Giuseppe Verdi – La Traviata

G

Amore e morte, ovvero La Traviata

La Traviata doveva intitolarsi, nelle intenzioni di Verdi, Amore e morte. Fu la censura veneziana a opporsi a questo titolo, accettando, stranamente, quello ben più forte che fu poi adottato. Ma in realtà, a pensarci bene, La Traviata minimizza il significato dell’ultima opera della trilogia verdiana dei primi anni Cinquanta (andata in scena per la prima volta al Teatro La Fenice di Venezia il 6 marzo 1853: e fu un celebre fiasco), riconducendola nell’alveo di una tradizione melodrammatica più convenzionale: quella dell’eroina che si redime attraverso la morte. Che poi quest’eroina sia in principio una poco di buono, una cortigiana avvezza a vivere (o a sopravvivere) nella bella società e nei suoi riti un po’ futili e superficiali, accresce il valore della trasformazione e della redenzione: in fondo anche la traviata Violetta Valéry dimostra di avere un cuore e un’anima. Appunto come imponeva l’estetica romantica del melodramma.

Verdi puntava ben più in alto. Assistendo nel febbraio 1852 alle prime recite parigine della Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio – dramma che l’autore aveva tratto da un proprio romanzo largamente autobiografico del 1848 – non si era spaventato della scabrosità del soggetto ma aveva còlto con intuito infallibile la novità della prospettiva: dove a contare non erano tanto, o non soltanto, i costumi, l’attualità (l’epoca contemporanea ritratta con spiccato realismo), i giochi e le tresche di una società, quella parigina del 1850 circa, facilmente riconoscibile nella sua identità, quanto la situazione potenzialmente fertile di definizione e di sviluppi. Dopo Rigoletto e Il Trovatore, drammi che si svolgevano in un immaginario senza spazio e senza tempo, la storia di colei che era stata nella vita Alphonsine Duplessis, celebre cortigiana morta di tisi all’età di ventitré anni, Margherita Gautier nel romanzo di Dumas, e che sarebbe diventata nel libretto di Francesco Maria Piave Violetta Valéry, gli offriva la possibilità di scandagliare l’animo femminile come mai aveva fatto prima, di isolare in primo piano un destino individuale senza rinunciare alla panoramica di fondo, di approfondire una psicologia in modo da trarne vantaggio anche per una riforma delle convenzioni melodrammatiche. La Traviata segna un avanzamento non soltanto per essere la prima opera moderna basata su un soggetto contemporaneo, lontano dai miti e dai piedistalli della storia, ma anche per circoscrivere un ambito formale ed espressivo che present molti elementi di novità. A cominciare dal preludio che apre l’opera, le cui diafane note offrono un ritratto musicale della protagonista còlta nello stadio ultimo del suo declino fisico, intenta a ripercorrere le stazioni di una via crucis che appartiene ormai al passato: come se la rappresentazione che seguirà fosse soltanto il racconto di un dramma già avvenuto.

Il primo e principale di questi elementi di novità è però interno alla drammaturgia dell’opera, così come lo si può cogliere nel personaggio di Violetta. Fin dal suo apparire nell’animata festa del primo atto Violetta è spogliata dei panni di una donna di facili costumi, quali una mantenuta d’alto bordo dovrebbe essere e mostra, ben più della sua età e della sua bellezza, una fragilità, una sensibilità e una nobiltà che ne accrescono il fascino. A svelarlo è indirettamente Alfredo Germont, che non si aspetta da lei un’avventura, bensì la corresponsione di un amore: amore di cui evidentemente reputa capace l’oggetto della sua passione. Vero è che nel finale del primo atto, rimasta sola a festa conclusa, Violetta, superato un momento di turbamento (“”Ah, fors’è lui che l’anima””), sembra inneggiare, nella cabaletta “”Sempre libera degg’io””, alla sua condizione di spregiudicata indipendenza; ma il suo canto, contrappuntato fuori campo dal richiamo tenorile della voce di Alfredo, sembra piuttosto l’addio a un mondo frivolo che non ha mai amato, da cui vuole allontanarsi e di cui sente più il peso che l’attrazione: dunque un gesto di euforica liberazione da un vincolo che la costringe a indossare una maschera, a mentire a se stessa (per questo è restata memorabile l’intuizione di Luchino Visconti in una famosa regia dell’opera con Maria Callas, quando a questo punto Violetta buttava via, contemporaneamente, la maschera mondana e le scarpe belle ma strette). Nella vertigine dei brindisi, dei complimenti galanti e delle danze a ritmo di valzer che avvolge voluttuosamente se non peccaminosamente il primo atto, Violetta Valéry cova un tarlo che la dissocia dall’ambiente circostante, è tanto distante dalla superficialità dorata della festa

quanto rósa inconsapevolmente da un pensiero interiore. Persino la tisi da cui è affetta allude a una malattia morale, che si rivelerà mortale.

Nel secondo atto, che si svolge sei mesi dopo l’incontro, ci troviamo nella casa di campagna presso Parigi dove Alfredo e Violetta vivono insieme. L’unione sembra felice, serena, ma è minacciata da

oscuri presagi. Violetta, privata ormai delle munifiche elargizioni di tanti protettori, si è recata in città per vendere i beni restanti e finanziare così la nuova esistenza; Alfredo, appresa la notizia, si risente e parte all’istante per porre rimedio alla incresciosa situazione. Davvero si direbbe che essi abbiano vissuto in un idillio al di fuori della realtà e che solo ora si risveglino da un sogno beato (era quanto del resto Alfredo aveva confessato al termine della sua aria d’apertura: “”Dell’universo immemore / io vivo quasi in ciel””). Le nubi che si addensano preludono alla catastrofe: essa giunge tanto inattesa quanto puntuale con l’arrivo del padre di Alfredo, Giorgio Germont.

Il fatto che Verdi abbia costruito il culmine drammatico di questa scena nella forma di un articolato duetto in sapiente crescendo non è l’ultimo degli elementi di novità dell’opera e denota quella tendenza al superamento delle forme chiuse e alla perfetta adesione ai mutevoli passaggi del dramma che di essa è tipica. Il duetto segue con appropriato realismo gli stati d’animo che si susseguono, in una catena di brevi momenti contrastanti ciascuno dei quali segna un nuovo stadio nella dialettica delle emozioni: dall’iniziale freddezza e ostilità si passa a un clima di complicità e

quasi di calore, di terrore, poi di fierezza di fronte alla necessità di una risoluzione. Violetta, che pure ha opposto le sue buone ragioni alla spietata requisitoria del vecchio Germont, tanto da intenerirlo, da ultimo cede e sceglie risolutamente la strada della rinuncia e del sacrificio. Perno dell’episodio è il tema del passato, da cui la donna si sente marchiata. “”Ah, il passato perché, perché v’accusa?””, le chiede rattristato Germont; a nulla vale, se non a racchiudere in un impeto di orgoglio un intero universo di sentimenti, la risposta di lei: “”Più non esiste. Or amo Alfredo, e Dio lo cancellò col pentimento mio!””. Dio forse avrà perdonato, ma non gli uomini, vittime di condizionamenti, moralismi e ipocrisie. L’ultima richiesta di Violetta è che, quando sarà morta, Germont riveli ad Alfredo che ella lo ha amato a tal punto da sacrificare la propria felicità per amor suo. E qui il tema dell’amore si lega indissolubilmente con quello della morte.

La scena della scrittura della lettera,     interrotta dall’arrivo di Alfredo, è uno dei momenti topici dell’opera: con il suo rapido susseguirsi di una calma ferale, carica di attesa, e di una improvvisa accelerazione, un vero colpo di genio teatrale. La voce di Violetta, spezzata dal dolore e tuttavia costretta a farsi forza per affrontare la situazione, è dolcemente accarezzata, quasi consolata, da un “”a solo”” di clarinetto che assume le chiare sembianze di una “”figura della morte””: sentiamo distintamente che Violetta muore nell’intimo, prima ancora che a causa della tisi. Il suo ultimo momento di eroismo si dissolve nella tremenda esplosione lirica dell'””Amami Alfredo, quant’io t’amo””, che per il fatto di essere già stato ascoltato nel preludio dell’opera diviene un “”motivo di reminiscenza”” pregno di straziante intensità drammatica. Il vertice è raggiunto. Ciò che segue – l’Andante cantabile di Germont padre “”Di Provenza il mar, il suol””, la rapida decisione di Germont figlio di seguire Violetta alla festa – è solo un riempimento che prepara una nuova tensione degli avvenimenti. Ma che cosa ha effettivamente scritto Violetta nel suo biglietto ad Alfredo? Tanto il dramma di Dumas quanto l’opera non ce lo dicono, facendo interrompere Alfredo mentre sta leggendo ad alta voce. Per trovare il testo completo dobbiamo ricorrere al romanzo: «Quando leggerete questa lettera, Armando, io sarò già l’amante di un altro. Tutto è finito dunque fra noi. Tornate da vostro padre, amico mio, andate a rivedere vostra sorella, la casta fanciulla che ignora tutte le nostre miserie. Accanto a lei dimenticherete presto quel che vi ha fatto soffrire questa ragazza traviata che si chiama Margherita Gautier, e che voi avete avuto la bontà di amare un istante: ella vi deve i soli momenti felici di una vita che, lo spera, non sarà più lunga ormai».

Un quadro corale di frenetica concitazione dopo un culmine drammatico sospeso attorno a destini individuali è un espediente ricorrente nel melodramma. Ma nel caso della Traviata la festa nel palazzo di Flora (quadro secondo del secondo atto), con il suo frastuono di balli mascherati, di zingarelle e toreri, ha il compito non soltanto di intrecciare i due piani – lo sfondo brillante, quasi indifferente, della gaudente società parigina, il primo piano carico d’angoscia dei personaggi principali – ma anche di accrescere per contrasto la solitudine dei protagonisti. Il dialogo si rivela impossibile quando Violetta e Alfredo si ritrovano soli una di fronte all’altro: essi non comunicano più, e non solo perché l’una è ancora costretta a mentire pur di non svelare il vero e l’altro è accecato dall’ira, ma anche perché la rete del destino li spinge in un vicolo cieco. La fremente, rabbiosa partecipazione della musica a questo colloquio par quasi protestare contro l’assurdità di una situazione nella quale i due protagonisti lottano e si ribellano invano come animali chiusi in gabbia. Il precipitare degli eventi nel gesto sconsiderato di Alfredo, che chiama gli invitati a testimoni di aver ripagato Violetta dell’unica moneta a lei consona, ne è la logica e inevitabile conseguenza: il momento si tinge di stridente, tragico paradosso. Mentre i presenti si stupiscono soprattutto di vedere infrante in modo così grossolano le regole delle buone maniere e Giorgio Germont ne interpreta il senso secondo un rigido codice morale, Violetta e Alfredo cantano il loro dolore in una solitudine divenuta ormai irredimibile.

Il terzo atto è avvolto nel ricordo come in un sudario grondante desolazione. Il preludio che l’introduce, ricordando musicalmente quello dell’inizio dell’opera quasi a circoscrivere una parabola del già avvenuto e del non più modificabile (di qui il modo minore), ha toni sommessi, delicati, lamentosi, come di congedo. Siamo nella camera da letto di Violetta malata, un mese dopo. È inverno. Tutto annuncia che la fine è ormai prossima. Tenerissimi, e tutt’altro che inessenziali, sono i gesti semplici e quotidiani ch’ella va compiendo, come di chi si appresti a morire bene, con dignità: bere un bicchier d’acqua, rivelare al medico che la visita di aver ricevuto il conforto di un sacerdote, far dono ai poveri del poco denaro che le è rimasto, rileggere le sue lettere. Una in particolare: quella in cui Giorgio Germont l’informa di aver svelato ad Alfredo il suo sacrificio e annuncia l’arrivo di lui per chiederle perdono. Qui Verdi non rinuncia alla convenzione secondo la quale una lettera si legge invece di cantarla, ma la interpreta in modo del tutto originale (un giorno la Callas avrebbe insegnato a tutti come declamarla). Mentre Violetta legge, pochi archi eseguono a mo’ di reminiscenza le appassionate frasi d’amore di Alfredo del tempo che fu; quindi, su un accordo di settima diminuita, ella pronuncia “”con voce sepolcrale”” le parole «È tardi!». Ora si guarda allo specchio, trovandosi tanto mutata. Il rito funebre si suggella nella dolente aria “”Addio del passato””, dove l’addio ai sogni passati di felicità è reso struggente da un oboe che raccoglie e amplifica la disperazione di Violetta: e ancora una volta il ricordo del passato è l’anello che congiunge l’amore impossibile alla morte segnata, ineluttabile. Intanto, fuori di quella camera ardente di sogni e di passioni, la vita continua come se nulla fosse: con amara ironia tragica Verdi ci fa udire l’eco chiassosa fuori scena di un Baccanale che accompagna il corteo carnevalesco per le strade di Parigi.

Ciò che resta è l’ultimo accendersi di una luce, illusoria speranza prima della fine. Giunge alfine Alfredo, i due amanti si scambiano parole d’amore e di perdono, poi vagheggiano un futuro di felicità insieme: nel duetto “”Parigi, o cara”” risuona per l’ultima volta, trasfigurato, il movimento di valzer che nell’opera costituisce la cifra musicale dell’attrazione mondana, del presente storico contrapposto agli ideali di eternità. Violetta vorrebbe recarsi subito in chiesa per ringraziare Dio del ritorno di Alfredo, ma come tenta di alzarsi ricade sfinita; finge che non sia nulla, che l’improvvisa gioia l’abbia per un istante privata delle forze: ma presto appare chiaro che è troppo debole persino per reggersi in piedi. L’ansia finora trattenuta in sottofondo erompe alla superficie con la cabaletta “”Gran Dio! Morir sì giovane””, che vale come la definitiva consacrazione di un destino: di amore e morte, appunto. Un velo scuro cala sulla scena. Né serve a rischiararla l’ingresso di Germont padre, ora pronto ad accettare Violetta come figlia, o le parole di appassionata dedizione di Alfredo. Il sacrificio di Violetta si consuma con un gesto estremo di amore: prende dal cassetto un medaglione con il proprio ritratto e lo dà ad Alfredo perché lo conservi in memoria di lei. Il concertato finale che accompagna questa scena (“”Prendi, quest’è l’immagine””) è scandito da una marcia funebre enunciata in pianissimo dall’orchestra sulla lenta, estenuata declamazione vocale: ed è come se l’anima di Violetta salisse in cielo in un’atmosfera fattasi improvvisamente eterea e rarefatta. Poi, con quasi scientifica esattezza, Verdi rappresenta lo stato di euforia che precede l’istante della morte: Violetta sente rinascere in sé la vita, l’orchestra riflette la sua crescente agitazione mentre la voce rimane quasi priva di espressione, nel registro basso, “”quasi parlando””; quindi sale con l’orchestra verso un punto culminante in fortissimo, raggiunto il quale ella cade riversa senza vita. Tutto è compiuto. Di Violetta resterà solo il ricordo, una fitta al cuore difficile da scordare: per coloro che l’hanno conosciuta in vita o ricreata nella finzione scenica, per noi che continuiamo con commozione a rivivere le sue vicende immortali.

Un’opera pervasa di tristezza e di dolore. Ma l’ultima parola che Violetta pronuncia è: “”Gioia””.


Daniele Callegari /Orchestra, Coro (diretto da Marco Faelli), Corpo di Ballo e Tecnici dell’Arena di Veron
a
Fondazione Arena di Verona, 82° Festival, Stagione Lirica 2003/2004

Articoli