Britten insegna il canto della pietà

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Non è un requiem della guerra, o sulla guerra, ma una liturgia per coloro che pur essendo vivi sono già morti. Una liturgia che per metà abbraccia la fede, per metà la contesta. L’equilibrata esecuzione di Gardiner

Ci sono opere che, nonostante la loro bellezza, non avrebbero mai dovuto nascere, poiché ciò che rappresentano è terribile, terribile la causa che le ha originate. Non c’è opera d’arte che valga queste cause e ne possa offrire una consolazione. Al massimo, ciò che può essere detto è la pietà. Un modo di riempire, ribellandosi, il vuoto del silenzio. È questo il significato più vero del War Requiem di Benjamin Britten: un capolavoro a cui sarebbe arduo rinunciare, e che è difficile ascoltare senza deprimersi prima, commuoversi poi. O commuoversi prima, deprimersi poi.

Il War Requiem non è un requiem della guerra, o sulla guerra, ma una liturgia per coloro che pur essendo vivi sono già morti. Una liturgia che per metà abbraccia la fede, per metà la contesta. Il ricordo dei morti vive nella preghiera del testo latino della messa, ma accanto ad esso si leva, nella lingua moderna, la voce dei morti che chiede ragione ai vivi e non accetta quel compianto: vuole non solo ricordare ma anche sapere, testimoniare, accusare. Le parole del poeta inglese Wilfred Owen ammoniscono, invitano a dire la verità: come è potuto accadere tutto ciò, come potrà ancora e comunque accadere? Il coro e la grande orchestra tacciono. Sarebbe menzogna, se rispondessero. Le voci bianche dei ragazzi, giungendo come immacolate da lontano, si incaricano di liberarli da quella pudica afasia: «Riposino in pace, amen». Riposino i morti, riposino con loro i vivi. Ma non dimentichino.

La forza di verità del War Requiem di Britten non sta tanto nella denuncia di una aberrazione (è aberrazione la guerra; sono aberrazioni la violenza, la brutalità, la barbarie; ma è aberrazione la morte prodotta volontariamente dagli uomini su altri uomini?) quanto nella accettazione di un destino di dolore e di pianto. Poche volte la musica ha rappresentato con altrettanta evidenza e oggettività una situazione di fatto: altro che protesta, altro che vittoria del bene sul male. Perfino la ribellione cede a poco a poco al riconoscimento che solo la pietà può redimere l’uomo dalle sue colpe. Ed è una pietà che in Britten diviene sentimento universale, valore ultimo dell’umanità. L’unico che possa accostarla, fin dove è possibile, alla divinità, restituendo un senso alle parole della preghiera.

Il War Requiem è un’opera così scoperta, così perfettamente realizzata in ogni dettaglio e così coinvolgente nelle parti e nell’insieme da non dover essere interpretata, ma semplicemente eseguita. Tradirne lo spirito è impossibile, difficile mutarne il segno, il tono fondamentale; certo, è possibile accentuarne in alcuni momenti l’enfasi, o viceversa registrarne impassibilmente il decorso, lasciandola parlare da sé: il calore può essere attizzato come fiamma, o raffreddato perché bruci più sotterraneamente, per così dire più lucidamente. L’esecuzione che ha dato spunto a queste note è diretta da John Eliot Gardiner con l’orchestra del Norddeutscher Rundfunk, il Monteverdi Choir, il coro della Radio tedesca di Amburgo, quello dei ragazzi di Tölz: solisti di canto Luba Orgonasova, Anthony Rolfe Johnson e Boje Skovhus. È una buona esecuzione del secondo tipo: controllata, equilibrata, corretta. Non toglie niente e niente aggiunge alla partitura. Si limita appunto ad eseguirla. Non regge il confronto con quella diretta da Britten stesso, che d’altronde è inconfrontabile con qualunque altra. Ma intanto serve a far conoscere l’opera, a farla circolare. A creare, per chi non ce l’avesse ancora, un posticino in cui conservarla, nell’anima.

 

Britten, War Requiem, Orgonasova, Rolfe Johnson, Skovhus, NDR-Sinfonieorchester, The Monteverdi Choir, NDR-Chor, Tölzer Knabenchor, dir  Gardiner, Deutsche Grammophon, 437 801-2 (2 cd).

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