Sawallisch o dell’armonia

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Grande estimatore dell’Italia e delle orchestre di S. Cecilia
e della Scala, detesta la frenesia d’oggi: «Il nostro mondo
era forse più chiuso, ma più beato»

Prima prova del concerto beethoveniano di Wolfgang Sawallisch a Santa Cecilia. Il Maestro saluta cordialmente l’orchestra, poi dice: «Bene, cominciamo dalla Quarta». Imbarazzo e stupore. «Ma Maestro, dobbiamo fare la Quinta non la Quarta, guardi qui», ribatte l’orchestra mostrando le parti sui leggii. Non è uno scherzo, è proprio così: evidentemente c’è stato un equivoco. Sawallisch non si scompone. «Benissimo, allora cominciamo dalla Quinta». E attacca a provare a memoria, senza partitura, come se nulla fosse. Quasi divertito, e felice.

Forse è anche per contrattempi come questo che Sawallisch ama tanto l’Italia: lui così severo e distinto, amico dell’ordine e della perfezione. Nonostante i suoi impegni stabili a Monaco, che lo occupano anche in veste di sovrintendente e direttore artistico, e gli inviti da parte delle maggiori orchestre del mondo, Sawallisch ritorna ogni anno nel nostro Paese con immutato piacere. E ogni volta sono appuntamenti che contano. La Tetralogia di Wagner registrata nel ’68 alla Rai di Roma, che lo rivelò al grande pubblico, ritrasmessa di recente con i suoi commenti di vent’anni dopo, ha appassionato gli ascoltatori radiofonici per dieci settimane; proprio mentre la giuria del Premio “Abbiati” lo eleggeva per il secondo anno consecutivo miglior direttore d’orchestra prodottosi in Italia. Comincia qui il nostro viaggio alla scoperta dell’artista e dell’uomo Sawallisch.

Maestro, qual è il segreto della sua fedeltà, rara per un direttore straniero, al nostro Paese?

«Il segreto di ogni fedeltà è un amore ricambiato. Il mio per l’Italia è di due tipi: uno, umano, per la gente, i luoghi d’arte, la cultura, il clima, il modo di sentire la musica; l’altro, professionale, per le orchestre, in particolare per Santa Cecilia e la Scala. Ma ho ricordi bellissimi dell’orchestra della Rai di Roma; e ripensare alla Tetralogia del ’68 mi ha dato una certa emozione. Lavorare con questi complessi è per me sempre un’esperienza nuova: posto che si riesca a trovare la concentrazione giusta, la risposta è unica per generosità e fantasia, e questo stimola la sensibilità di un direttore. Se uno strumentista sbaglia, capita di vederlo venire in camerino a dirti: “Maestro, mi  dispiace, ma vedrà che domani andrà meglio”. La musica vive anche di queste cose».

Il premio dei critici musicali italiani le avrà fatto senza dubbio piacere. Ma più in generale qual è la sua opinione sulla critica musicale?

«Questi riconoscimenti premiano un lavoro in comune duro e difficile, di cui il direttore d’orchestra è il coordinatore. Se hanno premiato me, e la cosa mi onora, significa che tutti abbiamo lavorato bene; e credo che in effetti alla Scala sia stato così. Più in generale, la critica musicale vive oggi un momento di passaggio, come del resto tutta la nostra civiltà. Un tempo serviva a indirizzare il pubblico verso la produzione contemporanea; oggi, nella dispersione dei linguaggi della musica contemporanea, basa spesso i suoi giudizi su un confronto con il passato. L’attenzione si è spostata considerevolmente sulla figura dell’interprete, che dovrebbe essere solo il tramite fra l’autore e il pubblico. Chi assume questo ruolo si è preparato a lungo, secondo il suo gusto, la sua cultura, la sua sensibilità: un’esecuzione, quella esecuzione, è solo un attimo di un lungo percorso, sfuggente nel tempo, che si evolve continuamente. Per questo non amo il disco, che assolutizza questi attimi. Chi giudica dovrebbe tener presente la relatività di questa condizione. Dire la verità sempre, certo, ma senza ferire l’anima di chi si sforza secondo le sue capacità di ridare alla musica una delle sue infinite, possibili vite».

Forse anche per cercare una linea di continuità lei è sempre stato legato stabilmente, per lunghi periodi, a un teatro o a un’orchestra. Tra il sistema  tedesco del repertorio e quello italiano della stagione mi sembra che oggi si tenda a una sorta di via di mezzo: una “zona mista” per dirla calcisticamente.

«È la conseguenza dei tempi che cambiano. La costituzione e la funzione sociale del teatro sono cambiati ovunque, da dieci anni a questa parte. Si sono livellati. Io sono cresciuto in un’epoca nella quale un giovane direttore doveva conoscere il repertorio e saper lavorare al pianoforte coi cantanti, che erano poi una compagnia stabile, fissa per anni. Con loro, insieme, studiavamo, imparavamo, avevamo tutto il tempo di assimilare, approfondire, perfezionare. Anche il regista era stabile, con mansioni di sovrintendente; e insieme montavamo sei-sette produzioni all’anno. Dei nomi? Wieland Wagner, Oscar Fritz Schuh, Günther Rennert. Abbiamo lavorato fianco a fianco per anni. Il pubblico si riconosceva nel teatro, aveva fiducia in noi, dava tranquillità. Tutto questo meccanismo è saltato. Le compagnie stabili quasi non esistono più, il lavoro coi registi è dispersivo, il pubblico si è fatto impaziente, vuole ciò che la moda impone, tutto e subito. Se scelgo un’opera, subito c’è chi salta su e dice: perché quella e non un’altra? Intanto i tempi di produzione sono diventati velocissimi, e la gestione enormemente più complessa. Insomma, è tutto più frenetico, conflittuale e nervoso, come i nostri tempi, appunto».

Ciononostante lei a Monaco assomma le cariche di sovrintendente, direttore artistico e direttore stabile dell’orchestra. Non è troppo, per questi tempi?

«Si tratta di una situazione particolare, una conseguenza di questi mutamenti. Quando Rennert, col quale ho lavorato per anni in piena armonia e gioia, lasciò la sovrintendenza a Monaco, non si trovò nessuna personalità del suo calibro disposta ad assumerne l’eredità. Intanto la situazione generale dei teatri di stato della Baviera si era modificata profondamente, e così mi fu chiesto di diventare “Operndirektor”. Ho pensato che piuttosto che dividere la responsabilità con altri, in queste condizioni, tanto valesse prendermela per intero. Anche per affermare le mie idee, questo è chiaro. Ciò significa un supplemento di impegno e di tensione nervosa, energie che so di aver tolto al musicista puro. Ho fatto una scelta. Amo questo teatro, e cerco di dargli tutto me stesso senza risparmiarmi e senza sacrificarmi».

Il suo marchio d’identità si rileva dalla coerenza dei programmi: la riproposta dei “minori” del teatro romantico tedesco, la rivisitazione del teatro del Novecento fino a oggi, il ciclo completo di Wagner nel centenario della morte, tutto Strauss tra l’87 e l’89…

«Certo, credo che Monaco debba ribadire le sue tradizioni e la sua storia, rinnovando la nostra civiltà e la nostra cultura su quelle basi. Ai nomi che lei ha fatto aggiungerei Mozart e Orff, agli estremi opposti. E poi l’opera contemporanea, un confronto con l’attualità necessario per ogni teatro, anche se problematico. Ci sono poi gli altri autori, gli italiani, i francesi, i russi, che il pubblico deve conoscere. Per questo è importante programmare e pianificare con grande anticipo, armonizzando le scelte, che possono nascere dal gusto personale o da speciali opportunità (avere un bel cast, il direttore adatto, l’occasione di richiamo che favorisce una messa a fuoco precisa e significante), ma debbono tener conto di obiettive esigenze: un teatro finanziato dallo Stato ha l’obbligo di favorire la crescita sociale e culturale del suo pubblico, su vasti orizzonti. Ma il teatro è anche festa, divertimento, gioia. Perciò occorrono intuito, disciplina e un pizzico di fortuna. Sa come è nata l’idea del ciclo wagneriano? Avevamo stabilito, in anticipo, di celebrare il centenario della morte di Wagner – il 13 febbraio 1983 –

con una sua opera importante. Ma la ricorrenza cadeva esattamente di Carnevale, quando a Monaco, per antica tradizione, si festeggia a teatro con un’operetta o un’opera leggera. Che fare? Pensai allora a Das Liebesverbot, l’unica opera comica di Wagner; e per dare maggior senso a questa riproposta, allargai l’indagine alle due altre opere giovanili, Die Feen e Rienzi. Così è nato il ciclo integrale, che ho diretto personalmente. Senza saperlo, era qualcosa che covava in me e che venne alla luce, in quella occasione, quasi per caso. Questa esperienza, dirigere tutte e tredici le opere di Wagner a breve distanza di tempo, ha arricchito profondamente la mia visione e non solo ha aperto nuove prospettive ma ha anche modificato il mio modo di vedere e di interpretare le diverse partiture. In un certo senso le ho ristudiate da capo».

Per Strauss sarà lo stesso?

«Il piano che prevede in tre anni l’esecuzione di tutte le opere di Strauss è più articolato e complesso. Non sarò solo io a dirigere, anche se mi sono riservato alcuni pezzi molto interessanti: Daphne, Danae e Capriccio, cioè l’ultimo Strauss, che amo moltissimo, e le due versioni di Arianna a Nasso, a cominciare dalla prima con le musiche di scena per il Borghese gentiluomo, nel festival di quest’anno. Nell’88, con Strauss, verremo in tournée alla Scala».

Mi pare che all’eccellenza della qualità musicale del suo teatro non corrisponda una pari unitarietà nelle scelte registiche. Modernità e tradizione qui stentano ad armonizzarsi.

«Non sono d’accordo. Il problema è un altro. Fino all’epoca di Rennert compresa, la linea generale delle messe in scena era stabilita da un unico regista, che imponeva il suo stile e il suo gusto in modo da dare un riferimento al pubblico. Poi venivano i registi ospiti, e facevano cose diverse, presentando altri stili e altre scuole. Ma fra le due proposte c’era un equilibrio fecondo. Oggi, a Monaco come nella maggior parte dei teatri tedeschi, la situazione è cambiata, manca questa continuità. Quando scelgo un regista perché mi pare adatto, ci mettiamo d’accordo, discutiamo le linee portanti della messinscena; poi passano mesi, e al momento dell’inizio della preparazione tutto è già fatto e io non posso più intervenire. Manca il tempo per conoscersi, per fare crescere insieme lo spettacolo in unità di intenti. Questo è talvolta un male. Con Ponnelle, col quale abbiamo un rapporto semistabile, questo non accade mai, perché lui conosce a fondo l’ambiente nel quale lavora e quindi può pensare le sue regie in concreto. Così nasce una vera, completa collaborazione».

Lei, suo malgrado, non portò a termine la Tetralogia alla Scala per una divergenza di vedute con il regista, che era Ronconi. Oggi il tema del conflitto fra regia e musica nell’opera lirica è di grande attualità.

«Anche la regia d’opera sta vivendo un’epoca di profondi mutamenti, con aspetti positivi e negativi. Oggi molti registi provengono dal cinema e dalla televisione, hanno cioè un modo di accostarsi all’opera e una preparazione di tipo affatto diverso. Rifiutano certi modelli e cercano nuove strade per attualizzare lo spettacolo d’opera e renderlo significante alla luce della loro sensibilità, della loro cultura. Tutto questo è normale. In linea di principio, però, sono convinto che una regia d’opera debba nascere dalla musica e spiegare ciò che accade sulla scena in rapporto alla musica. Se questo equilibrio viene a mancare, il risultato sarà sempre parziale e insoddisfacente. L’interpretazione, come è giusto, si evolve, ma non può andare contro ciò che l’autore ha prescritto e alterare questo equilibrio togliendo alla musica lo spazio vitale per agire ed esprimersi. Alcuni registi, specie i più giovani, si accostano all’opera con molti preconcetti. Anni fa chiamai a Monaco uno di questi, peraltro molto dotato, a fare la regia dell’Olandese volante. L’ambientò tutta in un salone, al chiuso. “Ma come – gli dissi – lei non sente l’importanza del mare, dell’aria, dello spazio aperto nella musica?” “Certo – mi rispose – ma se la musica dice già tutto questo, perché devo ripeterlo anche sulla scena?” L’obiezione mi fece riflettere; evidentemente era in buona fede, quello era il suo modo di sentire l’opera e i personaggi, di vivere il dramma di una sovrapposizione: sinceramente, anche se in contrasto con il mio modo di sentire».

E come andò a finire?

«Metà del pubblico si ribellò e disapprovò, l’altra metà comprese e applaudì. Istruttivo, no?».

Dunque anche il pubblico si trova sovente spiazzato. Che fare, allora?

«Come direttore di un grande teatro ho imparato ad essere molto paziente e pragmatico, a vedere sempre il lato buono, positivo, fertile di sviluppi di ogni cosa, anche quando non mi convince. Non mi tiro fuori dalla mischia; cerco di resistere alla tentazione. La mia riposta è il lavoro, il massimo impegno nel fare il mio mestiere secondo le mie convinzioni, le mie idee, senza preclusioni ma anche senza scendere a compromessi, servendo la musica con gioia, serbandole fedeltà. A volte mi capita, nelle condizioni più difficili, di riuscire a esprimere compiutamente in una esecuzione il mio ideale, il mio desiderio: sono momenti di enorme soddisfazione, i momenti più belli per un musicista, quelli nei quali riusciamo a comunicare l’unità completa, totale, fra individui e musica. Ogni momento deve tendere a questa mèta, che dà un significato a tutto: allora sono molto felice, e credo di donare questa felicità anche agli altri, vivendola con loro».

Non sono momenti pagati a caro prezzo, oggi?

«Forse una volta ci accontentavamo di più, il nostro mondo era più chiaro e incosciente, certo più beato. Oggi tutto è estremamente complicato, ma per questo la sfida è più attraente. Anche quando ero giovane io, i vecchi maestri dicevano: ai nostri tempi era un’altra cosa! Io guardo avanti, anche se a volte ho nostalgia di quel mondo, di quei valori, e cerco di riproporli nella realtà della nostra epoca».

Non c’è nulla che la spaventa, dunque?

«Mi spaventa l’ipotesi di una catastrofe nucleare, della fine di tutto, dell’umanità e della musica. Mi spaventa che il male prevalga sul bene; e per quanto sia difficile definire questi concetti credo che ognuno dentro di sé li percepisca e sappia giudicare distintamente».

Dovendo salvare dalla catastrofe nucleare tre sole partiture, quali sceglierebbe?

«Arianna a Nasso, dove il mito, l’ideale, s’intreccia e spiega la realtà, la forza della vita; Tristano e Isotta, la trasfigurazione della sofferenza e della morte nell’amore; Le nozze di Figaro, la tenerezza e la grazia, l’ironia e la  malinconia che accrescono il sorriso dell’anima, nella più profonda interiorità. Ma c’è una partitura che dovrebbe salvare l’umanità da ogni catastrofe, ed è la Nona sinfonia di Beethoven».

Il suo prossimo impegno a Monaco è una nuova produzione della Tetralogia di Wagner. Un nuovo inizio per lei?

«Anche la Tetralogia si chiude con una catastrofe, ma sappiamo che Wagner ha affidato al tema dei violini che alla fine sovrasta l’orchestra l’idea di una rinascita, di un nuovo inizio. È un messaggio di amore e di speranza. Per un direttore d’orchestra si tratta di un momento di grande responsabilità, di immensa concentrazione, che giunge dopo quindici ore di grande musica. Per arrivarci nel modo giusto, e saperlo trasmettere adeguatamente al pubblico, occorre molto lavoro, molta preparazione. Questo soprattutto è ora la Tetralogia per me. Un impegno che equivale a una prova del fuoco, un punto di arrivo. Dopo, forse, sarà un nuovo inizio».

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