Mahler secondo Boulez:la Settima diventa canto del nulla

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Alla eventuale domanda su quale delle Sinfonie di Mahler si attagli meglio, per naturale affinità, alla personalità musicale di Pierre Boulez, la risposta verrebbe d’istinto: la Settima. Da questa che è la più difficile ed ostica delle Sinfonie di Mahler sembrano trarre origine anche alcune premesse del Boulez compositore, almeno sul versante della spietata durezza del linguaggio, del perfezionamento del contrappunto e della tecnica della variazione, della gelida oggettività delle visioni sonore. Perfino l’ostentato sentimentalismo di alcuni passaggi pare fatto apposta per esser visto con la lente d’ingrandimento del lucido disincanto bouleziano, in un’ottica ora straniante – e si direbbe straniante al quadrato – ora ironica. Di cui a giovarsi sarebbero anzitutto le due “Musiche notturne” del secondo e del quarto movimento, in cui il confine tra il banale e il sublime è sempre e ancora di problematica decifrazione.

La nuova incisione della Settima Sinfonia di Mahler realizzata da Boulez con l’Orchestra di Cleveland per la Deutsche Grammophon coniuga all’indicativo i condizionali fin qui retoricamente impiegati. La chiave di lettura reca tutta intera la firma dell’interprete e come tale non ha altri possibili termini di riferimento. Certo, essa non esclude affatto altre strade, da quella dionisiacamente delirante di Bernstein a quella amabilmente bonaria di Kubelik, per citarne solo due, grandissime, di direzione opposta: ma nella sua traiettoria Boulez procede con una coerenza e con una consequenzialità così ferree da risultare alla fine effettivamente unico. Ciò che più colpisce nel suo modo di affrontare Mahler – questo Mahler – è l’assoluto distacco da qualsiasi idea interpretativa enucleabile prima o dopo, men che meno per via estetica: come se Mahler venisse spogliato dell’immagine di sé accumulata per successive stratificazioni e ricondotto alla nuda sostanza del mero apparire. Sostanza dell’apparire non è un vano ossimoro, in questo caso: Boulez opera come Peer Gynt con la cipolla, per scoprire, giunto alla fine delle apparenze, il vuoto che ne è la sostanza, l’essenza più vera e profonda. Tanto che si sarebbe tentati (ma qui il condizionale è d’obbligo) d’intitolare la Sinfonia “canto del nulla”, viaggio alla ricerca dell’identità perduta e ormai irrintracciabile fuori dell’Io, perfino nell’emanazione dei suoni di natura da un lato, dei travestimenti fittizi dall’altro. Il punto di non ritorno rappresentato da Boulez nella Settima coincide con la peripezia di un’immensa tragedia non solo umana ma anche storica: fine delle illusioni in un’anestesia totale dell’anima. Resta l’ultimo atto: il ritorno all’Io nel ventre materno della terra. Ciò che per Mahler accadrà con Das Lied von der Erde, la Nona e l’“Adagio” della Decima.

Che Boulez sia giunto a queste conclusioni dopo anni di frequentazioni con Mahler sta a significare che Mahler per lui – e forse anche per noi – non è più un compagno di viaggio sulla strada del progresso ma un’erma solitaria di un viale senza sbocchi. Mahler è morto, e Boulez ne registra il decesso nella più funebre delle sue partiture. Senza ombra di emozione o di partecipazione: come il fonditore di bottoni che Peer incontra all’ultimo crocicchio, nella notte ormai buia. La profezia di Adorno alla fine del suo saggio su Mahler trova con Boulez la sua attuazione a termini invertiti.

E da ultimo. Nel momento stesso in cui è diventato anche un direttore eccelso, forse anche per questo, Boulez prefigura la fine dell’interprete che aggiunge di suo, per immedesimazione o riflessione, un’impronta personale alla musica altrui. Non solo non ne ha più bisogno: essa sarebbe soltanto un’altra delle inutili apparenze, sul binario morto delle mode o delle illusioni. Se la musica ha da ricominciare, Mahler sarà solo un ricordo.

 

Mahler, Sinfonia n. 7; The Cleveland Orchestra, dir Boulez, Deutsche Grammophon,

cd 447 756-2 (1 cd).

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