L’ora di Schubert

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Se tre indizi fanno una prova, è scoccata in Italia l’ora del teatro di Schubert. Il Teatro Lirico di Cagliari è appena reduce da un’importante inaugurazione di stagione con Alfonso und Estrella, la più densa fra le opere teatrali di Schubert, mai prima rappresentata in Italia e di rarissimo ascolto anche all’estero. Il Teatro Comunale di Bologna metterà in scena a maggio in prima mondiale l’opera comica in 2 atti Die Freunde von Salamanka (Gli amici di Salamanca), nella nuova revisione critica curata da Marco Beghelli, direttore Rodolfo Bonucci, regia di Franco Ripa di Meana. Infine, in luglio, per le Settimane Musicali Senesi si avrà a Siena, coprodotta dall’Accademia Musicale Chigiana e dall’Orchestra della Toscana, la rappresentazione (anch’essa una prima assoluta per l’Italia) del Singspiel in un atto Die Verschworenen (Le congiurate), libero adattamento dalla Lisistrata di Aristofane. Anche gli interpreti sono accomunati da un non effimero coinvolgimento in un progetto più vasto: Luca Ronconi, regista a Cagliari, ci aveva già dato una pregevole edizione dello schubertiano Fierrabras al Maggio Musicale Fiorentino 1995, dalli cui rami questa presente concezione discende; il direttore di Cagliari, Gérard Korsten, sarà sul podio anche a Siena, e da lui diretta in uno spettacolo interamente ideato da Denis Krief tornerà in scena da protagonista Eva Mei. Interpreti, dunque, che sembrano credere nel teatro di Schubert e su di esso sono pronti a investire il loro impegno e la loro credibilità.

Non si tratta però di una sfida, ma semmai di un risarcimento dovuto a uno dei più grandi e inimitabili creatori della storia della musica, che sul teatro era convinto di costruire la sua fama presso i posteri e che non smise mai, componendo una ventina di titoli (contando anche gli abbozzi incompiuti) in una quindicina d’anni, di coltivare l’illusione di affermarsi nel teatro. È un caso, o se si vuole un enigma, dei più inesplicabili fra quanti si possano considerare tali. La domanda sorge spontanea: perché la produzione teatrale di Schubert si risolse in una serie micidiale di delusioni e di fallimenti, destinati a durare anche a futura memoria? Che cosa gli ha impedito di entrare, sulle ali del nome d’autore, nel repertorio tradizionale? La risposta chiama in causa in primo luogo i librettisti che si avvicendarono nella collaborazione con il musicista, imputando loro, quasi senza eccezioni, quella mancanza di “senso del teatro”, quella inefficacia drammaturgica e quella fragilità poetica che finivano per indebolire anche una musica singolarmente bella. Non bisogna però dimenticare che nella stragrande maggioranza dei casi (soprattutto in quelli che coinvolgevano i suoi amici, come in Alfonso und Estrella) Schubert si mostrò pienamente soddisfatto tanto della scelta dei soggetti quanto dei testi. In altri termini fu lui, Schubert, a essere convinto di quei libretti, dopo essersi innamorato di una situazione magari giudicata promettente. E non risulta che, come era capitato non solo all’incontentabile Beethoven ma perfino all’esperto, astuto Mozart, si lamentasse della mancanza di soggetti degni e di librettisti adeguati. Vivendo di fatto ai margini del teatro e coltivando un’opinione quantomeno vaga, ovvero utopica, circa il funzionamento dei suoi meccanismi, Schubert non considerò mai la creazione di un’opera come qualcosa che esulasse da un diretto e familiare lavoro artigianale o richiedesse attenzioni speciali anche nel prevedere, nell’agire, nel pretendere, nel soffrire. Si fidava dell’esperienza altrui, senza pensare neppure lontanamente di intervenire nella drammaturgia e nella stesura dei testi: difatti non lo fece mai. A lui non restava che comporre la musica.

La musica, appunto. Che diviene in se stessa, e per se stessa, la ragione primaria del suo teatro. Il teatro di Schubert non rappresenta, evoca. Ambienti, situazioni, stati d’animo sono chiamati dalla musica a rappresentare se stessi, quasi prescindendo dal flusso drammatico in cui si muove l’azione. Questo flusso, appena più costante nelle opere interamente musicate tipo Alfonso und Estrella che nei Singspiele (e non solo per la semplice ragione che i Singspiele sono costituiti di pezzi chiusi intervallati da dialoghi parlati, mentre l’opera propriamente detta tende alla continuità ininterrotta), non presenta infatti uno sviluppo o un percorso narrativo connesso all’evolversi dell’azione, ma è retto da una rete di associazioni di carattere eminentemente musicale. Schubert riempie di musica i tempi e gli spazi scenici senza preoccuparsi di renderli dinamici e conseguenti; dopo esser stati creati nell’ambito di una situazione, essi si estinguono, quasi evaporando verso orizzonti virtuali. Così facendo la musica neutralizza il dramma nelle proprie proporzioni e misure per indirizzarsi verso un lungo viaggio in regioni immaginarie, appena collegate all’evento scenico. La rivelazione di un mondo di sogno al di là del teatro è la conseguenza non del dramma che si sta svolgendo sotto i nostri occhi ma della parabola descritta dalla musica, in cerchi concentrici, ma sempre più ampi, lontani dal cuore dell’azione. E lo stesso accade con i personaggi. Essi si perdono e si ritrovano, parallelamente alla vicenda, in un corso di pensieri che la musica si incarica di trasferire in una dimensione fantastica, universale. Perciò non si identificano, pur facendone parte, con una storia, e non ambiscono a essere caratterizzati psicologicamente. Sono piuttosto apparizioni naturali, figure ideali, entità fantomatiche di un mondo irreale, epifanie di sentimenti e di emozioni che la musica, con mezzi evocativi, avvolge e dispiega.

Mettere in scena siffatte iridescenze non è impresa facile. Soprattutto quando alla base vi sia, come in Alfonso und Estrella, un dimostrativo pensare e sentire in grande. Luca Ronconi ha colto con molto acume, di natura intellettuale più che emotiva, questo tono speciale che proviene da una sovrapposizione di piani: ciò che la musica di Schubert esprime non è tanto il carattere dei personaggi che agiscono sulla scena, dal regista ridotto a un gioco stilizzato di pupazzi-marionette a grandezza naturale, quanto l’essenza dei sentimenti di cui sono portatori e del contrasto, anche tra valori morali, che vi è sottinteso.

Così l’opera secondo il regista inizia come se si trattasse di una famigliare Schubertiade, con i cantanti sul proscenio in abiti da sera del tempo tra specchi e poltrone e le fiabesche marionette dietro a doppiare il gioco scenico, e solo a poco a poco intreccia realtà e finzione facendo intervenire i personaggi in carne ed ossa, e con abiti cavallereschi, nell’azione. Ribaltando la prospettiva, nel finale è invece una schiera di candidi manichini metafisici a ingombrare l’intero proscenio, quasi che esso fosse stato militarmente occupato da esseri senz’anima e senza vita; mentre gli attori-cantanti si sono ormai talmente immedesimati nella parte da non poter più rinunciare allo spazio scenico: ed è lì che si scioglie il convenzionale lieto fine. Tutta questa idealizzazione e perfezione retorica sembra attratta, proprio nella sua enfasi esibita, cui dà rilievo l’impianto barocco della scena fissa di Margherita Palli, sorta di allegoria di un Trionfo della musica rappresentato con strumenti accatastati, da qualcosa di dubbio, di sfuggente, di restio a farsi afferrare. Un’urgenza non normalizzata getta continuamente sull’allegoria esemplare l’ombra di passioni concretamente vissute e combattute: e proprio ciò fa sì che la musica, assecondata da Korsten e dai cantanti con finezza più liederistica che drammatica, e con tinte attutite, entri nel vortice di una rappresentazione reale di un mondo irreale, e comunichi non soltanto la quintessenza di sentimenti assoluti ma ne indichi anche la fragilità, la debolezza, l’inverosimiglianza, l’illusorietà.

Teatro come sogno, come luogo dell’immaginario, come astrazione fantastica. Dove non è importante tanto chiedersi che cosa sia causa e che cosa effetto ma smemorarsi nel tempo ed errare nello spazio infinito in un continuo perdersi e ritrovarsi. Le storie dei cavalieri e dei paladini di Schubert si allontanano dal piccolo mondo quotidiano, dove pure hanno le loro radici, per immaginare il grande mondo senza confini e svanire da ultimo, quasi liberandosi dalla terra, nell’illimitato. Per Schubert è in questi orizzonti che tutto idealmente si armonizza, lasciando appena qualche fessura aperta. Invertendo i fattori, lavorando sulle crepe, non è tutto ciò straordinariamente moderno?

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