Bergman e la gioia di Bach

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Una volta Ingmar Bergman mi disse che se fosse tornato a vivere avrebbe voluto essere un musicista. Nel suo lavoro in teatro gli era parso sovente di assolvere alla stessa funzione di un direttore d’orchestra e, come autore di film, di concepire le sue sceneggiature secondo temi, ritmi, timbri e persino forme musicali. Nella sua autobiografia, tradotta in italiano dalla Garzanti (Lanterna magica, 260 pp., L. 22.000) Bergman fa riferimento spesso alla musica: non solo per rievocare aneddoti ed esperienze professionali della sua vita, ma anche per attribuire alla musica un ruolo decisivo nella propria formazione umana e artistica. Lo stesso volume, del resto, contiene lo schema di una forma musicale organica, quasi classica. I primi capitoli, dedicati ai ricordi dell’infanzia, fissano i temi principali, come nell’esposizione di una forma-sonata; lo sviluppo centrale, ampio, travolgente, ricco di contrasti drammatici e di sospensioni liriche, di digressioni e ciclici ritorni, converge alla fine in una sorta di ripresa nella quale quei temi, attraverso il colloquio col fantasma della madre e la lettura del suo diario, acquistano tutt’intero il loro significato: rivelano cioè il senso di un’esistenza, e la trasfigurano.

Non si tratta però di un apparato esterno. Guardando all’interno, ogni volta che Bergman ci parla di musica lo fa per segnare tappe fondamentali di una presa di coscienza. Sono illuminazioni, pensieri, momenti che restano, incidendo profondamente la loro orma in una personalità inquieta e sfuggente. Si direbbe anzi che in questo libro aspro, crudele, talvolta persino brutale per accanimento e sincerità, dove l’attività cinematografica e teatrale di un genio sembra aver lasciato soprattutto impressioni di pena e di inadeguatezza, la musica sia l’unico punto di riferimento luminoso: un conforto, un invito alla pace e alla concentrazione creativa. Musica come gioia, musica come silenzio.

Bergman racconta che fu un musicista che suonava dietro le quinte nel Sogno di Strindberg a introdurlo per la prima volta nella magia del teatro. Aveva dodici anni, e fu la rivelazione. Molti anni dopo, mentre cura lui stesso la regia del Sogno al Dramaten, Bergman è turbato, angosciato. Il pensiero va a Sebastian Bach: «Il maestro era tornato da un viaggio, durante la sua assenza erano morti la moglie e due figli. Egli scrisse sul diario: “buon Dio, fa’ che non perda la mia gioia”. Per tutta la mia vita cosciente ho vissuto con quella che Bach chiamava la sua gioia. Mi ha salvato durante crisi e periodi di infelicità, è stata efficace e fedele come il mio cuore. A volte soggiogante e difficile da governare, mai però ostile o distruttiva. Bach chiamava gioia questa condizione». Nell’ultimo capitolo è la musica di Bach, quella dell’Oratorio di Natale, ad avviare la trasfigurazione nel ricordo della madre, in un corso di pensieri e sentimenti più disteso, decantato. La luce: «I corali di Bach si muovono ancora come veli colorati nello spazio della coscienza, avanti e indietro sulle soglie, attraverso porte aperte, gioia».

Anche nel silenzio di Dio, durante notti insonni popolate di dèmoni, la musica parla e conforta, dà un senso misterioso e aperto alle cose. Ecco Mozart, il Flauto magico filmato per la televisione, risultato di un lungo amore e di citazioni criptiche disseminate lungo il cinema di Bergman. Se Bach è l’assoluto dello spirito che dà voce all’indicibile – come in una scena capitale di Sussurri e grida –, Mozart è il compagno di strada che non si limita a interrogare. La scena in cui Tamino, solo di fronte al triplice tempio, invoca la notte e interroga gli spiriti sul destino di Pamina contiene «due domande ai limiti estremi della vita, ma anche due risposte»: la seconda è che «l’amore esiste, l’amore è reale nel mondo degli uomini». Oscuro nei labirinti dell’esistenza, ma reale.

A ventun anni, rifiutato dal Dramaten, Bergman viene assunto all’Opera di Stoccolma come assistente alla regia. Ha modo di familiarizzarsi con la grigia routine di un solido teatro borghese, ma anche di incontrare personalità eccezionali, come Issay Dobrowen. È lui a svelargli che il mondo dell’interpretazione musicale è pauroso e semplice nello stesso tempo: fuoco, passione, ma anche autodisciplina, discernimento, rispetto. Le follie dei registi, «la libertà totale, la totale problematicità portate al culmine della disperazione professionale» appaiono al «barbaro del Nord, che ha assorbito la fedeltà al testo insieme al latte materno», qualcosa di «spaventoso», confessa Bergman di sé.

A Monaco, durante l’esilio, gli capita di assistere alla prova generale del Fidelio diretto da Karl Böhm. «Ricordo vagamente che la regia era orribile e la scenografia paradossalmente moderna, non c’entrava niente. Karl Böhm dirigeva i suoi bavaresi viziati ma virtuosi con piccoli movimenti delle mani – come facessero coro e solisti a comprendere quei segni era un mistero – […] Quest’opera-mostro, verbosa e mal riuscita, s’era improvvisamente trasformata in un’esperienza limpida come acqua di fonte. Compresi che stavo sentendo il Fidelio per la prima volta, che – per dirla in parole povere – non l’avevo mai capito, compreso, inteso. Un’esperienza decisiva, turbamento interiore, euforia, gratitudine, tutta una serie di reazioni inattese. La cosa appariva semplice: le note al loro posto, nessun trucco strano, mai tempi sorprendenti, non uditi prima. L’interpretazione fu – come dicono i tedeschi con leggera ironia – werktreu. Eppure il miracolo era un fatto».

Tutt’altro l’incontro con lo stregone Karajan, a Salisburgo durante Il cavaliere della rosa. Benché la proposta gli appaia ridicola (un film su Turandot), Bergman rimane «irrimediabilmente affascinato». Il maestro parla e straparla di sé: «Improvvisamente s’interruppe: “ho visto la Sua messinscena del Sogno. Lei dirige come un  musicista, ha senso del ritmo, della musicalità, del tono. Lo si vedeva anche nel Flauto magico. Ogni pezzo preso a sé era affascinante, ma non mi è piaciuto. Lei ha cambiato l’ordine di alcune scene, verso la fine. Questo con Mozart non lo si può fare, è un tutto organico”». La lezione è finita, Karajan si avvia alla prova, scortato dal suo seguito: «un corteo imperiale di assistenti, collaboratori, cantanti d’opera d’ogni sesso, critici ossequiosi, giornalisti deferenti e una figlia […] Quando l’esile figura comparve trascinando la gamba, tutti si alzarono e rimasero in piedi finché il Maestro fu portato a braccia al di là dell’orchestra e giunse al suo posto. Il lavoro ebbe inizio immediatamente. Affogammo in un’ondata di devastante, rivoltante bellezza».

Nella sua vita professionale, Bergman non ha realizzato molte opere: se si eccettua il film del Flauto magico, solo una Vedova allegra in anni lontani. Perché mai? «L’imparare a memoria un pezzo musicale per me è faticoso come scalare una montagna. Per giorni me ne sto seduto con registratore e partitura, a volte questa incapacità è paralizzante, a volte ridicola. Forse questa lotta incarognita ha un aspetto positivo: sono costretto a darmi da fare con quel pezzo all’infinito. Ho modo di ascoltare attentamente ogni battuta, ogni pulsazione, ogni attimo. La mia rappresentazione sorge dalla musica. Non posso seguire un’altra via. La mia invalidità me lo impedisce».

Film come sogno, come musica: è la conclusione cui Bergman aspira, che gli sembra di non aver mai raggiunto. Si sbaglia, naturalmente, o finge.

Ma nel suo maniacale perfezionismo egli sa di non poter andare oltre quel limite. Non si cambia il proprio destino. Anche per questo, se tornasse a vivere, Bergman vorrebbe essere un musicista.

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