Luigi Dallapiccola – Il prigioniero / Volo di notte

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Luigi Dallapiccola, un musicista europeo

 

Luigi Dallapiccola è stato uno dei maggiori compositori italiani del Novecento e insieme una figura di spicco della musica europea. Porre l’accento sulla vocazione europea di Dallapiccola significa anzitutto riconoscere in lui un modello di apertura mentale e di determinazione artistica nei percorsi accidentati e nelle eclettiche vicende della nostra epoca e in secondo luogo inquadrare la sua evoluzione nella progressiva conquista di prospettive che, partendo da solide radici culturali e umanistiche, ampliarono gli orizzonti della musica italiana.

Non bisogna dimenticare che quando Dallapiccola compositore si affacciò alla ribalta, nei primi anni Venti del Novecento, l’Italia era ancora essenzialmente il “”Paese del melodramma””. Questa pesante ipoteca, che gravava su una cultura per molti versi provinciale e nazionalisticamente chiusa in se stessa, lasciava spazi angusti a chi volesse imboccare vie nuove. Alcuni compositori della generazione precedente, nati cioè attorno agli anni Ottanta dell’Ottocento, come Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti e soprattutto i più giovani Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella, accomunati dal medesimo obiettivo di elevare la musica italiana sul piano culturale rinnovandola e aprendola alla civiltà europea, avevano cercato isolatamente di reagire a questa situazione di fondo. Ne erano nate aspre polemiche incentrate sull’italianità in musica e sull’internazionalismo: vocabolo, quest’ultimo, che nel gergo di pochi anni dopo avrebbe assunto il significato di “”antifascista””, se non di “”comunista””. L’istanza di un rinnovamento e di un’identità nazionale che di pari passo potessero far avanzare la vita musicale italiana, allineandola sulle posizioni di quella europea, travalicava le forme e i linguaggi specifici della musica e si addentrava nel confronto con gli altri ambiti dell’organizzazione culturale e della conoscenza artistica, storica e soprattutto letteraria: da essi traendo stimoli, giustificazioni e supporti fondamentali.

Comune a queste istanze di rinnovamento era l’atteggiamento critico nei confronti del melodramma ottocentesco – e più in generale dell’Ottocento in quanto secolo dominato in Italia dal gusto dell’opera -, estremizzato nel rifiuto, che sarà poi netto in Dallapiccola, se non del melodramma in quanto tale, delle correnti che facevano capo al verismo e al naturalismo della “”Giovane scuola””, sua appendice in tempi e abiti moderni. Questa tendenza si rispecchiò in un fenomeno generale di rilevante importanza, tipico del teatro musicale novecentesco e quindi anche di Dallapiccola: il compositore che diviene librettista di se stesso, ossia autore dei testi delle proprie opere. Anche se spesso, più che di soggetti originali, si trattava di rielaborazioni che assolvevano funzioni eminentemente drammaturgiche e musicali (il ritorno alle forme chiuse dell’opera antica, o all’opposto la continuità del dramma musicale), il compositore sentiva ora di possedere le qualità per affrontare direttamente e da solo i problemi del testo, il cui carattere, oltretutto, non era più quello del “”semplice”” libretto d’opera tradizionale. L’esempio di Wagner fu senza dubbio il modello che spingeva in questa direzione: metabolizzato Wagner, non era più pensabile il libretto d’opera tradizionale, proprio in nome di una nuova dignità del compositore. L’eredità wagneriana esercitò la sua influenza anche su coloro che la rifiutavano, battendo, in Italia, altre strade.

Parallelamente, la riacquisizione e la rivalutazione del patrimonio musicale antico – cioè preottocentesco – avevano aperto la via alla rivendicazione, anche in senso orgogliosamente patriottico, del primato e della grandezza universale dell’Italia nel campo della musica strumentale. La convinzione che la nuova musica italiana dovesse basare la propria identità tanto sullo studio e sull’insegnamento degli antichi maestri quanto sulla assimilazione di nuove condizioni ed esigenze artistiche, saldava questo recupero del passato con l’esplorazione di nuovi, originali terreni formali e linguistici e si collegava idealmente alle istanze di riscossa della cultura nazionale, senza preclusioni nazionalistiche. É in questo ambito che si delinea la vocazione europea di Dallapiccola, superando condizioni ancora obiettivamente difficili: sia per una generale mancanza di circolazione delle partiture, cui solo in parte ponevano rimedio le esperienze d’ascolto, sia per una tendenza della cultura dominante ad assorbire nella ideologia autarchica anche ciò che provenisse dall’esterno.

Prima ancora di compiere la scelta decisiva e definitiva dell’adozione della dodecafonia come base del comporre, adozione che comportò anche una scelta di campo in favore della modernità, Dallapiccola fu attratto in modo singolare dalle voci della musica europea, non solo da quelle di più antica tradizione, come la francese e la tedesca, ma anche dalle nuove esperienze, intrise di spirito popolare, delle scuole slave. La conoscenza dei musicisti della Scuola di Vienna – Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern – ebbe sviluppi concreti nell’ambito della creazione ma non chiuse la porta a sollecitazioni di altro genere. Molti di questi presupposti erano infatti da ricercare parallelamente al di fuori della musica, soprattutto nella letteratura, di cui Dallapiccola fu un cultore assiduo, quasi esaltato. È proprio nell’incontro con la letteratura che la produzione di Dallapiccola, elettivamente, quasi costituzionalmente vocale, sviluppa i suoi caratteri artistici e musicali. Nella sua parabola c’è una coerenza ininterrotta, fatta di svolgimenti e di ritorni ciclici su nodi poetici cruciali, su testi e con-tenuti scandagliati in profondità. Anche la fase giovanile, segnata dal contatto con la poesia popolare e dialettale di Biagio Marin e dall’inevitabile incrocio con D’Annunzio, ha una ragione precisa, per così dire propedeutica: Dallapiccola presta ascolto alle voci della sua terra natale e fissa in essa le sue radici prima di allontanarsene verso orizzonti più vasti. E lo fa sperimentando la propria abilità compositiva senza indulgere a compiacimenti angustamente provinciali ma anticipando quasi il recupero critico, in prospettiva moderna, dell’identità dialettale della letteratura di confine.

Il ricchissimo patrimonio acquisito con la formazione classica ricevuta durante la prima giovinezza affiora subito in un filone destinato a non esaurirsi mai nella produzione vocale di Dallapiccola, quello della poesia religiosa medievale: Jacopone da Todi, Brunetto Latini; ma anche gli anonimi laudari dugenteschi, Sant’Agostino, i poeti della tarda romanità e del medioevo cristiano nella lingua dei padri e del rito, il latino. Testi impervi e talvolta tutt’altro che consueti, che Dallapiccola va a scovare nelle biblioteche servendosi anche del consiglio dei filologi, cercando con acribia le consonanze con le proprie corde di compositore. Non v’è, neppure qui, compiacimento estetizzante o amore per l’inedito fine a se stesso, e nemmeno generico ripiegamento verso quella pietas religiosa che pure informa l’umanesimo di Dallapiccola, bensì recupero cosciente di voci sotterranee, riportate alla luce nella loro forza espressiva intatta oltre la polvere dei secoli e saldate in un processo osmotico fra antico e moderno che, crescendo la padronanza stilistica, sempre più libera le individualità linguistiche e formali. Il fondamento umanistico e letterario, esteso intellettualmente ed espressivamente, diviene così presupposto della creazione personale. E significativamente questa ricerca si espande a filoni consanguinei di altre epoche e di altre culture, acquisite solo in parte dalla coscienza dell’Italia contemporanea: il Kalevala nella traduzione di Paolo Emilio Pavolini, La chanson de Roland nella versione di Giovanni Pascoli e poi nell’originale francese antico, le liriche greche nella traduzione di Salvatore Quasimodo, la poesia spagnola dei Machado, Mendes e Jiménez, quella di Joyce mediata da Eugenio Montale, sino ai grandi “”classici”” tedeschi Goethe e Heine. All’apice di questo processo, la conoscenza dei grandi romanzi di James Joyce, Marcel Proust e Thomas Mann – letti nella lingua originale – confermerà, in mancanza di trattati e di partiture da studiare, le oscure premonizioni e le intuizioni isolate sulla natura della musica dodecafonica: a dimostrazione, scriverà Dallapiccola, che, in fondo, “”il problema attuale delle arti è uno solo””. Tutti questi elementi contribuirono a cementare i tratti di una personalità profondamente intrisa di valori umanistici e di tensioni spirituali, a cui la musica fornì uno sbocco naturale favorito da un talento tanto innato quanto acquisito con ferrea autodisciplina, nella convinzione che l’impegno artistico, coltivato nel dubbio e nella solitudine, dovesse rispondere a un senso del dovere di intransigenza quasi morale, insieme civile e umano.

Alla base di questo carattere, proprio in quanto composito, va posto senza dubbio, come premessa fondamentale, il luogo di origine, lo humus di provenienza: una penisola, l’Istria, e una città, Pisino, che erano il luogo d’incontro di tre culture, di tre nazioni, di tre popoli, italiano, tedesco e slavo. Ciò fece di Luigi Dallapiccola, come prima di lui di Ferruccio Busoni, cui anche per questo si riconosceva intimamente affine, una di quelle ben note figure di frontiera nella cui Grenznatur o “”indole confinaria”” coesistevano l’amore smisurato per la propria terra e l’irresistibile attrazione, nutrita di tolleranza, curiosità e fervore, per le espressioni più diverse dello spirito, per le tradizioni del molteplice: in altri termini, un individuo proiettato verso l’Europa e il mondo.

 

Arnold Schönberg ha affermato che la vera vita di un artista comincia solo dopo la morte, quando la consapevolezza che un itinerario creativo si è definitivamente concluso lo colloca sul piano delle acquisizioni assolute. In altri termini, lo consegna alla storia. Dallapiccola, che in ogni atto anche minimo tendeva ad attingere la misura di eternità che all’uomo è concessa, non temeva il verdetto della storia: del resto, in essa era vissuto, con essa si era confrontato in momenti difficili, quando la fedeltà a scelte contrarie alle mode lo aveva portatc ineluttabilmente alla solitudine e all’isolamento, alla condanna di essere giudicato un musicista ostico e cerebrale. Ma mai avrebbe potuto sottrarsi al proprio destino, che era quello d dare voce e forma all’ansia di ricerca e di espressione che l’animava, dicendo fino in fondo anche quando sembravano inattuali, le cose che aveva da dire. Siccome subito dominante s era palesata la passione per la musica, e siccome poi come musicista aveva voluto essere ur compositore, accettare il proprio destino significò anche vivere nel presente la situazione concreta dell’evoluzione del linguaggio, dello stato della musica (ma anche dell’arte e della cultura in generale) nel suo tempo. Così, scegliere la dodecafonia, all’inizio un atto di puri deduzione logica, divenne un traguardo che in un secondo tempo si sarebbe tramutato nella determinazione definitiva e cosciente di tutta la sua vita d’artista.

Molto è stato detto e scritto sull’adesione quasi apodittica di Dallapiccola alla dodecafonia, il metodo di composizione con dodici suoni riferiti solo l’uno all’altro, senza relazioni tonali, creato da Schönberg, e sulla sua devozione verso i Maestri della seconda Scuola viennese, che la praticarono e l’imposero. Le ragioni di questa adesione mai rinnegata, gli sforzi puntigliosi per riconoscere i principi attraverso i quali essa si realizzò, Dallapiccola li illustrò in più occasioni, e con la massima chiarezza. Il fatto che la dodecafonia costituisse anzitutto una lingua di base, dotata di sostanza e di stabilità, sulle cui leggi innestare la propria visione personale della musica, lo accomunava sensibilmente al padre fondatore di essa, Arnold Schönberg, il quale nella dodecafonia come punto d’arrivo di un processo nato con la disgregazione e l’esaurimento del sistema tonale identificava un baluardo asceticamente eretto sull’abisso di vuoto e di disperazione dell’esperienza espressionista: esperienza che a Dallapiccola rimase però, per ragioni non soltanto storiche, fondamentalmente estranea. Ma se la dodecafonia rappresentava la garanzia di valori stabili su cui operare, essa era anche uno “”stato d’animo””, un “”modo di essere”” conseguente a una necessità costitutiva del carattere di Dallapiccola (il modo di essere e di sentire di Dallapiccola stesso) e al tempo stesso un veicolo di libertà per una scelta individuale, dettata dalla fantasia e dalla personalità del creatore. Considerazione decisiva, che getta una luce illuminante all’interno di Dallapiccola uomo e compositore.

La sua formazione culturale, che così profondamente avrebbe inciso su una natura già predisposta, era avvenuta lungo due direttrici complementari: a una solida educazione umanistica, radicata nell’infanzia e alimentata dall’ambito familiare e sociale, perseguita poi per tutta la vita con tenace attaccamento e convinzione, si era aggiunto col tempo, nel nome della musica, l’attrazione per la cultura e l’arte tedesca: l’una e l’altra calate in una inquietudine tanto vigile quanto fertile, dovuta anche al fatto d’esser nato e cresciuto in una città di frontiera, nel miscuglio di stirpi e di costumi che facevano ancora capo all’impero austro-ungarico. In quella mentalità inquieta, questo tardivo figlio della civiltà mitteleuropea ormai al tramonto seppe trovare la molla per non disperdere, pur tra differenti interessi, la lucida coscienza della propria “”missione”” (termine che implicava senz’altro un senso religioso), proseguendo un cammino ideale che aveva avuto un illustre precedente nella figura del “”laico”” Ferruccio Busoni (anch’egli conteso da due patrie e due culture), sorta di nume tutelare a cui appoggiarsi nei momenti dell’angoscia e del dubbio.

Dubbio interiore, s’intende, confortato da non meno profonde e tenaci certezze riguardo i valori.. Dubbio men che meno toccato dalle difficoltà esteriori, che pure furono tante quando Dallapiccola, trasferitosi a Firenze per continuare l’apprendistato musicale, vi trovò soprattutto incomprensione e ostilità, e dovette a lungo sopportare, com’egli stesso ricordava, “l’amarezza dello scherno”. Ma Firenze, alla quale egli rimase attaccato per tutta la vita (e non solo per le sue pietre e il suo paesaggio, per la ricchezza della lingua e le lapidi dantesche che ne costellano il centro, come amava ripetere), si rivelò in seguito il luogo adatto per raccogliersi nel lavoro e superare ampiamente il buio di quei primi anni di ambientamento, che sarebbero stati del pari scomodi in qualunque altra città italiana.

Il tirocinio compositivo fu scandito da folgoranti illuminazioni. Esse cadevano su un terreno ancora immaturo, ma il loro sigillo si sarebbe impresso in modo indelebile sul giovane artista. Le prime opere, rifiutando le mode allora imperanti, partirono a recuperare, in un diatonismo volutamente esasperato, la grande tradizione madrigalistica del Cinque-Seicento (Gesualdo e Monteverdi), piegandola ad una moderna ed espressiva vocalità corale, e di pari passo a proseguire nella esplorazione, già avviata dai musicisti della generazione precedente, della musica strumentale italiana preottocentesca, e del suo versante opposto, il romanticismo tedesco innestato nell’epoca classica; mentre, d’altra parte, dopo l’età confusa dei tentennamenti, delle supine acquiescenze e delle accondiscendenze, già prendeva piede la conquista dell’impegno civile come contenuto dell’opera.

Se si dovesse indicare il centro ispiratore della musica di Dallapiccola, questo andrebbe individuato nel canto come matrice stessa dell’atto compositivo. E non soltanto per mere considerazioni statistiche, i due terzi della sua produzione contemplando la parola cantata, bensì perché, per Dallapiccola, la musica è canto, e non potrebbe essere altrimenti. Solo che il suo canto non si presenta nella forma in cui siamo abituati tradizionalmente a intenderlo, bensì sottoposto a un processo di mediazione, di cristallizzazione, che lo rende ora concentrato ora diluito, a seconda del modo in cui i valori melodici nascono e si dispongono, come in un messaggio strutturale cifrato, nell’impalcatura della serie dei dodici suoni. A volte accade che la serie già di per sé non sia altro che pura nostalgia del canto, affondante le radici in una specie di romanticismo represso, quasi ghiacciato da una razionalità che gli impedisce di espandersi, fors’anche di essere goduto come tale; eppure, sempre, quel ghiaccio risplende, “”super nivem dealbatur””. Onde, in consequenziale coincidenza, occorre ribadirlo, la scelta del metodo dodecafonico e della tecnica seriale come regno dell’ordine, della disciplina e della autoimposta costrizione, dalle cui fondamenta unicamente può liberarsi e prender vita l’immagine poetica; o più semplicemente rifiuto dell’improvvisazione, dell’istinto nebuloso, perfino del dono della trovata estrosa, peraltro posseduto in modo innato, per accedere, sostenuto da alti modelli, a una nuova dialettica della composizione.

II filo rosso che ha sempre guidato il cammino di Dallapiccola è la meta di una musica statica, capace di sospendere il tempo. La sua stasi è un’estasi, dolcissima, fissata in un istante: più che l’attimo di Faust, è stato giustamente osservato, quello di Sant’Agostino. Così, se la sostanza della sua musica si concretizza nel canto, nel canto come essenza della musica (“”alla melodia l’avvenire””, aveva proclamato Busoni), la tendenza a considerare la melodia come esplicitazione di rapporti idealmente depurati dal ritmo, cioè a tramutare il tempo in spazio, vanificando gli impulsi al moto, si realizza nell’equivalenza tra rapporti verticali e orizzontali consentita dalla griglia dodecafonica. In questo contesto la nuova dialettica dell’articolazione funziona da solvente, toccando vertici di virtuosismo stellare, ma sempre nella dimensione umanistica, quasi rinascimentale, di un artigiano padrone dei suoi strumenti di lavoro e di tutta la parabola creativa dell’opera. Anche il marcato senso costruttivo, il modulo architettonico, i canoni, i simboli, i numeri, le corrispondenze, le simmetrie a specchio di cui sempre più col tempo le levigate partiture dallapiccoliane si compiacciono, non rappresentano una schiavitù, né sono la caduta nel formalismo di una malintesa accademia contemporanea, ma restano un mezzo che, attraverso la tecnica, serve a puntualizzare lo stile, onde realizzare l’unità del discorso musicale. Per Dallapiccola l’elemento fondamentale di un’opera d’arte è la costruzione, l’esattezza, il senso di proporzione nemico di ogni dilettantismo.

Spesso la musica di Dallapiccola ricorda l’immagine di una salita lungo un pendio offuscato da nuvole, che all’improvviso si apre e si illumina: sono proprio queste illuminazioni (il momento culminante in cui tutto della composizione diventa chiaro, passato presente e futuro) a guidare come una cometa la via di Dallapiccola, lungo un tracciato di trasfigurazione che la sua opera più complessa e ambiziosa, Ulisse, rende addirittura emblematico. Se in Volo di notte e nel Prigioniero a essere rappresentata era stata la lotta dell’uomo contro qualche cosa che è assai più forte di lui, traducendosi in una sospensione piena di dubbi, di solitudine, di incertezza, Ulisse, nella sua tensione non solo metaforica verso l’alto, segna una vertigine visionaria, la meta di un approdo trascendente.

Dello stile dallapiccoliano, così improntato da apparire inconfondibile, un’altra delle peculiarità principali, accanto alla saldezza della forma, risiede nell’amore, implacabile fino allo spasimo, per il suono. Un suono inteso non già alla stregua di fenomeno acustico, o idolo materico, bensì come auscultazione interiore, professione di fede nei valori universali della musica in quanto decantazione di suoni. Anche ove permanga una certa ambivalenza di fondo, Dallapiccola la dissolve, liquefacendone sistematicamente i dati nelle sfere celesti del puro suono: la vocalità diviene essa stessa soffice e voluttuosa marezzatura di suoni, le armonie si rifrangono in una specie di cangiante iridescenza, i ritmi si smaterializzano, reclamando orecchi tesi a cogliere screziature sottili. Sotto questo profilo il suo tendere alla trascendenza e al soprannaturale significa, nel sigillo impresso dall’individuo, superamento delle contingenze del reale e proiezione nel futuro: tutt’uno con l’insegnamento che la virtù non sta negli artifici del linguaggio, nella reificazione della materia, bensì nello spirito, nell’uomo. Di qui, infine, insieme con il rifiuto quasi sdegnato di farsi cantore dell’angoscia e della negatività (come il circolo arroccato attorno a Darmstadt predicava, quasi ultima spiaggia alla musica consacrata dalla storia), lo scomodo e spesso incompreso ottimismo di Dallapiccola, la sua religiosità di credente così poco ortodosso pur nei suoi riti abituali, il suo misticismo (la rivelazione di Ulisse), il suo animo gioioso, qualcosa di molto simile alla felicità; atteggiamenti tutti idealmente incoraggiati dalla serena certezza, come awinti da un cordone ombelicale indistruttibile, della verità del messaggio di Schiller intonato da uno dei musicisti che egli più intensamente amò, Beethoven, nel finale della Nona Sinfonia: “”Brüder, iiber Sternenzelt / muss ein lieber Vater wohnen””, “”Fratelli, sopra la volta stellata / deve abitare un caro Padre””. Fratello, stelle, Signore: parole che anche Dallapiccola ha testimoniato esemplarmente con la sua musica.

Bruno Bartoletti / Orchestra  e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Teatro Comunale di Firenze – Fondazione, 67° Maggio Musicale Fiorentino

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