Quanta enfasi, Semiramide!

Q

Semiramide (Venezia, 1823) è l’ultima opera composta da Rossini prima della fuga in Francia. Congedo, più che da un genere, cui bene o male seguitò a essere fedele soprattutto nelle sue utopie, da un ambiente, da una consuetudine, insomma da tutto un modo di intendere e praticare il teatro musicale nel Paese del Belcanto. Tale congedo fu, come ognun sa, splendido, sontuoso, acconciamente dimostrativo, quasi “emblematico”: provassero gli altri, se ci riuscivano, a fare altrettanto o meglio; lui, Rossini, si chiamava fuori dal gioco, a quelle condizioni. Tirando un profondo respiro di sollievo, fra l’altro, come liberato da un obbligo insensato.

La mescolanza ora acida ora brillante di partecipazione e distacco costituisce, nella sua chimica instabile, il vero problema interpretativo di un’opera fondamentalmente dotta, tutt’altro che immediata. Finché ad eseguirla erano soprattutto ugole brillanti, in edizioni opportunamente tagliate, la bilancia pendeva tutta da un lato, ma il piatto era ricco e soddisfacente: che cosa desiderare di più di una Sutherland e di una Horne nei ruoli di Semiramide e di Arsace? Ma da quando si è affermata la pratica sacrosanta delle edizioni critiche e integrali, riequilibrando secondo ragione e istinto le proporzioni della immensa partitura, il precario punto di incontro si è venuto sempre più spostando, in una prospettiva di fuga al di là degli angoli. L’angolo dei cantanti, fino ad allora sufficientemente protetto e riconosciuto nel suo primato, si è dovuto giocoforza confrontare con quello dei direttori d’orchestra, alle prese con un arco drammaturgico elastico e dilatato, tanto classicamente perfetto quanto costellato di insidie e trabocchetti.

Insidie e trabocchetti nei quali Ion Marin, il direttore di una recente produzione discografica di Semiramide realizzata dalla Deutsche Grammophon, abbocca come il pesce all’amo. L’intento di accentuare il tratto drammatico in un’opera ch’è soprattutto decantazione del dramma in rappresentazione di stile (come del resto infallibilmente spiega Philip Gossett nell’ottima nota illustrativa; chiosata a dovere dal nostro Paolo Fabbri); tale intento, si diceva, porta a un’enfasi fastidiosa, in costante sovraesposizione di rapporti tra canto e orchestra, con profilature secche e aguzze. La mancanza di rotondità, di delicatezze e sfumature, è d’altronde una costante dell’intera proposta esecutiva: che non difetta, alla base, di mezzi cospicui, ossia di voci importanti oltre che famose. Fra queste, una s’impone su tutte: Jennifer Larmore nel ruolo di Arsace, sensibile nei cantabili, nobile nell’espressione, tesa nelle colorature, svettante negli acuti. Accanto a lei, Cheryl Studer, come Semiramide, commette l’ennesimo sbaglio di parte della sua strana, malaccorta carriera: a furia di voler essere tutto, soprano lirico, drammatico e d’agilità, s’accontenta di raccogliere scarsi interessi da un patrimonio vocale ragguardevole, in origine cristallino. S’intuisce, fra l’altro, che mai potrebbe sostenere un tale ruolo in teatro.

Chi invece gronda teatro da ogni nota è Samuel Ramey in veste di Assur: cui nuoce solo certa esuberanza che non sempre rima perfettamente con padronanza (stilistica). Avercene, comunque, di cantanti così, per questo repertorio. Lodevole assai, soprattutto per la disciplina e la consapevolezza cui piega una voce non potente, l’Idreno di Frank Lopardo. Di lusso l’Oroe di Jan-Hendrik Rootering. Professionali al massimo nel far quel che vien chiesto loro la London Symphony Orchestra e l’Ambrosiana Opera Chorus.

Breve conclusione. Questi tipici prodotti da studio di registrazione, che assemblano star nella vetrina delle meraviglie, raramente sostituiscono la verità del teatro con l’illusione della musica. E le eccezioni, sempre più rare, confermano la regola.

Rossini, Semiramide; Studer, Larmore, Ramey, Lopardo, London Symphony Orchestra, dir Marin. Deutsche Grammophon, 437 797-2 (3 cd).

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