Peer Gynt, scene di incomprensione

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In nessuno degli ultimi tre grandi allestimenti del Peer Gynt di Ibsen che io ricordi – Peter Stein a Berlino nel 1971; Patrice Chéreau a Parigi nel 1981; Ingmar Bergman a Stoccolma nel 1991: curiosa progressione decennale – figuravano le musiche di scena composte da Grieg. Per nessuno dei tre grandi registi, ciascuno a suo modo impegnato a dare un senso ultimo al capolavoro, la musica entrava a far parte della concezione interpretativa. Era, la loro, una visione senza musica, per quanto fosse giocata sui suoni, sulle vibrazioni più impalpabili o fragorose del mondo interiore, e del paesaggio esterno, qui come mai incombente sulla solitudine dei personaggi. Tutti presupposti, in fondo, favorevoli alla musica.

Grieg fu chiamato a collaborare dall’autore stesso, quando questi decise, nel 1874, di dare al poema drammatico una realizzazione anche teatrale. Nella lettera di invito Ibsen affermava di ritenere la musica un elemento essenziale e imprescindibile della rappresentazione; e a tal proposito, con ingenuità pari all’entusiasmo, dava anche alcuni suggerimenti pratici, illudendosi che il testo li potesse già implicitamente accogliere. Grieg si guardò bene dal seguirli. Al progetto lavorò con lentezza e di mala voglia, attratto soprattutto dall’onorario e dalla grandiosità dei mezzi a disposizione, che peraltro non impiegò interamente. Alla prima rappresentazione, avvenuta al Teatro di Christiania nel febbraio del 1876, il successo più grande toccò proprio a lui. Per molto tempo ancora Peer Gynt fu famoso soprattutto per le musiche di Grieg: il Mattino, la Danza di Anitra, la Canzone di Solvejg.

Le musiche di scena di Grieg offrono una dimostrazione di come una musica bellissima non riesca ad armonizzarsi col dramma a cui è destinata perché questo dramma la rifiuta. Anche Goethe destinò il Faust per metà alla musica, ma nessun musicista ebbe mai il coraggio di affrontare direttamente la sfida: chi lo fece, scelse strade diverse, deviando dalla meta. E Goethe stesso non mancò, finché visse, di farlo notare con sarcasmo. La sua eredità fu tanto ricca quanto inevasa. Ibsen, che non aveva le ambizioni di Goethe, pensava, da uomo dell’Ottocento, che l’impiego di interludi orchestrali e di inserti vocali, e perfino il fascino un po’ ambiguo del melologo (ossia della recitazione accompagnata dalla musica), avrebbero «addolcito la pillola, così che il pubblico potesse inghiottirla»: strano modo davvero di considerare il proprio lavoro, e quello altrui. Grieg si convinse subito che non si potesse salvare quel racconto strampalato e bizzarro, disomogeneo e provocatorio, se non stemperandolo in luci e ombre più immediatamente riconoscibili e percepibili. Di Peer Gynt vide l’involucro, non il cuore dolente, né la mirabolante fantasia: non arrivò a sbucciare la cipolla.

Dell’avventura faustiana di Peer, Grieg colse soprattutto l’aspetto gaio, fiabesco, giocoso, traducendolo in immagini vivide, che del sottofondo folclorico, o esotico, o descrittivo, fanno di volta in volta un piccolo mondo. Questo mondo non è quello vero di Peer, ma semmai dei personaggi che lo attorniano, da cui egli fugge, o a cui vorrebbe ritornare per fermare l’attimo fuggente. È il mondo di Grieg, come noi lo possiamo ricavare, intatto e partecipe, nelle Suites orchestrali che continuiamo ad ascoltare con emozione, vagheggiando un dramma che è altrove: un dramma che rifugge dalla consolazione della musica, dai colori tenui dei suoni e dalle dolcezze del canto. E questo Grieg lo aveva capito, rimanendo fedele a se stesso, senza spingersi negli abissi e alle altezze di Peer.

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