Erich il Grande

E

Apparteneva a una generazione di insigni musicisti e di grandi direttori i cui nomi sono oggi leggendari, quella dei Furtwängler, dei Knappertsbusch, dei Klemperer, dei Krauss: la grande scuola storica dell’interpretazione tedesca tra le due guerre. Erich Kleiber, di cui il 5 agosto ricorre il centenario della nascita, ne faceva parte, anche se non era tedesco, ma austriaco, anzi viennese: un viennese però atipico, che nella vita musicale della sua città natale non si inserì mai, pur recando con sé dovunque i tratti più specifici di quella tradizione: la cultura, l’eleganza, la sensibilità, lo spirito.

Del resto, la sua formazione non avvenne nella capitale dell’impero, ma a Praga, la città di Kafka e di Rilke; e di questo ambiente assorbì la vivacità intellettuale e le inquietudini, la malinconia e la decisa apertura verso le avventure della modernità: sentite, queste ultime soprattutto, come un dovere dell’artista verso se stesso e verso la propria epoca, un modo di essere e di vivere la musica innestando i valori della tradizione sul tronco, talvolta difficile da sostenere e consolidare, dell’arte moderna e contemporanea.

Aveva già brillantemente compiuto tutte le tappe dell’apprendimento di un giovane direttore tedesco negli anni del primo dopoguerra quando venne nominato, nel 1923, Generalmusikdirektor dell’Opera di Stato di Berlino. L’impulso che Kleiber seppe dare al principale teatro d’opera di una metropoli della musica avviata a riprendere il ruolo di battistrada nelle battaglie dell’avanguardia fu determinante: fu lui a dirigere, dopo averla caparbiamente imposta tra difficoltà di ogni genere, la prima rappresentazione del Wozzeck di Alban Berg (1925), in un’esecuzione rimasta leggendaria non foss’altro per l’altissimo numero di prove e la minuziosa concertazione richiesta dal direttore. Kleiber fu uno dei primi a introdurre nell’attività dei teatri di repertorio tedeschi norme rigorose nella disciplina del lavoro, nella presenza dei cantanti e nella cura degli allestimenti. Era per natura tutt’altro che un Kapellmeister; ma il proverbiale fuoco che accendeva di tensioni fiammeggianti le sue interpretazioni non escludeva affatto, anzi richiedeva l’intransigenza e la severità di fronte alla preparazione e all’impegno del lavoro.

Anche quando, con l’arrivo di Klemperer, la funzione di guida delle novità del teatro musicale moderno passò alla Krolloper, Kleiber non rinunciò a farsi portavoce delle nuove idee che animavano la ricerca compositiva contemporanea, non solo tedesca, tenendo fra l’altro a battesimo il Cristoforo Colombo di Milhaud, nel 1930. Ma a quel tempo i suoi interessi si erano spostati anche altrove: sull’opera italiana, per esempio, e in particolare su Verdi, di cui presentò molte opere allora sconosciute in Germania, come Simon Boccanegra, offrendole in esecuzioni di raro scrupolo per l’integrità dei testi e per la proprietà dello stile. A Verdi Kleiber restituì la stessa dignità che si richiedeva per Mozart e Wagner. Con lui la figura del direttore divenne predominante per restituire alla musica, sottratta ai vezzi dei cantanti, tutto il suo significato di centro e motore del dramma. Sotto questo aspetto Kleiber fu un artista di straordinaria personalità; e ciò gli consentì di essere spesso in anticipo sui suoi tempi, soprattutto in un repertorio considerato allora ancora di rango inferiore. Si può ben affermare che Kleiber fu uno degli artefici della Verdi-Renaissance negli anni Trenta in Germania e, col suo esempio, anche fuori di Germania.

Che fosse Hindenburg in persona a volerlo a tutti i costi nominare Staatskapellmeister del Reich, sta a dimostrare di quale considerazione Kleiber godesse in un’epoca certo non avara di grandissimi direttori. Ma fu un’esperienza di breve durata. Poco più di un anno dopo, nel gennaio 1935, in seguito a una aspra battaglia sorta a proposito di Mathis der Maler di Hindemith e dell’“arte degenerata”, Kleiber abbandonò la Germania in segno di protesta verso la politica culturale nazista (stesso atteggiamento avrebbe tenuto nei confronti del regime comunista, rimanendo a capo dell’Opera di Stato di Berlino Est solo per pochi mesi, tra il ’54 e il ’55: poco dopo lo colse la morte, a Zurigo nel gennaio del 1956). Riparò oltre oceano: ma non, come molti altri di lui più furbi o accomodanti, nella dorata America, bensì a Buenos Aires, assumendo in breve tempo la cittadinanza argentina (e fu lì che il figlio Carlos, destinato a diventare uno dei più geniali direttori del secondo dopoguerra, si avvicinò alla musica sotto la guida del padre).

Il lungo periodo argentino, che si protrasse fino al ritorno in Europa avvenuto nel 1948, coincise con l’epoca d’oro del Teatro Colón di Buenos Aires, che grazie a Kleiber divenne un centro di primaria importanza nel panorama internazionale, ma ne condizionò non poco lo sviluppo della carriera, isolandolo dai luoghi e dalle orchestre che a lui sembravano naturalmente destinati. Fu una scelta radicale, dolorosa e impegnativa, in nome di ideali che sempre l’avevano accompagnato: ad essi Kleiber si mantenne fedele come uomo e come artista, a qualunque prezzo, senza scendere a compromessi. Pagò cara, comunque, in termini di fama e ancor più di legittime ambizioni artistiche, questa intransigente fedeltà a se stesso.

Ma proprio di lì nasceva la non comune grandezza dell’interprete. Kleiber era un direttore dionisiaco, di straordinaria originalità e acutezza. Romantico più che classico, ma con profonde radici nella musica dei grandi del passato: sentiti – anche quando affrontava i moderni –

come garanti di valori assoluti. In lui il massimo dell’apparente irrazionalità, che si manifestava nell’ebrezza dei colori orchestrali, nella inusitata libertà dei tempi, nella folgorante sottolineatura espressiva, si univa a una razionalità quasi ossessiva, a una logica infallibile.

Interpretare per lui significava rivelare la sostanza incandescente del pensiero e dell’emozione musicale. Ma l’aspetto più nuovo della sua personalità di direttore fu l’attenzione posta alla tecnica come fatto espressivo: anzi, come mezzo per raggiungere l’espressione, la chiarezza e la pulizia della resa orchestrale.

Ciò era sicuramente una conseguenza della sua lunga frequentazione con la musica moderna e con le sue difficoltà anche di scrittura. A questo proposito valgono le parole di Dallapiccola: un interprete deve affrontare la musica moderna con lo stesso amore e con lo stesso impegno con i quali si accosta ai capolavori classici, se crede in quella musica. E se è un grande interprete lo sarà tanto qui come lì. Il grande Erich Kleiber ce ne dà la dimostrazione.

Il Giornale della Musica, n. 52, luglio-agosto 1990

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