L’alfa e l’omega. Ritratto di Luigi Dallapiccola

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A cento anni dalla nascita, nel vuoto lasciato dalla sua scomparsa ormai quasi trentennale (1975), la voce di Luigi Dallapiccola continua a risuonare nelle sue partiture, colmando quel silenzio e quel vuoto come se si trattasse di un nuovo inizio, della riconquista, faticosa e sofferta, di un modo sempre nuovo di considerare la sua musica. Vengono alla mente le parole lungimiranti, profetiche di Arnold Schönberg: la vera vita di un artista comincia solo dopo la morte, quando la consapevolezza che un itinerario creativo si è definitivamente concluso lo colloca sul piano delle acquisizioni assolute. In altri termini, lo consegna alla storia.

Dallapìccola, che in ogni atto anche minimo tendeva ad attingere la misura di eternità che all’uomo è concessa, non temeva il verdetto della storia: del resto, in essa era vissuto, con essa si era confrontato in momenti difficili, quando la fedeltà a scelte contrarie alle mode lo aveva portato ineluttabilmente alla solitudine e all’isolamento, alla condanna di essere giudicato un musicista ostico e cerebrale. Ma mai avrebbe potuto sottrarsi al proprio destino, che era quello di dare voce e forma all’ansia di ricerca e di espressione che l’animava, dicendo fino in fondo, anche quando sembravano inattuali, le cose che aveva da dire. Siccome subito dominante si era palesata la passione per la musica, e siccome poi come musicista aveva voluto essere un compositore, accettare il proprio destino significò anche vivere nel presente la situazione concreta dell’evoluzione del linguaggio, dello stato della musica (ma anche dell’arte e della cultura in generale) nel suo tempo. Così, scegliere la dodecafonia, all’inizio un atto di pura deduzione logica, divenne un traguardo che in un secondo tempo si sarebbe tramutato nella determinazione definitiva e cosciente di tutta la sua vita d’artista.

Molto è stato detto e scritto sull’adesione quasi apodittica di Dallapiccola alla dodecafonia, il metodo di composizione con dodici suoni riferiti solo l’uno all’altro, senza relazioni tonali, creato da Schönberg, e sulla sua devozione verso i Maestri della seconda Scuola viennese, che la praticarono e l’imposero. Le ragioni di questa adesione mai rinnegata, gli sforzi puntigliosi per riconoscere i principi attraverso i quali essa si realizzò, Dallapiccola li illustrò in più occasioni nei suoi scritti. Il fatto che la dodecafonia costituisse anzitutto una lingua di base, dotata di sostanza e di stabilità, sulle cui leggi innestare la propria visione personale della musica, lo accomunava sensibilmente al padre fondatore di essa, Arnold Schönberg, il quale nella dodecafonia come punto d’arrivo di un processo nato con la disgregazione e l’esaurimento del sistema tonale identificava un baluardo asceticamente eretto sull’abisso di vuoto e di disperazione dell’esperienza espressionista: esperienza che a Dallapiccola rimase però, per ragioni non soltanto storiche, fondamentalmente estranea. Ma se la dodecafonia rappresentava la garanzia di valori stabili su cui operare, essa era anche uno “”stato d’animo””, un “”modo di essere”” conseguente a una necessità costitutiva del carattere di Dallapiccola (il modo di essere e di sentire di Dallapiccola stesso) e al tempo stesso un veicolo di libertà per una scelta individuale, dettata dalla fantasia e dalla personalità del creatore. Considerazione decisiva, che getta una luce illuminante all’interno di Dallapiccola uomo e compositore.

La sua formazione culturale, che così profondamente avrebbe inciso su una natura già predisposta, era avvenuta lungo due direttrici complementari: a una solida educazione umanistica, radicata nell’infanzia e alimentata dall’ambito familiare e sociale, perseguita poi per tutta la vita con tenace attaccamento e convinzione, si era aggiunto col tempo, nel nome della musica, l’attrazione per la cultura e l’arte tedesca: l’una e l’altra calate in una inquietudine tanto vigile quanto fertile, dovuta anche al fatto d’esser nato e cresciuto in una città di frontiera, nel miscuglio di stirpi e di costumi che facevano ancora capo all’impero austro-ungarico. In quella mentalità inquieta, questo tardivo figlio della civiltà mitteleuropea ormai al tramonto seppe trovare la molla per non disperdere, pur tra differenti interessi, la lucida coscienza della propria “”missione”” (termine che implicava senz’altro un senso religioso), proseguendo un cammino ideale che aveva avuto un illustre precedente nella figura del “”laico”” Ferruccio Busoni (anch’egli conteso da due patrie e due culture), sorta di nume tutelare a cui appoggiarsi nei momenti dell’angoscia e del dubbio.

Dubbio interiore, s’intende, confortato da non meno profonde e tenaci certezze riguardo i valori. Dubbio men che meno toccato dalle difficoltà esteriori, che pure furono tante quando Dallapiccola, trasferitosi a Firenze per continuare l’apprendistato musicale, vi trovò soprattutto incomprensione e ostilità. Ma Firenze, alla quale egli rimase attaccato per tutta la vita (e non solo per le sue pietre e il suo paesaggio, per la ricchezza della lingua e le lapidi dantesche che ne costellano il centro, come amava ripetere), si rivelò in seguito il luogo adatto per raccogliersi nel lavoro e superare ampiamente il buio di quei primi anni di ambientamento, che sarebbero stati del pari scomodi in qualunque altra città italiana.

Il tirocinio compositivo fu scandito da folgoranti illuminazioni. Esse cadevano su un terreno ancora immaturo, ma il loro sigillo si sarebbe impresso in modo indelebile sul giovane artista. Le prime opere, rifiutando le mode allora imperanti, partirono a recuperare, in un diatonismo volutamente esasperato, la grande tradizione madrigalistica del Cinque-Seicento (Gesualdo e Monteverdi), piegandola ad una moderna ed espressiva vocalità corale, e di pari passo a proseguire nella esplorazione, già avviata dai musicisti della generazione precedente, della musica strumentale italiana preottocentesca, e del suo versante opposto, il romanticismo tedesco innestato nell’epoca classica; mentre, d’altra parte, dopo l’età confusa dei tentennamenti e delle acquiescienze, già prendeva piede la conquista dell’impegno civile come contenuto dell’opera.

“”La mia generazione non aveva fretta. Il fatto di essere eseguito non era considerato l’alfa e l’omega nella vita di un artista; allo stesso modo come non era nostra abitudine fare assegnamento sulle somme che si percepivano dalla Società degli Autori. Avevamo di fronte a noi gli eroici esempi dei Maestri della Scuola di Vienna, delle cui musiche prendevano nota la Società Internazionale Musica Contemporanea e alcune stazioni radio particolarmente avanzate, come per es. la British Broadcasting Corporation o la Radio fiamminga di Bruxelles. Né esisteva la propaganda massiccia che costuma oggi; né ci si sarebbe basati sulla pettegola ammirazione dei mercanti” (1).

Queste parole, scritte ripercorrendo le traversie delle prime esecuzioni dei Cori di Michelangelo, l’ultima opera della giovinezza, possono servire da preambolo alla definizione di un ritratto del carattere di Dallapiccola, così come si viene plasmando, definitivamente, negli anni fra le due guerre: anni tanto poveri di avvenimenti esteriori (ma quella di Dallapiccola fu sempre, essenzialmente, una biografia di fatti interiori) quanto ricchi di esperienze, riflessioni e scoperte artistiche.

Per quanto il suo cognome cominciasse a essere riconosciuto negli ambienti internazionali della musica, la sua inclinazione a una vita estremamente riservata e appartata, portata a chiudersi “”fra quattro mura””, non gli attirava soverchie simpatie nei circoli ufficiali e mondani. Nei salotti fiorentini del tempo faceva la figura dell’elefante tra i vasi di cristallo: “”Lei ha lo ‘charme’ dell’antipatia””, gli spiegò una certa signora della buona società che continuava imperterrita, forse per curiosità, a invitarlo in casa sua. La mitologia della sua scontrosità, della sua durezza e intransigenza nei rapporti interpersonali, che a taluni sembravano arroganza e superbia, consisteva essenzialmente, come ha scritto Fedele D’Amico, “”nell’intensità con cui Dallapiccola investe gli oggetti della sua attenzione, anche della più meditata e razionale, sacralizzandoli”” (2). Essa si alimentò da sola in questi anni di battaglie difficili, quando un aggettivo come “”dodecafonico”” suscitava tra gli ignoranti il sarcasmo e il disprezzo di un giuoco di parole volgare con “”cafone”” e Dallapiccola dovette sopportare – sono sue parole – “”l’amarezza dello scherno””. Anni di solitudine. Anni in cui le sue musiche si arrestavano dopo le prime esecuzioni, se alla prima esecuzione arrivavano. Anni nei quali la misura di salvezza era data dalla ricerca solitaria e dal colloquio anzitutto con se stesso. Certo Dallapiccola non fece mai nulla per scrollarsi di dosso questa fama, di cui anzi talvolta per autodifesa si compiaceva, quasi a sfidare orgogliosamente il mondo intero. Il suo modello anche comportamentale era Schönberg, che aveva detto di sé: “”Questa è la mia nobiltà, che io faccio ciò in cui credo e che credo in ciò che faccio, e guai a chi mette in dubbio la mia fede!”” (3). Si trattava dunque di un problema di fede. Dallapiccola era il tipo di artista che sentiva di avere una missione da compiere, di aspirare a dire cose che dovevano essere dette. In ogni caso, non erano il successo o la popolarità a interessarlo. E neppure la gradevolezza dell’immagine o le public relations.

A Firenze non strinse legami con la colonia triestina, numerosa e intellettualmente fiorente; anche se con la moglie Laura, compagna di tutta la vita, parlava sempre in dialetto. Non partecipò alle attività dei fogli letterari e delle riviste fiorentine tra le due guerre, di cui pure condivideva alcuni indirizzi (e alcuni suoi scritti di musica furono difatti accolti per esempio su “”Letteratura””), ma non la mentalità tra l’avanguardistico e il salottiero. Frequentò regolarmente la casa di Ugo Ojetti all’epoca di “”Solaria””, ma in primo luogo come insegnante di musica della figlia Paola, per la quale gli indiscreti insinuarono che avesse del tenero. Fu l’unica volta che un pettegolezzo lo sfiorò. La stessa fraterna amicizia con Alessandro Bonsanti, fra quelle acquisite a Firenze, dopo quella con il violinista Sandro Materassi, la più lunga e tenace, nacque attorno al ’35 da frequentazioni private di carattere squistamente personale e solo dopo la guerra divenne anche collaborazione professionale di natura letteraria, su “”Il Mondo”” fondato da Bonsanti.

Se la Firenze degli intellettuali inserì Dallapiccola nel suo panorama, lo fece quasi suo malgrado e soltanto per lasciarlo alla sua solitudine operosa. Lo ha precisato, con grande acutezza, Gianandrea Gavazzeni:

Città di incontri difficili, per lui, di poche amicizie fedeli. Soltanto nel secondo dopoguerra man mano più aperta ai rapporti culturali e alle frequentazioni Ne traevo nozione nelle discese dal Nord, prima de’ ’40. Incontri separati. La sera o il pomeriggio, in casa sua. Viale Margherita e via Bolognese. Qualche pasto all””‘Antico Fattore””. Mai accadde trovarlo a tavolini delle “”Giubbe rosse”” [noto luogo di ritrovo degli intellettuali]. Infatti, non avrei saputo vederlo nell’abitudine dei caffè, in conversazione con personaggi quali Landolfi o Delfini, Vieri Nannetti o Sebastiano Timpanaro senior, Raffaello Franchi dall’arguto fiorentinismo borghigiano. Neppure potevo immaginare un dialogo scoperto fra lui e Carlo Emilio Gadda. Anche negli interessi germanistici, i suoi non eran quelli di Leone Traverso. Hofmannsthal George, Trakl, indagati e tradotti da Traverso portavano lontano dalla linea che egli praticava. Che ha per autore base Mann, letto in lingua originale. Ricordo bene le sue osservazioni, la vertebra critica portante; i confronti fra traduzioni e lingua primaria.

Coordinatore di un suo organismo, lo appagava il rispecchiamento, il confronto con l’organismo manniano. Non lo ascoltai mai, in sede letteraria, parlare di un frammento, di una prosa d’arte, d’una singola poesia contemporanea. La sua necessità andò sempre a chi traspose nel grande ciclo narrativo la fondamentale dimensione autobiografica, intesa quale arcata di storia, di “”poetica””. Mann, Proust, Joyce. Una congenialità. Poiché i contenuti morali, le scelte poetiche, la coerenza stilistica di tutta l’opera di Dallapiccola, sprigionano la sottesa e trasfigurante allegoria autobiografica (4).

Fanno in un certo senso parte della mitologia biografica e autobiografica anche le sue superstizioni, la sua spasmodica devozione al numero, il culto mistico del particolare, la severa disciplina di vita e di lavoro. Perfino nei suoi aspetti più abitudinari, quasi maniacali: le igieniche passeggiate mattutine e serali sempre con gli stessi itinerari e contando i passi (i proverbiali “”seimila passi”” giornalieri), quasi a scandire pendolarmente il tempo e lo spazio dì una presenza reale; le sedute a tavolino o al pianoforte distribuite in tre periodi della giornata (mattina, pomeriggio e sera), con orari esattamente prefissati e rispettati; il tempo esattamente calcolato per le visite; la sigaretta come compagna di tutte le ore, da fumatore accanito; i pasti consumati in trattoria, a pensione, stessa ora e stesso tavolo. Minestra e fagioli toscani come piatti preferiti. Gita “”fuori porta”” o cinematografo, una sua passione, specie la domenica. Pochi i punti diversivi (non possedette mai la televisione, solo la radio, né l’automobile). Insomma, la regola come forma di vita, la concentrazione e la pazienza, goethianamente, come premesse dell’arte. Erano questi l’alfa e l’omega della vita di Dallapiccola, momenti vissuti con gioia, con animo grato, qualcosa di molto simile alla felicità, nonostante i rovelli interiori, le inquietanti tensioni della creazione e le preoccupazioni sull’avvenire. Appartenevano alla sfera privata anche altri riti, più insondabili: la famiglia come valore e rifugio inattaccabile e privatissimo, soprattutto negli anni di lontananza e di isolamento; la chiesa come luogo sacro dello spirito in cui raccogliersi in preghiera, a interrogarsi, con fede comunque salda, sui misteri della religione.

Ma esisteva, è esistito lungo l’arco di tutta la sua vita, un altro Dallapiccola; affilato, pungente, ironico, intransigente, intollerante e settario, talora caustico, sempre pronto alla battuta di spirito e alla citazione folgorante, ma anche tanto pieno di attenzioni e di comprensione per gli altri, soprattutto per gli umili, quanto sprezzante per i potenti: accessibile solo a coloro che lo conobbero da vicino, a cui fosse consentita, se non la confidenza, riservata a pochissimi, almeno un contatto più assiduo, meno formale. Il rapporto con gli allievi, per esempio. Nel 1934 Dallapiccola aveva vinto il concorso per la cattedra di pianoforte complementare al Conservatorio di Firenze. Il pianoforte complementare è quella materia comune agli studenti di tutte le classi principali di composizione, strumento e canto che serve come base pratica alle loro discipline specifiche: tutt’altra cosa dal pianoforte principale, in cui s’insegna invece il pianoforte ai futuri pianisti. Benché avesse ottenuto l’idoneità per entrambe le materie, Dallapiccola optò per la cattedra “”inferiore””, meno prestigiosa, ma anche meno esposta. Questa scelta equivaleva forse inconsciamente a liquidare per sempre ogni residua ambizione di carriera pianistica, ma aveva il vantaggio di lasciargli più tempo a disposizione per dedicarsi alla composizione. Inoltre gli consentiva di occuparsi di questioni compositive attraverso l’analisi e la lettura dei testi: in altri termini, di guardare a tutta la musica, non solo a quella pianistica. Ed era questo che gli premeva, sempre in funzione della composizione.

Nonostante che con l’accrescersi della sua fama tenesse corsi di composizione in tutto il mondo (dopo la guerra, soprattutto nelle più importanti università americane), Dallapiccola mantenne la cattedra di pianoforte complementare al “”Cherubini”” fino al 1 ° ottobre 1967, quando chiese di essere collocato in pensione: salvo una breve parentesi – dal 1940 al ’44 – in cui passò, per motivi essenzialmente economici, a insegnare composizione, nominato con il “”Decreto Bottai”” per “”eminenti meriti””. La cosa non deve meravigliare più di tanto: da tempo il suo insegnamento aveva superato i limiti delle usuali lezioni di pianoforte. II tipo di insegnamento che gli stava a cuore – formare delle persone, comunicare delle esperienze, non inculcare delle regole in base a programmi d’esame antiquati – poteva essere svolto assai più proficuamente nella libertà d’azione di una materia complementare. La sua classe divenne un punto d’incontro proprio di quei giovani compositori che non trovavano altrove lo spazio di svilupparsi creativamente; le sue lezioni di analisi, basate sul confronto con i testi e sull’ascolto, soprattutto di partiture moderne sconosciute affatto ai più, divennero proverbiali e attirarono uditori anche da altre classi. Argomento delle lezioni erano anche conversazioni e discussioni su questioni poste dagli scolari, ora su temi di attualità, di etica e di comportamento, ora su problemi estetici, filosofici o letterari, che spaziavano dalla musica alla letteratura, alle altre arti. Dallapiccola evitava di portare in classe i propri rovelli compositivi, men che mai di sottoporre all’attenzione degli studenti le proprie opere; il suo esempio era però di stimolo e di modello a coloro che intendevano abbracciare la carriera compositiva, e non solo a questi: anche se non si può parlare di una vera e propria scuola dallapiccoliana, nessun musicista che abbia studiato in quegli anni a Firenze si è sottratto, direttamente o indirettamente, all’influsso della sua personalità.

Dallapiccola attirò molti studenti anche dall’estero, sia prima che dopo la guerra. Monika Mann, secondogenita di Thomas Mann, che fu sua allieva di pianoforte a Firenze nel 1935, così lo ricordava:

Mentre suonavo, Dallapiccola stava seduto dietro a me, abbastanza distante, su un divano, nell’oscurità e non mi interrompeva mai. Ma io lo sentivo e lo vedevo […]. Ho conosciuto Luigi Dallapiccola sempre e solo come un uomo e un artista entusiasta. Parlava di libri e di teatro, di scultura e di danza di tutti i paesi […]. Lo ricordo animato da uno spirito vigile, non nel senso intellettuale, ma in quello di uno spirito pieno di brio, che sa afferrare le cose nella loro interezza e coglierne i frutti (5).

Un disegno a carboncino del pittore fiorentino Baccio Maria Bacci, dedicato nel novembre 1930 a Paola Ojetti, ci offre un ritratto che si può definire fedele del giovane musicista: il volto spigoloso, gli occhi sporgenti, grandi e vivi, le sopracciglia folte, il naso aquilino, le labbra carnose e atteggiate a un lieve sorriso ironico, il collo tozzo, le braccia lunghe e forti (e si dovrebbe aggiungere, fuori ritratto, la statura bassa, le gambe piccole e corte) . Pur se niente, in quest’uomo fisicamente poco attaente, dalle membra sproporzionate, poteva dirsi in sé bello, la figura emanava una luce straordinaria, che in questo ritratto s’identifica con la serietà orgogliosa di un’attenzione rivolta lontano, con lo sfavillio dorato, sagace e concentrato, dello sguardo. La sicurezza orgogliosa di uno sguardo d’artista unita all’intima tenerezza di un’umana comprensione. Un fascino fiammante, un’aura magnetica. La vista penetrante, acuminata di Dallapiccola. Un carattere aspro e delicato, psicologicamente complicato e talora contraddittorio, intollerante ma non ambiguo.

Sono disposto ad ammettere che il mito della torre d’avorio abbia esercitato su di me un fascino per un certo tempo: ora mi accorgevo, riandando al passato, come quella fosse stata un’illusione di breve durata, allo stesso modo che illusione – e poco importa se di durata breve o meno breve – è il pretendere di rinnegare la tradizione. Si ha un bel volersi chiudere in noi stessi: non tarderemo a renderci conto come l’eco delle tragedie incombenti arrivi a noi; si può ben rinnegare la tradizione – a parole –, anche con una boutade: ma questa, elemento primordiale e, quindi, assai più forte di noi (non dipendiamo forse dall’aria che respiriamo, dal paesaggio che siamo abituati a contemplare sin dall’infanzia, dal cibo di cui ci nutriamo?), s’intruderà – come la Sorge – di soppiatto, in ogni dove (6).

La Sorge. Ossia la goethiana Cura: l’apprensione, la preoccupazione, il timore. Ma anche il pensiero per una responsabilità che in Dallapiccola, nel delicato processo bio-fisiologico che congiunge la giovinezza alla maturità, si risolse in una duplice presa di coscienza mai più rinnegata: della brutalità delle dittature da un lato, dell’esigenza di gettare un ponte fra tradizione e modernità dall’altro. E fu da questa convergenza che scaturì la scintilla dell’impegno di Dallapiccola, la sua coerenza e il suo rigore di uomo e di artista.

 

Note

 

(1) L. Dallapiccola, Parole e musica, a c. di F. Nicolodi, introd. Di G. Gavazzeni, Il Saggiatore, Milano 1980, p. 377.

(2) F. Nicolodi (a c. di), Luigi Dallapiccola. Saggi, testimonianze, carteggio, biografia e bibliografia, Suvini Zerboni, Milano 1975, pp. 44-45.

(3) L. Dallapiccola, Parole e musica cit., p. 254.

(4) L. Dallapiccola, Parole e musica cit., pp. 26-27.

(5) Cit. in D. Kämper, Luigi Dallapiccola. La vita e l’opera, Sansoni Editore, Firenze 1985, p. 170.

(6) L. Dallapiccola, Parole e musica cit., pp. 380-381.

beQuadro, a. 24, aprile-settembre 2004, n. 94-95

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