Franz Schubert – Alfonso und Estrella

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Schubert & Schober: un’opera autobiografica?

 

Franz von Schober, il librettista di Alfonso und Estrella, fu una figura di primo piano nella vita artistica e privata di Schubert: l’amico di tutta una vita. Di un anno minore di lui (era nato nel 1798 a Torup presso Malmö), proveniva dalla Svezia, dove suo padre, feudatario sassone, aveva dei possedimenti. Con la madre, austriaca, e due sorelle si era trasferito prima a Kremsmünster per studiare in collegio e poi a Vienna per frequentare l’università e nell’autunno del 1815 vi aveva conosciuto Schubert attraverso Josef von Spaun, amico del compositore fin dai tempi del convitto, entrando subito a far parte della cerchia più stretta dei sodali. Era un giovane elegante ed estroso, affascinante fin dall’aspetto, che ricordava Byron, con spiccate pose snobistiche: amava far pesare il suo titolo baronale, che a Vienna peraltro non era riconosciuto, e vantare i suoi successi come maitre de plaisir. Non solo. Brillante e al tempo stesso spregiudicato, si imponeva da dominatore in forza «della sua parlantina e della sua dialettica, con un atteggiamento à la Wilhehn Meister».(1) Come il personaggio di Goethe, ma forse con meno poesia, era un viandante irrequieto alla perpetua ricerca di se stesso, del romanzo della sua formazione.

Gli amici ne erano soggiogati, ma non lo vedevano tutti di buon occhio. Alcuni lo giudicavano pericoloso e inaffidabile. Josef Kenner, amico di giovinezza di Schubert, per esempio, lo detestava apertamente e in un ritratto di rara acrimonia giunse a imputargli di aver esercitato sulla «ingenua sensibilità» di Schubert una durevole e nefasta influenza, soprattutto nella sfera delle inclinazioni sessuali. «Caratteri più forti del suo», scriveva Kenner con enfasi da predicatore, «vennero sedotti, per lunghi o brevi periodi, dal fascino demoniaco di quell’uomo. La sua compagnia era apparentemente calorosa, ma il suo animo era semplicemente vuoto e dedito al culto dei suoi idoli». Di che tipo fossero questi “”idoli””, Kenner non lo mandava a dire, estendendo di seguito all’intera famiglia di Schober l’accusa infamante di una profonda depravazione morale.
 

Esperienze successive dimostrarono che in tutta questa famiglia, dietro l’apparenza della più amabile socievolezza, perfino della cordialità più affabile, regnava una profonda depravazione morale, per cui non c’era certo da stupirsi che Franz von Schober avesse preso la stessa strada. Solo che egli aveva escogitato un sistema filosofico per rassicurarsi e giustificarsi agli occhi degli altri, come per dare un fondamento al suo oracolo estetico, sul quale presumibilmente era tanto poco chiaro quanto uno qualunque dei suoi discepoli. Nella mistica della sensualità aveva trovato un argomento abbastanza elastico da muovercisi comodamente; e così i suoi allievi. La brama di amore e di amicizia lo faceva essere egoista e geloso a tal punto che per i suoi seguaci egli da solo voleva essere tutto, non solo profeta, ma addirittura dio stesso, e non ammetteva alcuna altra religione, alcuna morale, alcuna limitazione all’infuori dei suoi oracoli. (2)

Fin qui la dura requisitoria di Kenner. E’ probabile che esagerasse, non però che inventasse del tutto. Schober era un provocatore che si faceva beffe di pregiudizi e codici morali, un libertino sessualmente vorace, ugualmente interessato a uomini e donne, ma soprattutto ai giovinetti, meglio se travestiti (oggi su di lui graverebbe l’infamia di pedofilo). Come in amore, per piacere coltivava disinvoltamente tutte le arti da esteta, anche se in questo campo rimase sempre un dilettante: disegnatore, poeta, drammaturgo, librettista e attore. Soprattutto come attore credeva di avere un grande talento, che cercò di affermare migrando nei teatri della provincia dell’impero, lontano da Vienna, invero con meno successo che nella vita pubblica; dalle cui alterne vicissitudini non si fece in realtà mai travolgere, godendone a piene mani fino alla veneranda età di 84 anni. Dopo un tardo matrimonio chiaramente d’interesse subito fallito, fu anche ciambellano alla corte di Weimar e compagno di viaggi di Franz Liszt, prima di terminare i suoi giorni a Dresda nel 1882 (Schubert era morto da ben 54 anni!). Insomma, un conquistatore in piena regola, un grande affabulatore, un seduttore geniale nel suo camaleontismo.

Ma Schober non rappresentava soltanto questo. A suo modo era un artista, e sicuramente un amico generoso, fidato. La sua vitalità era inesauribile e trasmetteva calore umano, entusiasmo, sicurezza. Forse proprio per questo Schubert ne fu letteralmente stregato in un momento della sua vita nel quale si stava faticosamente liberando da più d’un vincolo, familiare e sessuale. Il rapporto che si creò fra i due amici fu subito intensissimo e divenne con il passare del tempo tremendamente serio, per alcuni versi addirittura tragico. Sul letto di morte, sarà ancora Schober il destinatario dell’ultima richiesta di aiuto da parte di Schubert.

Schober è un personaggio centrale nella vita di Schubert. Egli fu il primo a credere fermamente in lui e a convincerlo ad abbandonare la casa paterna e il posto di maestro di scuola per dedicarsi interamente a comporre. Schubert aveva allora diciannove anni. Schober, finché la ricchezza ereditata glielo consentì, lo sostenne con ogni mezzo, anche materiale. Cominciò con l’ospitarlo in casa sua dopo la rottura con la famiglia – una casa nel centro di Vienna che divideva con la madre – dall’autunno 1816 all’agosto 1817. In seguito, per ben tre volte, e sempre in momenti cruciali della vita, l’ultimo dal marzo 1827 all’agosto 1828, poco prima della morte di Schubert, i due amici convissero more uxorio dividendo non solo appartamenti sempre meno confortevoli e beni sempre più esigui, ma anche progetti artistici sempre più ambiziosi, non limitati alla semplice traduzione nella musica dei Lieder (in tutto sedici) di poesie, spesso ordinarie, del mediocre ma ardente verseggiatore. Il loro rapporto, per quanto non sempre sereno né incontrastato, andò sicuramente oltre l’amicizia: fu amore. Nei periodi di lontananza forzata si scambiarono lettere appassionate, quasi impudiche, o nella loro lingua in codice scherzose, ammiccanti, patetiche, reciprocamente incoraggianti. Per un certo tempo Schubert continuò a chiamare l’amico, cui già lo legava il nome stesso, “”Schobert””, come per unire indissolubilmente anche i loro cognomi: Schubert & Schobert. Neppure nei periodi di separazione, causati dall’instabilità psichica di Schober, il legame affettivo si interruppe. E anche quando la passione si spense, Schober rimase per Schubert il compagno di tutta la vita: un complice allegro, sventato, il suo dioscuro, corresponsabile dei suoi eccessi ma anche sostenitore alacre della sua arte e animatore instancabile della “”società di lettura”” e delle Schubertiadi, delle cui attività musical-mondane sapeva tirare le fila e possedeva segreti come nessuno.

Schober, il gran corruttore, fu l’unico tra gli amici – lui che fra tutti era stato l’intimissimo – a non voler mai scrivere ricordi che riguardassero la biograria di Schubert. Invitato più volte da più parti a farlo, aveva escogitato una formula fissa di diniego, formale ed elegante.

Devo in ogni caso trascurare il gentile invito a scrivere i miei ricordi, anche se me ne dispiaccio. La mancanza di un diario e la mia memoria lacunosa me lo rendono impossibile. Nonostante tutto ho provato, ma ho dovuto lasciar stare…(3)

Magnifica discrezione di un perfetto uomo di mondo che sapeva che la vita di Schubert non si poteva raccontare, né tanto meno travisare.

Nell’agosto 1 817 Schubert fu costretto a separarsi da Schober. Era stata la madre di questi, preoccupata dai pettegolezzi che circolavano attorno alla loro convivenza, a imporre al figlio di lasciare Vienna per raggiungere in Francia il fratello maggiore malato e riaccompagnarlo in Svezia. II 24 agosto Schubert si accomiatò dall’amico dedicandogli un Lied, Abschied. In dos Stannnbuch eines Freundes (Addio. Nell’album di un amico, D. 578): fu la prima e unica volta nella quale compose musica su un proprio testo.

La separazione da Schober fu un trauma che gettò Schubert nello sconforto. Dovette umiliarsi a tornare in famiglia e riprendere quel posto di assistente nella scuola del padre che aveva abbandonato un anno prima. Dopo anni di copiosa, ininterrotta creatività, il numero di lavori incompiuti si fece in questo perioda spaventoso, come se Schubert si bloccasse a metà strada per una sorta di improvvisa caduta della volontà e dell’interesse: sintomo evidente dello scoramento che lo aveva invaso. Intanto la sua vita stava prendendo un nuovo corso. In queste periodo i rapporti epistolari con Schober non si interruppero mai, la lontananza acuiva la nostalgia. Fu quindi con vera gioia che fu salutato il ritorno di Schober a Vienna, nel 1819: la cerchia degli amici e delle attività comuni parve ricomporsi ed ebbe anzi un incremento notevole, anche se alcuni segnali indicavano che fratture e gelosie ne minavano alla base l’armonia.

Schubert e Schober avevano intanto ripreso con più forza il loro legame concedendosi nel settembre 1821 una specie di luna di miele a Sankt Pölten nella Bassa Austria, nel piccolo castello di Ochsenburg, sotto la comprensiva ospitalità del vescovo di quella famosa abbazia, zio di Schober. Fu in quel lasso di tempo durato sei mesi, dal settembre 1821 al febbraio 1822, che l’unione fu benedetta dalla nascita di un’opera, della quale Schober scrisse il libretto e Schubert compose la musica, Alfonso und Estrella appunto: una creatura artistica dell’amore e della passione, che recava le stimmate dell’entusiasmo e dell’ascesi, secondo quel contrasto di sentimenti che si agitava nel fondo più segreto del rapporto fra i due amici.

Alfonso und Estrella occupa un posto particolare nella produzione e nella biografia di Schubert. Oltre a rinnovare alcuni archetipi del suo teatro precedente (l’ambientazione in un’epoca remota, ancora una volta eletta a far risaltare nella lontananza esotica simulacri di tenzoni cavalleresche e trame di fantasie ariostesche; la fiaba come sostrato dell’azione; la magia come mezzo di agnizione; il lieto fine come soluzione finale, inopinata, di turbolenze che via via si accumulano e si comprimono nella trama, dopo colpi di scena affastellati uno sull’altro), essa può essere vista come una sorta di proiezione di un mondo ideale di paladini nel sogno di una rappresentazione teatrale emblematica: meta dalla quale erano senz’altro attratti entrambi gli autori, memori di letture, fantasie e concezioni al di fuori di qualsivoglia realtà concreta e dunque di ogni convenzione drammatica. Ed è a questo fine che si indirizza la musica di Schubert, con dovizia di vena melodica nei pezzi statici, lirici e contemplativi, dove paradossalmente la tensione è più forte e incisiva, e furibonde accelerazioni, con pezzi d’insieme e cori sempre più concitati, nei culmini drammatici. Con i suoi trentaquattro numeri, di cui tredici duetti e dieci arie con recitativi interamente musicati, grandiose pagine corali e apparati strumentali insolitamente ricchi, quest’opera è un gesto insieme pubblico e privato che, uscendo dalla sfera dell’intimità e della proiezione autobiografica, si trascende in atto simbolicamente dimostrativo di un pensare e sentire in grande. Il suo tono speciale proviene proprio da una sovrapposizione di piani: ciò che la musica di Schubert esprime, fagocitando il libretto, non è tanto il carattere dei personaggi che agiscono sulla scena, quanto l’essenza dei sentimenti di cui sono portatori e del contrasto, anche tra valori morali, che vi è sottinteso. La dignità del re spodestato si manifesta con accenti pieni di fierezza e di calma attesa, circonfusi dall’aureola della nobiltà d’animo; la bellezza incontaminata della natura risplende come una promessa di regni superiori, quando non sia rifugio o conforto alla solitudine; l’usurpatore e il suo cattivissimo generale sono emblemi di una malvagità che agisce per falso intendimento e matta bestialitade, ed è tuttavia pronta a redimersi di fronte all’evidenza del bene. Quanto ai due protagonisti, essi non vivono un’esperienza terrena, ma un idillio romantico, un’estasi alimentata dalla Sehnsucht dell’Amore incondizionato, ideale.

Eppure, tutta questa idealizzazione e perfezione retorica sembra attraversata, proprio nella sua enfasi esibita, da qualcosa di inquieto, di dubbio, di sfuggente, di restio a farsi afferrare. Un’urgenza non normalizzata getta continuamente sull’allegoria esemplare l’ombra di passioni concretamente vissute e combattute, l’orma di un ricordo di esperienze passate: come se in Alfonso ed Estrella si celassero in un travestimento Schubert e Schober stessi, nel loro lato più spirituale e purificato, e l’opera si pacificasse nella volontà di imporre al mondo un ordine superiore, un’armonia di sogno. E proprio ciò fa sì che la musica entri nel vortice di una rappresentazione, sentita come reale, di un mondo irreale, ed esprima non soltanto la quintessenza di un’idea di nobiltà, di malvagità, di spiritualità, di purezza, di cavalleria intese come sentimenti assoluti, ma ne indichi al tempo stesso, quasi sospendendo lo spazio, anche la fragilità, la debolezza, l’inverosimiglianza, l’illusione.

Imporre al mondo un ordine superiore, un’armonia di sogno: questa è in fondo la cifra della rappresentazione nel teatro di Schubert. Teatro come evocazione, come luogo dell’immaginario, come astrazione fantastica. Dove non è importante tanto chiedersi che cosa sia causa e cosa effetto ma smemorarsi nel tempo ed errare nello spazio infinito in un continuo perdersi e ritrovarsi. Le storie dei cavalieri e dei paladini di Schubert si allontanano dal piccolo, ostile mondo quotidiano, dove pure hanno le loro radici esistenziali, autobiografiche, per immaginare il grande mondo senza confini e svanire da ultimo, quasi liberandosi dalla terra, nell’illimitato, là dove tutto idealmente si armonizza. Ma anche questa è soltanto una parte della verità. Giacché il lato oscuro e dolente dell’umanità permane nell’utopia nostalgica del teatro, per anelare a una disciplina che essa sa di non possedere.

Note

(1) Dal Diario di Eduard von Bauernfeld, luglio 1825. Nello stesso si legge in data 8 marzo 1826: «Schober è superiore a noi tutti nello spirito, ora perfino nel parlare! In lui però più d’una cosa è artificiosa, anche le sue energie migliori minacciano di soffocare nell’ozio»: Cfr. Schubert, Die Dokumente seines Lebens, a cura di Otto Erich Deutsch, Kassel 1964, rispettivamente alle pagine 294 e 351.

(2) Josepf  Kenner a Ferdinand Luib. 22 maggio 1858, in Schubert. Die Erinnerungen seiner Freunde, a cura di Otto Erich Deutsch, Wiesbaden 1983, pag. 102.

(3) Schober a Hyazinth Holland, 25 aprile 187 I , in Erinnerungen cit. pag. 238.


Gérard Korsten / Orchestra e Coro del Teatro Lirico
Teatro Lirico di Cagliari Fondazione, Stagione lirica e di balletto 2004

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