Caro direttore, si spieghi per favore

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Una volta un intervistatore domandò a Karajan quale fosse secondo lui la differenza tra l’orchestra dei Berliner e quella dei Wiener Philharmoniker. La risposta fu: «Quando chiedo una cosa, i Berliner la fanno e basta, i Wiener prima vogliono sapere il perché». Il giorno in cui i Berliner smisero di eseguire e basta e cominciarono a chiedere il perché, fu l’inizio di un’aspra contesa che portò a una separazione dolorosa. Mai Karajan avrebbe potuto subire dai Berliner ciò che solitamente accettava dai Wiener: di non essere il padrone assoluto. Forse in quel momento la sua collaborazione con i viennesi gli apparve per la prima volta in una luce nuova: e i viennesi, in un momento per lui duro, lo accolsero a braccia aperte, non chiedendo più nemmeno perché. Karajan li ripagò con una serie di esecuzioni indimenticabili, di cui resta la testimonianza discografica (commovente la Settima di Bruckner).

La differenza non è soltanto caratteriale, tra la natura dei berlinesi e quella dei viennesi, ma per così dire storica: i Wiener Philharmoniker sono l’unica grande orchestra di valore mondiale a non aver mai avuto un direttore stabile nei centocinquant’anni della sua esistenza. Fu con questa scelta precisa, fissata per statuto, ch’essa era nata e si era formata; e a quella scelta non venne mai meno, neppure quando la concorrenza delle altre orchestre, e di quelle americane in particolare, cominciava a farsi massiccia, sottraendole la piena disponibilità di molti famosi direttori. Il principio dell’autonomia assoluta è un’arma a doppio taglio, perché se da un lato garantisce una gestione basata su principi soltanto artistici dall’altro non offre sicurezza istituzionale, non ha altri fondamenti che la propria attività: e dunque non può permettersi cedimenti di nessun tipo. Conta solo la qualità.

Se i Wiener hanno visto passare sotto i loro occhi tutti i maggiori direttori della nostra epoca, il motivo è semplice: dirigere i Wiener è per ogni direttore l’aspirazione massima. Un vecchio detto viennese afferma che arrivare ai Wiener è difficile, ma addirittura impossibile tornarci se non ci si è dimostrati all’altezza. Ciononostante questa orchestra proverbialmente testarda e orgogliosa non ha mai rinunciato a dare fiducia ai giovani direttori di talento: basta ricordare il caso di Claudio Abbado, che debuttò in un concerto del Festival di Salisburgo nel 1965 (a trentadue anni) e da allora è stato regolarmente invitato dall’orchestra. Il principio della collaborazione, se non stabile, continuativa con direttori di rango si è mantenuto anche dopo il 1933, quando fu definitivamente introdotto il sistema dei direttori ospiti (fino ad allora i Wiener ingaggiavano un direttore per la durata di una stagione: fra questi vi furono Hans Richter, Gustav Mahler, Felix von Weingartner, Wilhelm Furtwängler e Clemens Krauss); un legame particolare li unì soprattutto a Richard Strauss (dal 1906 al 1944), e ad Arturo Toscanini nei suoi anni d’oro (dal 1933 al 1937). Dopo la guerra sono stati Karl Böhm e Herbert von Karajan ad avere un rapporto privilegiato con l’orchestra, come mostra anche la loro nomina, un’eccezione alla regola, a direttori onorari.

L’enorme numero di dischi prodotti ci consente di farci un’idea precisa non solo delle qualità ma anche delle caratteristiche dei Wiener Philharmoniker. Nessun documento discografico può però sostituire l’emozione dell’ascolto dal vivo, soprattutto nella sala del Musikverein a Vienna, dove il colore e la bellezza di suono degli archi (vanto riconosciuto del complesso) e la fusione degli impasti (la morbidezza dei legni, la rotondità degli ottoni) risaltano in modo unico. Della musica viennese quest’orchestra possiede lo stile e la sensibilità per eredità diretta, e poco o nulla si è modificato col passare delle generazioni. Con qualsiasi direttore la si ascolti mantiene una sua ben riconoscibile identità. Ma nello stesso tempo sa trasformarsi con una duttilità che ha pochi termini di paragone.

I Wiener Philharmoniker non sono un’orchestra che si lasci plasmare. Sono semmai i direttori a dover fare i conti con la sua presenza. Nella quale tuttavia una dote s’impone su tutte, ed è la capacità, forse sostenuta dall’abitudine a lavorare in teatro, nell’opera, di accompagnare il gesto e di reagire istantaneamente alle minime sollecitazioni del direttore. Trasferita in ambito sinfonico, questa dote si sviluppa al massimo grado: da un lato fortificando le qualità originarie dell’insieme, dall’altro offrendo all’interprete uno strumento sensibilissimo alle sue richieste. Gli effetti sono immediatamente percepibili. L’orchestra assume una veste diversa con ogni direttore, assecondandone non solo la personalità ma perfino i tratti tipici di un modo di dirigere: più tecnico o più espressivo, più analitico o più sintetico, più teso o più rilassato. Per rendersene conto è sufficiente ascoltare lo Schubert di Knappertsbusch e poi di Klemperer, il Mozart di Walter e di Bernstein, il Beethoven di Furtwängler e di Krauss. Con Böhm l’orchestra raggiungeva una luminosità e una trasparenza di suono che con Karajan si mutavano, all’estremo opposto, in ricerca estenuata di suprema bellezza quasi fine a se stessa; e gli archi cantavano l’aurora e il crepuscolo con pari intensità e consapevolezza. Se la tradizione è la sua grande forza, la sua grandezza sta nel saper cogliere e valorizzare, di ogni direttore, la novità di un’idea, la tensione di un approccio interpretativo. E dunque nel rinnovarsi essa stessa senza perdere il suo patrimonio ideale e il piacere, l’orgoglio della sfida. I direttori cambiano, l’orchestra rimane. Il ciclo beethoveniano con Abbado è da questo punto di vista un segno dei tempi nuovi e una conferma della tradizione; al pari del lavoro svolto con Muti per recuperare, di Mozart, tutto un sostrato niente affatto in contrasto con la visione più genuinamente viennese.

Nella sua biografia Wolfgang Sawallisch racconta di essere stato “epurato” dai Filarmonici per avere una volta, a un giornalista americano che gli chiedeva scioccamente in che cosa i Wiener Symphoniker, di cui era direttore stabile, si differenziassero dai Wiener Philharmoniker, risposto con questa battuta: «Se le due orchestre suonassero dietro a un sipario, neppure Lei le saprebbe distinguere!». Sawallisch non racconta però il seguito dell’episodio. Quando fu richiamato dai Filarmonici per dirigere un concerto in memoria di Böhm, dopo il concerto una delegazione dell’orchestra lo raggiunse e gli disse: «Grazie, Maestro, del bellissimo concerto, ma, sa, se Lei avesse diretto dietro a un sipario noi avremmo suonato bene lo stesso». Adorabili viennesi.

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