Canoni

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Al Festival delle Nazioni di Città di Castello un delizioso Concentus Vocalis di Vienna ci ha dato la possibilità, rara, di ascoltare dal vivo i canoni di Mozart. Anche se non è ancora tempo di bilanci definitivi, tre quarti del bicentenario se ne sono andati e noi rimaniamo con la curiosità di scoprire i lati meno conosciuti di Mozart. Che anche in quest’anno si sia insistito sui soliti cento titoli di sempre, sembra essere un fatto statisticamente provato: eppure il catalogo di Mozart pullula di gemme tanto più preziose quanto meno sono esibite e logorate da un uso dimostrativo della natura del suo genio. Soprattutto nelle musiche che non avevano ambizioni di passare alla storia, ma di testimoniare soltanto, semmai, l’arditezza del mestiere, e di celebrare per se stessa la gioia illimitata del divertimento. I canoni sono appunto fra queste. Piccoli scherzi a due tre quattro sei e perfino dodici voci, destinati a una cerchia di amici e di dilettanti riuniti in società per mettere alla prova il proprio acume, o semplicemente per dimenticare le cose serie della vita tra un bicchiere di punch e una battuta folgorante, in molti casi solo ammiccante. Che subito, grazie a Mozart, diventava pretesto per una parodia infarcita di giochi di parole, di buffonesche personificazioni e di doppi sensi irresistibilmente licenziosi. Ma, e qui sta il punto, nella forma rigorosa del canone, la più semplice e la più complessa della polifonia classica.

Semplice il canone lo è per il fatto che ogni voce ripete la stessa melodia e lo stesso testo, quello della parte che lo ha iniziato; complesso perché l’incastro delle varie voci a un dato intervallo di spazio e di tempo genera un intreccio contrappuntistico nel quale è facile perdersi, ove si dimentichi la propria parte e si presti attenzione a ciò che l’accompagna. Che è appunto la stessa cosa di quella e nello stesso tempo un’altra, e dunque varia continuamente pur rimanendo sempre identica: una metafora, forse, della vita.

Nei canoni di Mozart ciò che conta è il carattere del tema, ma soprattutto la deliberata, insidiosa distanza che lo separa dalle bizzarrie del testo su cui è intonato: una sorta di esilarante contrasto fra dottrina e invenzione, in cui lo spirito aleggia con beata incoscienza. Ed è lì, come sempre, la forza del suo genio: nel modo in cui miracoli e diavolerie conservano le loro 16 e 32 battute, e colgono nel segno.

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