Veleni a Bayreuth

V

Culto e cultori di Wagner nelle memorie del nipote Wolfgang

Più fossa di serpenti che «golfo mistico», in questo libro il Festpielhaus é tutto rivalità dispetti e feroci pettegolezzi

Lebens-Akte (titolo ambivalente: ritratti ed eventi, ma anche più teatralmente atti di una vita) è l’autobiografia `’ appena uscita in Germania che Wolfgang Wagner si e ci regala per i suoi settantacinque anni. Nipote di Richard e di Cosima, terzo figlio di Siegfried e di Winifred Williams Klindworth, Wolfgang è uno dei quattro eredi testamentari del più grande impero musicale tedesco dell’ultimo secolo e mezzo, quello che si identifica, oltre che con l’opera del Maestro, con Bayreuth e con Villa Wahnfried: luoghi di culto creati per la celebrazione non solo di un patrimonio musicale ma anche di una politica artistica. In realtà, dopo la morte del fratello Wieland, insieme al quale nel 1951 assunse la direzione del festival di Bayreuth,Wolfgang è diventato il ministro plenipotenziario di quel culto, l’astuto tessitore di un passaggio graduale dalle pesanti ipoteche del passato alle nuove necessità del presente, come tale responsabile   dei profondi, radicali cambiamenti nel più elitario festival del mondo.

Della sua storia, più che della Storia con l’iniziale maiuscola che l’attraversa, Wolfgang Wagner vuole apparire un cronista fedele, obiettivo e perfino modesto: se una qualità gli va riconosciuta, è quella di un sano pragmatismo che non si perde in svolazzi, ma guarda diritto al centro delle cose. Altra qualità, più insospettata, è una certa dose di ironia nel commentare le molteplici scene di cui è stato testimone in quaranta e passa anni di vita del festival, anzitutto nel rapporto con artisti e comprimari che si sono avvicendati sulla «verde collina»: non solo cantanti, direttori d’orchestra, registi, ma anche il loro contorno variopinto di uomini di cultura e di potere, ammiratori e detrattori, per cui Bayreuth è sempre stato un alveare irresistibile.

Non mancano nel libro pettegolezzi e amenità su debolezze e idiosincrasie, rivalità e dispetti che hanno per protagonisti soprattutto i direttori d’orchestra: tanto da far assomigliare il favoloso «golfo mistico» del Festspielhaus piuttosto a una fossa di serpenti. Wolfgang quasi si compiace di ricordare le angherie subite dal giovane Karajan da parte della vecchia guardia ancora imperante a Bayreuth nell’immediato dopoguerra, quando la riapertura del festival significò scontro frontale tra modi opposti di intendere l’eredità wagneriana. L’ipoteca della strumentalizzazione di Bayreuth durante gli anni del nazismo fu risolta con una sanguinosa faida in seno alla famiglia, da cui la coalizione di Wieland e Wolfgang contro il ramo femminile, prendendo le distanze e facendo autocritica, uscì vincitrice. E fu su quelle rovine che nacque la «nuova Bayreuth», in un rito di purificazione che trovò espressione artistica nelle regie, autenticamente innovative nella loro spoglia verità, di Wieland e Wolfgang Wagner contro il ramo femminile, prendendo le distanze e facendo autocritica, uscì vincitrice. E fu su quelle rovine che nacque la “nuova Bayreuth”, in un rito di purificazione che trovò espressione artistica nelle regie, autenticamente innovative nella loro spoglia verità, di Wieland Wagner, un genio del teatro.

Approdato da solo in cabina di regia dopo la morte del fratello avvenuta nel 1966, Wolfgang Wagner dà del proprio lavoro un’immagine non ordinaria ma conciliante, ancora essenzialmente pragmatica: occorreva smitizzare Bayreuth, rompere con le ideologie, proseguire il processo di democratizzazione in una visione universale, non solo germanica, delle idee del nonno («Grossvater»: così viene costantemente chiamato, quasi a ribadire un’appartenenza atavica, il capostipite dell’impresa). E se a Wolfgang spettava difendere la tradizione di famiglia come regista d’opera non trasgressivo (sotto sotto l’evidente complesso d’inferiorità nei confronti del fratello si muta in sottile polemica verso le sue innovazioni), come organizzatore del festival era altrettanto necessario cambiare strada e aprire le porte del tempio a nuove esperienze, anche a costo dil contraccolpi traumatici. La difesa della scelta di affidare a Pierre

Boulez e Patrice Chéreau la Tetralogia del centenario nel 1976 è capillare e appassionata: si direbbe che Wolfgang la consideri un gesto epico, il capolavoro della sua attività a capo di Bayreuth. Il racconto di quei giorni si mescola con il ricordo del Festspielhaus sventrato dai bombardamenti, quando le truppe degli alleati si aggiravano tra le macerie calpestando e dileggiando i vecchi arredi di scena distrutti, simbolo di un orgoglio atterrato. Trent’anni dopo, commenta Wolfgang, erano i tedeschi, messi alla frusta nei loro sensi di colpa, ad aggirarsi sgomenti dentro e attorno al teatro in cui si sanzionava, nel nome tornato vittorioso di Wagner, il definitivo armistizio artistico tra culture diverse.

Non giureremmo su tutta linterpretazione dei fatti di uno dei capitoli più complessi della nostra epoca. Va però dato atto a Wolfgang Wagner di aver cercato senza enfasi di rievocare le grandezze e le miserie di un destino segnato da forze e retaggi più grandi di lui, e di averlo documentato con esattezza e lucidità. Accompagnare questo destino nel sempre più rapido mutamento degli anni è stato il suo punto d’impegno. Non ha colpa se Bayreuth ha perduto la sua aura e il suo mito, da quando Toscanini e Furtwängler, Knappertsbusch e Krauss, Karajan e Böhm, e con loro una schiera impressionante di cantanti nati e cresciuti per quell’impegno, vi esercitavano in modo pressoché esclusivo la religione dell’arte wagneriana. Allora Bayreuth era un mondo a sé stante; oggi è soprattutto un luogo di memorie, dove schegge di un passato che a noi sembra tragico e trionfale insieme acuiscono il rimpianto di fronte a un presente pallido, non entusiasmante. Ma chi di quelle epoche è stato protagonista sembra ammonirci a non sopravvalutare il peso dei ricordi. In fondo, Bayreuth è un’utopia che ha cessato di esistere con la morte del suo creatore. Dopo, un grande vuoto riempito da presenze intermittenti, fantomatiche, miracolose. E di una pienezza che non si estinguerà mai.


da “”La Voce””

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