interiore: emblema di una irrimediabile sfasatura prodottasi nella coscienza moderna tra fondamenta ed edificio sonoro, tra realtà ed apparenza, amplificata in un perpetuo terremoto dell’anima.

L’assoluto dominio della tecnica, l’estrema perfezione dello stile, la decantazione delle emozioni nella rarefazione lucente del timbro erano per Michelangeli esorcismi con cui fissare brevi istanti di estasi nell’inafferrabile scorrere del tempo, rendendolo così eterno. Il ritornare sempre sugli stessi, pochi pezzi, un modo di circoscrivere gli spazi infiniti della musica nell’anelito a ricomporre una totalità spezzata: qualunque pezzo a scelta racchiudeva nell’interpretazione di Michelangeli l’intera vicenda della creazione umana; esibirne in pubblico di nuovi non avrebbe cambiato la prospettiva dell’insieme, né colmato l’ignoto.

In tal senso fu per me rivelatore ascoltare Michelangeli suonare per tre sere di seguito il Concerto di Schumann con i Filarmonici di Monaco diretti da Sergiu Celibidache. Ogni sera un Concerto diverso e insieme unico, pervaso da cima a fondo di logica e poesia uguali e contrarie; quasi che Michelangeli ripercorresse in controluce l’intera storia del pianoforte, celebrandone con astrazioni siderali e scettici pronunciamenti i fasti.

Capii allora che il testo era per lui solo il punto di partenza di una serie infinita di possibilità incarnate dallo strumento da lui reso onnipotente, ognuna delle quali si dissolveva nella sua alternativa. Non esisteva la realtà del testo, ma solo, nella sfida sovrumana, la tensione fantastica della ricerca: una verità sommamente posseduta e negata, irrisa e tragicamente riaffermata. E l’utopia disperata della perfezione ultima realizzata con l’orgoglio e la consapevolezza di una conciliazione suprema e luminosa è quanto di più alto si possa ricevere dal genio ombroso di un interprete.

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