Le Sinfonie di Šostakovič tra fede e nichilismo

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Nell’insieme, le quindici Sinfonie di Dmitrij Šostakovič (1906-1975) occupano all’incirca dodici ore di musica, ma è come se durassero un’eternità. Ed è un po’ come fare il giro del mondo della Sinfonia del Novecento. Alla fine ci si sente frastornati, esausti e un po’ depressi. Ma allo stesso tempo si è imparato molto su quello che il nostro secolo ha rappresentato nel campo dell’arte e della musica, in rapporto al passato e al suo presente. Istruttivamente, quel che manca è un’indicazione sul futuro, non solo della Sinfonia, ma dell’arte e della musica in generale.

In Šostakovič tutto viene portato all’estremo. È estremizzata la parodia, nel senso dei rimandi alle forme classiche, della forma sinfonica in quanto tale. Sono estremizzati l’ironia, il sarcasmo, il lirismo, il moto e la stasi, l’ottimismo e il pessimismo, che si alternano come in un pendolo impazzito: per non parlare della varietà vertiginosa dell’orchestrazione. È estremizzato perfino il folclore, così lontano dall’immagine che siamo abituati a riconoscere nella tradizione dei temi e dei ritmi russi. Tutto sembra condotto alla soglia di un significato tanto più abnorme quanto più radicato nei canoni formali della Sinfonia, quelli dell’esposizione, dell’elaborazione e della ripresa. Presenti in chiara evidenza anche quando intervenga la voce e il coro, spingendo la Sinfonia verso le dimensioni, anch’esse estreme, della Cantata, sia nelle prime, sia nelle ultime composizioni.

Che cosa significa questa tendenza all’estremismo, così tipica di Šostakovič? Una cosa, principalmente: la totale sfiducia nella funzione sociale dell’arte. L’arte è ideologicamente un non-senso, il suo compito consiste unicamente nel porre se stessi e il mondo di fronte alla storia, per affermare una libertà che sta oltre i confini dell’apparenza. Ogni apparenza è un modo di negare la realtà, di irriderla e di volgerla al suo contrario, in una spirale che si avvita su se stessa e si risolve in una sospensione. Ne consegue che ogni atteggiamento espressivo deve essere portato a un punto di non ritorno, per cogliere l’ebbrezza lancinante del suo non-essere. Eppure, in quel momento, esso esiste e testimonia la sua volontà di esistere, di affermarsi in quanto emblema di una comunicazione. E noi sentiamo che dietro la negazione vive il desiderio, spesso l’intuizione di una sostanza, di una luce.

Ciò rende il nichilismo di Šostakovič pervaso di una strana attesa, di una fede incombente, nella quale la sua storia personale si intreccia con le vicende artistiche, con i dubbi e le inquietudini del nostro secolo.

Questo aspetto della musica di Šostakovič risalta in modo particolare, per contrasto, nella visione che ne dà Mstislav Rostropovič: una visione tutta sbilanciata sul versante dell’estroversione, della musicalità allo stato puro e dello scatenamento delle forze psichiche. Siamo agli antipodi di Mravinskij e di Kondrašin, nel cui severo incedere si scorgono le orme grandiose dell’apocalisse e le vaghe tracce di una redenzione. A Rostropovič interessa soprattutto il lato umano di questa musica, la sua eclettica, continua trasformazione: con risultati specialmente brillanti nelle Sinfonie meno cupe e dolenti, come la Prima e la Nona, e in quelle più tragicamente celebrative, come la Settima e l’Undicesima.

È insomma uno Šostakovič vitalistico e coloristico, inventivo e non problematico. Il che, per converso, ne esalta proprio la problematicità, quel punto di sospensione che sta oltre la musica e che ci appare, proprio perché non sottolineato, tanto più presente e minaccioso, segnale dell’oscuro e dell’ignoto.

 

Sˇostakoviˇc, Sinfonie; National Symphony Orchestra, London Symphony Orchestra,
dir Rostropoviˇc, Teldec 0630-17046-2 (12 cd).

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