Il Far West è a Berlino, dieci anni dopo il Muro

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Nella sua prima conferenza stampa come direttore designato dei Berliner Philharmoniker, Simon Rattle, alla domanda su che impressione gli facesse Berlino, ha risposto con una battuta: «Berlino è per il sessanta per cento una città tedesca; per il trent’otto per cento una metropoli americana tipo New York: il due per cento che resta mi ricorda il Far West». I giornali berlinesi sono andati letteralmente in sollucchero: finalmente, dopo dieci anni di stile Abbado, fatto di silenzi, poche parole e molti fatti, un musicista chiamato sul podio dell’orchestra più importante del mondo offriva qualche spunto inedito al mito del villaggio globale.

L’«immenso cantiere a cielo aperto», secondo un’immagine già da cartolina illustrata, dà l’impressione di una città che, a dieci anni dalla caduta del muro, anziché elaborare il lutto del suo tragico passato, cerchi disperatamente di attaccarsi a un allegro futuro, qualunque esso sia. E allora va bene il paragone con New York, che pure non è già più il modello in altezza degli edifici che si stanno erigendo (a maggior gloria delle multinazionali) in Potsdamerplatz, dove un tempo correva la linea piatta e orizzontale del muro. Quanto al sessanta per cento di indigeno, basta visitare le colossali mostre dedicate all’arte tedesca del XX secolo, allestite in tre luoghi strategici ed “emblematici” (la Neue Nationalgalerie, l’Altes Museum e la stazione dove un tempo finivano le comunicazioni ferroviarie della Ddr), per capire dove sia finita la parte mancante: fra ciò appunto che stava al di là del muro. Gloria agli espressionisti, onore alle avanguardie del primo Novecento; mea culpa astutamente didattica per il “regno oscuro” del nazionalsocialismo, peraltro celebrato con una fantasmagoria multimediale da fare invidia al cinema americano: silenzio, rimozione su tutto il resto. Ora, per la cronaca oltre che per la storia, un’arte tedesca, e berlinese in special modo, “socialista”, per quanto talvolta squallida, è esistita eccome. Alexanderplatz esiste ancora, a ricordarci lo splendore di un passato lontano e la tristezza di uno più recente, ma non fa bilancio. Sui viali di Unter den Linden i costumi polverosi e i figurini feroci della vecchia Komische Oper (tempio di Felsenstein e dei suoi nipotini di regime, che sono una parte di storia del teatro) sono svenduti al passante insieme con i colbacchi e gli orologi russi, i mitici Raketa e Poljot.

Tutto ciò può sembrare, in proiezione futura, sehr faszinierend o, appunto, very nice. Ma esiste un progetto per la musica? E di che tipo? L’idea teoricamente eccellente di riorganizzare, dopo la riunificazione, la funzione dei tre teatri d’opera (Deutsche Oper, Staatsoper, Komische Oper) e delle sette orchestre stabili come una specie di compresenza di esperienze e competenze a livelli diversi (sul piano della qualità, del repertorio, del rapporto con il pubblico) si è scontrata con una realtà prima economica, poi politica: l’offerta si è rivelata superiore alla domanda, le opzioni richiedevano scelte difficili in un periodo di trapasso. Ma non solo. Paradossalmente, Berlino è oggi la città meno indicata per perseguire una politica differenziata sul piano culturale. Ci ha provato Christian Thielemann, Generalmusikdirektor della Deutsche Oper, appellandosi all’idea straussiana del saldo repertorio come garanzia di una identità tedesca e di una tradizione culturale: non ha avuto successo. La concorrenza con la Staatsoper internazionale di Daniel Barenboim, abilissimo nel mescolare eventi di massa e grandi nomi, gala e celebrazioni trasgressive, non lo ha certo aiutato; ma forse pochi sono disposti a seguire Thielemann sulla strada di una scelta chiara e coraggiosa, che indichi un obiettivo nel frenetico laboratorio delle occupazioni. Quanto alla Komische Oper, il suo ruolo è ormai quello di un teatro senza magazzini e senza storia, buono per i giri turistici a poco prezzo, tutto compreso.

Non meno accanita è la lotta per la sopravvivenza delle orchestre. Non è servito democraticamente stabilire all’inizio che i musicisti dell’est dovessero guadagnare in marchi buoni almeno l’ottanta per cento dei loro colleghi dell’ovest: automaticamente, il costo sociale delle orchestre è salito, erodendo profitti, spazi e ruoli. Adesso ci sono due orchestre della città di Berlino: i Berliner Symphoniker, prima dell’est, e i Berliner Philharmoniker, prima dell’ovest. I primi reclamano che la città riconosca il loro nuovo rango concedendo più soldi; i secondi, giustamente, si appellano alla propria storia e non accettano affatto riduzioni. Lo stesso accade con le due orchestre della radio, a sua volta poco incline a operazioni di rilancio culturale. Il passaggio a una realtà nuova, pubblica e privata, è reso più duro da mentalità atavicamente diverse, quasi inconciliabili.

Forse quella di Rattle non era una battuta. Il Far West è già qui e le sue azioni salgono oltre il due per cento. Le speranze sono affidate all’iniziativa individuale, alla capacità di sopravvivere al futuro, evitando il fallimento con la potenza economica. La via della cultura per ora non paga. E intanto il muro, o quel che resta di lui, se la ride.

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