Un suono global o no global?

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Globalizzazione, orrendo neologismo caro ai nostri tempi. Anche Riccardo Muti, durante una recente tournée in Sud America con la Filarmonica della Scala, l’ha usato per mettere in guardia da un pericolo: la globalizzazione sta invadendo anche la musica. Il termine, par di capire, è usato nel senso di appiattimento, standardizzazione, normalizzazione, equalizzazione. Attenzione, dice Muti (e naturalmente non è il solo a pensarlo), a favorire una tendenza nella quale l’immagine esteriore, l’efficienza spettacolare, prevalga decisamente sui contenuti idiomatici, sulle identità nazionali, sulle particolarità culturali: si corre il rischio non soltanto di non apprezzare più le differenze, ma anche di non saperle più distinguere. E quindi di uniformarsi a un modello unico la cui sostanza è soprattutto brillante, vuota apparenza.

Nella vita musicale corrente, teatrale e concertistica, è ormai un luogo comune sentir ripetere che le grandi orchestre si assomigliano sempre di più, i repertori sono ovunque gli stessi, gli artisti – direttori, cantanti, registi –

passano disinvoltamente e rapidamente da un continente all’altro, offrendo qua e là le loro lussuose prestazioni come pacchi preconfezionati: una sorta di ditta Gondrand della musica abbinata al Concorde, impegnata a non perdere un solo ordine, spesso noncurante delle destinazioni e delle finalità del trasporto. Il famoso villaggio globale è una metafora che sembra adattarsi anche alla musica. Ciò che conta, in questo circuito impazzito, è da un lato sopravvivere (alla crisi economica, alla caduta vertiginosa del mercato discografico, alle riduzioni dei cachet), dall’altro mantenere le posizioni acquisite, che significano non solo privilegi ma anche danaro: danaro come status symbol oltre che come ricchezza reale. La forbice si allarga: un concerto di una grande orchestra europea o americana costa mediamente fra i tre e i quattrocento milioni, e tutti vogliono solo quello. Con la differenza che la nozione di grande orchestra si assottiglia sempre più: pochi nomi, sempre quelli, a rappresentare il banchetto ideale dell’eccellenza. Niente che non fosse stato previsto, da Adorno in giù, con la logica dell’osservazione e del ragionamento: solo che, una volta caduti i principi ideologici (Adorno descriveva una tendenza negativa credendo così di combatterla), l’ipotesi è divenuta realtà, quasi sottraendosi al controllo del suo significato.

Ma il mondo globalizzato dell’industria musicale  è anche il regno del paradosso, dove esiste tutto e il contrario di tutto. È insieme compresenza e annullamento delle diversità, omologazione e separazione, accettazione di facciata  e rifiuto nella sostanza. Tutto è possibile; il sistema ingloba ogni espressione e la converte in impulsi: i piani si confondono e un valore economico sostituisce l’altro. Il disorientamento da un lato, la delega al demiurgo-divo osannato e richiesto dall’altro, sono la fatale conclusione del cammino. Proprio nel campo della musica cosiddetta classica si assiste al paradosso più stridente: la mancanza di un ricambio del repertorio che sia in grado di indirizzare questo cammino verso una crescita continua del nuovo. Le statistiche dicono che più dell’ottanta per cento del repertorio è costituito da musiche del passato: globalizzate anch’esse dal mito dell’interprete o dell’interpretazione. La colonizzazione verso l’esterno passa attraverso l’interprete, e, al suo interno, dall’interpretazione che trasforma il testo per attualizzarlo e rivenderlo a usura con propaganda adeguata. Un mostro che divora se stesso, sfruttando tecniche e tecnologie sempre più raffinate di autoconservazione. C’è poi l’altra parte della musica, aggressiva e creativa, nella quale culture e tradizioni diverse s’incontrano per inventare linguaggi scaturienti da un tentativo di comprensione reciproca: dove popolare implica un concetto inedito di universale, che parte dal basso. È quanto la musica colta occidentale ha recepito nel Novecento in regime di avanguardie, gettando la spugna col dissolversi di una tradizione eminentemente europea. Il tramonto dell’Occidente segna la fine di un primato culturale: forse ciò che chiamiamo globalizzazione non è che il tentativo di differire la fine pretendendo di riscuotere gli interessi materiali.

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