Schubert e l’illusione del teatro
“Ancora una volta ho composto un’opera per nulla”
(Franz Schubert, lettera del 16 giugno 1823)
Antonio Salieri, quando lo ebbe come allievo, svezzò il giovane Schubert a suon di canoni e Metastasio. Non aveva dubbi sul fatto che il successo di un compositore a Vienna dipendesse dalla sua capacità di affermarsi nel teatro; e a questo fine niente avrebbe giovato più della antica, sana ricetta italiana: recitativi e arie classicamente congiunti, in saldo equilibrio tra chiarezza della forma e forza del sentimento. Salieri non poteva prevedere quali sviluppi avrebbe avuto la parabola creativa di Schubert nel teatro. Alla sua evoluzione concorsero inclinazioni personali e condizionamenti esterni, di natura ambientale e storica. Schubert, a differenza di Mozart, non sentì mai il fascino del teatro inteso anche come modello e forma di vita, che necessariamente imponeva presenza attiva come realizzatore, confidenza e disponibilità con cantanti e interpreti, nonché una buona dose d’intuizione e di furbizia per affrontare, schivandole, insidie di ogni genere. Schubert amava il teatro, ma non il suo ambiente, e se ne tenne rigorosamente in disparte, frequentandolo più che altro da spettatore. La sua visione era di un altro tipo, più sfumata e idealizzata, quasi distaccata dalla realtà viva delle abitudini e delle convenienze teatrali. Forse conosceva troppo poco gli intrighi passionali e le schermaglie amorose tra i sessi per essere in grado di trasferirli sulla scena; e quel che invece conosceva bene – il valore dell’amicizia, il senso dell’onore e della fedeltà, ma anche la violenta eruzione di pulsioni oscure e segrete – non poteva rappresentarlo che velatamente, o elevarlo su un piano più astratto, simbolico. Così, del mondo del teatro non colse mai pienamente né l””`immoralità della commedia”” né la “”moralità della tragedia””, limitandosi a sfiorarle di tanto in tanto, per improvvise illuminazioni, e a vagheggiarne una trasfigurazione fiabesca.
Sotto altri aspetti, più pratici, faceva difetto a Schubert qualsiasi attitudine a trattare con gli impresari, a fronteggiare gli inghippi burocratici, a parare i colpi di bassa lega, ad aggirare i divieti della censura: insomma a elaborare tattiche e strategie che gli consentissero di imporre le proprie regole, ammesso che ne avesse, o anche soltanto di fiutare il vento, per capirne la direzione. Né maggior destrezza mostrò con i librettisti, reperiti per lo più, quasi per un bisogno di protezione, nell’ambito della cerchia degli amici. Eppure, nonostante tutto questo, Schubert non smise mai di coltivare l’illusione di affermarsi nel teatro. Fra il 1811 e il 1827 terminò undici lavori drammatici e altri sette ne lasciò incompiuti: una ventina di titoli (contando anche gli abbozzi) in una quindicina d’anni non sono pochi, neppure per quei tempi. Che poi solo quattro, e neppure i più importanti, giungessero a essere rappresentati lui vivente, è l’altra faccia, la più amara, di quella illusione.
I lavori drammatici di Schubert si dividono in due categorie: Singspiel e opera propriamente detta. Più esattamente. Tra i lavori portati a termine sei sono i Singspiele (compreso Des Teufels Lustschloss, nel genere della Zauberoper) e due le opere, entrambe in tre atti: Alfonso und Estrella, che è una “”grande opera”” eroico-romantica, e Fierrabras, un’opera di tipo eroico-cavalleresco. Ma se guardiamo ai lavori incompiuti, il rapporto si ribalta: due Singspiele contro sei opere, tutte di grande impegno, e sempre intese come momenti di svolta. Questa proporzione rivela l’ambizione di uscire dai confini del Singspiel viennese per affrontare orizzonti più vasti e tentare anche qualche strana bigamia. Come nel caso di quel Graf von Gleichen [Il conte von Gleichen] su libretto dell’amico Bauernfeld che, iniziato il 19 giugno 1827, un anno prima della morte, avrebbe dovuto essere, nel dominio del teatro, l’imboccatura di una strada nuova, una sorta di fusione del Singspiel orientaleggiante con l’opera nazionale tedesca.
Fra tanti tipi, Schubert non operò mai una scelta né impose un proprio modello – come fece invece nel Lied –, continuando a vagheggiare un’idea del teatro tanto più utopica quanto più in apparenza accondiscendente ai gusti del momento. E ciò, unito a una mancanza di frequentazione del mondo internazionale dell’opera (mai un’esperienza d’ascolto fuori della vetrina di Vienna, che rimase il suo punto di riferimento), aveva complicato maledettamente le cose. Anche perché Vienna era una cortigiana che cambiava rapidamente i suoi favori e si accendeva per sempre nuove apparizioni. Una di queste, destinata a incidere profondamente sul costume teatrale, era stata quella di Rossini, a partire dal 1816 e con ondate crescenti tra il 1820 e il 1822. Essa aveva provocato una vera e propria infatuazione per l’opera italiana, innescando un notevole cambiamento di abitudini nel pubblico dell’opera e riducendo ancor più lo spazio vitale del piccolo mondo familiare del Singspiel tedesco, a cui Schubert sembrava esser rimasto fino ad allora ostinatamente fedele. Quando il delirio per Rossini e per l’opera italiana fu sostituito dal clamore suscitato dal Freischütz, giunto a Vienna nel marzo del 1822, Weber rappresentò per Schubert una autentica speranza. Sbagliò però a credere che Weber potesse aiutarlo facendo rappresentare a Dresda, dov’era direttore, un’opera evidentemente estranea ai suoi interessi come Alfonso und Estrella (solo il cuore generoso di Liszt poté rischiare di proporla, trent’anni dopo, a Weimar, in una versione peraltro assai sforbiciata dai tagli); e soprattutto mancò grossolanamente di tatto nell’esprimere le sue riserve sull’Euryanthe, allorché questa venne battezzata sotto la direzione dell’autore a Vienna il 25 ottobre 1823. Schubert, che pure cercava un appoggio da Weber, dichiarò candidamente che la nuova opera gli pareva “”vistosamente carente di melodie”” e priva di quella “”grazia”” che tanto lo aveva invece entusiasmato nel “”delicato e intimo Freischütz””. Weber si offese e non perdonò questa fredda esternazione. Naturalmente dell’opera di Schubert non si fece più parola. Eppure Euryanthe, magari con qualche ricchezza melodica in più, era in quel momento quanto più si avvicinasse alla tipologia operistica schubertiana.
La domanda sorge spontanea: perché la produzione teatrale di Schubert si risolse in una serie micidiale di delusioni e di fallimenti? La risposta chiama in causa in primo luogo i quattordici librettisti che si avvicendarono nella collaborazione con il musicista, imputando loro, quasi senza eccezioni, quella mancanza di “”senso del teatro””, quella inefficacia drammaturgica e quella fragilità poetica che finivano per indebolire anche una musica singolarmente bella. Non bisogna però dimenticare che nella maggior parte dei casi (soprattutto in quelli che più lasciano perplessi e che coinvolgevano i suoi amici) Schubert si mostrò pienamente soddisfatto tanto della scelta dei soggetti quanto dei testi. In altri termini fu lui, Schubert, ad accettare quei libretti dopo essersi innamorato di una situazione magari promettente. E non risulta che, come era capitato non solo all’incontentabile Beethoven ma perfino all’esperto Mozart, si lamentasse della mancanza di soggetti degni e di librettisti adeguati.
Vivendo ai margini del teatro e coltivando un’opinione quantomeno vaga circa il funzionamento dei suoi meccanismi, Schubert non considerò mai la creazione di un’opera come qualcosa che esulasse da un semplice e familiare lavoro artigianale o richiedesse attenzioni speciali anche nel prevedere, nell’agire, nel pretendere, nel soffrire. Si fidava dell’esperienza altrui, senza pensare neppure lontanamente di intervenire nella drammaturgia e nella stesura dei testi: difatti non lo fece mai. A lui non restava che comporre la musica.
La musica, appunto. Che diviene in se stessa, e per se stessa, la ragione primaria del suo teatro. Il teatro di Schubert non rappresenta, evoca. Ambienti, situazioni, stati d’animo sono chiamati dalla
Più che mai convinto che fosse giunta la sua ora, nel 1822, sull’onda dell’entusiasmo dopo la ripresa del Fidelio con la Schröder-Devrient e forse stimolato dall’annuncio che Beethoven pensava di scrivere una nuova opera, mentre Weber trionfava a Vienna con Der Freischütz, Schubert mise in cantiere (e vi lavorò alacremente, benché gravemente malato, per tutta la prima metà del 1823) un nuovo Singspiel, Die Verschworenen [Le congiurate], libero adattamento dalla Lisistrata di Aristofane. Il libretto, di Ignaz Franz Castelli, già librettista di corte presso il Teatro di Porta Carinzia, incontrò subito il divieto della censura, anche dopo che il suo titolo era stato mutato nel più inoffensivo Der häusliche Krieg [La guerra casalinga]. Schubert decise allora di lasciar perdere, anche perché nel frattempo si era affacciato il progetto di un’altra opera, assai più importante, Fierrabras, per il Teatro di Porta Carinzia. La musica, interamente compiuta, fu riposta in un cassetto e non venne più toccata fino alla morte dell’autore, e assai oltre: ancora una volta aveva composto un’opera per nulla. Quella che ascoltiamo oggi è la prima rappresentazione assoluta per l’Italia.
La trama dell’atto unico, spostata come ambientazione dalla Grecia antica all’epoca delle crociate, è assai esile e lineare. Nel castello dove sono state lasciate sole le donne, indispettite per la continua assenza degli sposi perennemente in guerra, ordiscono segretamente una congiura consistente nello sciopero dell’amore quando gli uomini faranno ritorno a casa. Avvertiti della congiura dal paggio Udolin, gli uomini ricambiano pan per focaccia, e al loro ritorno si mostrano inaspettatamente freddi e scostanti verso le loro spose. Per tutta risposta le donne decidono allora di armarsi e di partire con loro per la guerra. Ma a questo punto si svela l’imbroglio: tutti decidono di rinunciare alla guerra e di riunirsi stabilmente in pace. L’amore ha vinto, e nel lieto fine viene celebrata la forza della pace al di sopra di ogni guerra.
Gli undici numeri musicali della partitura, inframmezzati da un dialogo parlato vivace e spigliato, sono di elevata bellezza e ,varietà, degni della miglior vena di Schubert. Si tratta di ariette, una romanza, duetti, insiemi e cori, questi ultimi concepiti nello stile durchkomponiert. Si ravvisano graziose reminiscenze italiane (Rossini) e dell’opéra-comique francese, allora di moda a Vienna. Lo spirito del Lied è continuamente presente, nella leggiadria del canto e nella preziosità della strumentazione. Spicca in tale contesto la splendida romanza in fa minore di Helene (n. 2), arricchita dalle volute del clarinetto concertante. Nel loro complesso questi pezzi mostrano quanto Schubert avesse affinato la sua tecnica e il suo stile, anche senza rinunciare alle convenzioni esterne del Singspiel. E una musica che si dipana con leggerezza e brio, assumendo un carattere più marcato e consapevole di parodia e anticipando in più tratti lo spirito pungente dell’operetta viennese, se non addirittura della commedia offenbachiana. Nei suoi toni ora acri ora malinconici ora surreali (vi compare perfino una festosa polacca in do maggiore nella scena delle donne riunite in parlamento, n. 3), tocca le corde più sensibili del sogno e della nostalgia, evocando atmosfere immaginarie e orizzonti virtuali di accattivante modernità. Il coro della congiura (n. 4), snodo centrale dell’opera, è un lungo brano strutturato secondo la tipica alternanza schubertiana di modo minore e modo maggiore, e ha molti punti di contatto con la coeva produzione strumentale. Quanto all’Ouverture, Schubert non ne compose alcuna, forse riservandosi di farlo alla fine in prossimità dell’esecuzione, com’era consuetudine. Per questa rappresentazione senese si è optato per la scelta dell’Ouverture dell'””opera magica e naturale”” Des Teufels Lustschloss [Il castello delle delizie del diavolo], composta nel 1813-1814 sotto la supervisione di Salieri, che figura dunque all’inizio, rispettando un’abitudine del tempo e seguita altrove anche da Schubert.
Teatro come sogno, come luogo dell’immaginario, come astrazione fantastica. Dové non è importante tanto chiedersi che cosa sia causa e cosa effetto ma smemorarsi nel tempo ed errare nello spazio infinito in un continuo perdersi e ritrovarsi. Le storie dei cavalieri e dei paladini di Schubert si allontanano dal piccolo mondo quotidiano, dove pure hanno le loro radici esistenziali, per immaginare il grande mondo senza confini e svanire da ultimo, quasi liberandosi dalla terra, nell’illimitato, dove tutto idealmente si armonizza in serenità e pace. Ciò che le caratterizza è la varietà di una drammaturgia musicale addensata, bloccata, eccentrica, che si muove per rimanere ferma, quasi elidendosi nella massima concentrazione, e di lì sfumare in un quadro per assurdo edificante. L’illusorio, il fiabesco sono dati come elementi ex re del teatro: alla musica non occorrono argomentazioni logiche, né spiegazioni razionali per motivarli. Non occorrono neppure catastrofi di eroi o spaccati di vita reale. Nel sommo artificio della finzione, il teatro per Schubert non deve essere né tragedia né commedia, ma sogno, e culminare necessariamente, come accade senza eccezioni in tutte le sue opere, in un lieto fine tanto più meraviglioso perché inverosimile. Un teatro senza feriti e senza morti. Un teatro simbolico, diverso dalla vita, ma senza miti.
Basterebbero i Lieder a dimostrare quanto fosse enorme il talento drammatico di Schubert: ma per la singola scena, per la visione metaforica, non per la progressione e la parabola che danno sostanza a un dramma sulla scena. Un teatro senza dramma è un teatro imperfetto, almeno nell’Ottocento. Il teatro di Schubert sembra piuttosto anticipare alcune tendenze del Novecento nella discontinuità drammatica, nel puro gioco delle apparenze, nel piacere del travestimento, nella aperta e voluta simulazione che oppone lo scherzo e l’irrealtà alla serietà e alla veridicità della vita. Vengono in mente le parole di Ferruccio Busoni sull’essenza dell’opera.
L’opera dovrebbe impadronirsi del soprannaturale e dell’innaturale come della sola regione di fenomeni e sentimenti che le convenga, e così creare un mondo di apparenze che rifletta la vita in uno specchio magico o in uno deformante: dovrebbe voler dare di proposito ciò che nella vita reale
La giustificazione del teatro di Schubert con l’estetica novecentesca sarebbe tuttavia un controsenso. Mancano del tutto i presupposti fondamentali del gesto problematico, della provocazione intellettuale, nonché del distacco critico da tutta un’epoca. Per questo, e nonostante d’altro canto vi siano anticipate tecniche narrative che potremmo accostare non solo al cinema ma addirittura alla sophisticated comedy, alla scena virtuale e multimediale, un recupero del teatro di Schubert in senso metateatrale o addirittura “”antiteatrale””, in prospettiva moderna, appare, se non impossibile, difficile.
Schubert si identificava pienamente con il teatro della sua epoca, che era però un’epoca di passaggio e di trasformazioni. In mezzo al guado non sentì la necessità di imporre una scelta che lo esponesse
L’illusione del teatro fu per Schubert un teatro dell’illusione, una cornice al posto del quadro. Esiste un teatro musicale che si realizza sulla scena (Mozart, Verdi) o dentro la scena (Wagner), e uno
Gérard Korsten / Orchestra della Toscana, Coro Guido Monaco di Prato
61° Settimana Musicale Senese, Fondazione Accademia Musicale Chigiana – Siena, 2004