Vu’ cumprà la musik?

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Il festival di Salisburgo è ormai un suk dove si trova il peggio che è già altrove

Salisburgo – Il grande magazzino della cultura moderna e postuma. Dove ormai trovi di tutto, anche ciò che troveresti altrove, a prezzi più vantaggiosi. E anche quello che viene reclamizzato come eccezionale — per esempio un severo Don Giovanni di Mozart messo in scena da Patrice Chéreau — finisce, accanto a una Carriera del libertino demenziale e a un pasticcio mozartiano per boy-scout intitolato Ombra felice, nel tritatutto della confusione: frappè troppo dolce e cocktail mal assortito, a seconda dei gusti. Ma è proprio il gusto che si è perso a Salisburgo. A partire dai contorni. Dagli ingredienti. Manifesti sgargianti per le strade, gigantografie in citazioni esemplari, programmi di sala variopinti e dai formati più strambi; e poi: continue conferenze stampa autoelogiative, presentazioni e incontri sui grandi temi universali, che evidentemente presuppongono nel pubblico ignoranza e insensibilità. E chi l’ha detto che con Mortier le case discografiche se la passan male? Non v’è giorno senza promozione di un disco o di un artista. La differenza sta nel fatto che oggi a Salisburgo impera la Sony invece della Deutsche Grammophon, e che Harnoncourt e Dohrànyi han preso nelle vetrine il posto che fu di Karajan.

Gerard Mortier, nel suo frenetico attivismo, uno e trino, non perde botta per deprecare l’omologazione e la cultura d’élite. Ma se un festival deve avere una linea, qui, nel bailamme del tutto e del contrario di tutto, le tracce sono, più che contraddittorie, evanescenti. Una linea continua ad averla solo la programmazione di Peter Stein nella prosa, la realtà più bella di questa gestione: il suo Antonio e Cleopatra (Shakespeare) alla Felsenreitschule è arte semplicemente nobile e vera, i Giganti della montagna di Pirandello fatti da Luca Ronconi nel magazzino del sale di Hallein sono uno spettacolo coi fiocchi, con attori meravigliosi e un’idea del teatro grande, emozionante, austera ma inventiva fino allo choc.

Un po’ di delusione l’ha data invece l’attesissima nuova produzione del Don Giovanni secondo Chéreau e Barenboim. A una visione, stilizzata al massimo, del regista, tutta giocata su toni funereamente notturni e su sfumature preziose di recitazione, un po’ Racine un po’ Marivaux, si opponeva la lettura iper-romantica, sovente pesante e fragorosa, del direttore: con voci e personaggi per lunghi tratti in sovraesposizione. Ferruccio Furlanetto vorrebbe essere il Cesare Siepi del momento, ma ne rimane tanto distante quanto Barenboim dal suo evidente modello, Furtwängler. Bryn Terfel lo sovrasta in tutto: e quando Leporello sovrasta Don Giovanni gli equilibri sono sfalsati in partenza. Catherine Malfitano (Elvira) ha voce e personalità ma poco si cura dello stile; al contrario di Lella Cuberli (Anna), che ha stile ma voce ormai logora. Peter Seiffer (Ottavio) e Cecilia Bartoli (Zerlina) sono i più convincenti, assai interessanti anche interpretativamente. Ma quel Masetto di Andreas Kohn non ha arte né parte. Insomma, un cast disomogeneo, che Chéreau sa impiegare con più proprietà di Barenboim. Né mancano soluzioni di grande teatro, soprattuto legate alla figura del Commendatore (l’imponente Matti Salminen): la cui statua, vista nel cimitero come un’enorme testa emergente dalla tomba, fa ingresso nell’ultima scena rotolando dal fondo dopo aver squarciato la parete, fino a schiacciare Don Giovanni. Curiosamente un effetto analogo — le grù che irrompono in scena spaccando con le loro pale di ferro le fiancate del teatro — chiude i Giganti di Ronconi. Metafora comune di un teatro che è altrove, e che si realizza solo minacciando o addirittura distruggendo la realtà fittizia della scena?

Ingombro di trovatine e di orpelli per lo più esilaranti nonostante la loro concretezza (quadri chiassosi tra un aeroplano e turbe di scimmie) è invece l’allestimento del Rake’s Progress di Stravinskij, regista Peter Mussbach, scenografo e costumista Jörg Immendorff, direttore Sylvain Cambreling; con una compagnia di rango. E il trionfo del postmoderno che tanto piace a Mortier: ripensamento «critico» del teatro come fumetto, musical e orribile tragedia. Carino, talvolta, nella sua dichiarata demenzialità. Perfino spassoso, se si dimentica su quale musica e su quale testo s’inerpica e precipita.

da “”La Voce””

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