Gavazzeni, militante dell’opera “impura”

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Di fronte alla scomparsa di Gianandrea Gavazzeni, chi ama la musica e crede che la musica sia una manifestazione del pensiero e della cultura di cui rimane intatto l’esempio, sente con sincero dolore la sua perdita fisica, ma non ha motivi di provare rimpianto o di recriminare per alcunché. Gavazzeni se n’è andato a 87 anni, un’età in cui ci sta che ciò possa accadere. Senza soffrire lunghe malattie. Lucidamente e serenamente, impegnato tra una sfida dell’arte e l’altra. Dopo una vita meravigliosamente piena, invidiata da tutti, e non da ora, generosamente messa al servizio di chi volesse approfittarne: sia come direttore dagli interessi insaziabili, soprattutto per ciò che le mode via via respingevano, sia come scrittore di fulminante acutezza e di finissima intelligenza, attento a fare della cura stilistica uno strumento ancor più decisivo di eleganza e distinzione. Che la musica fosse veramente, per Gavazzeni, un esercizio continuo dello spirito e un interrogativo mai chiuso, lo dimostrano gli argomenti reiterati dei suoi libri e dei suoi saggi, spazianti dal melodramma ottocentesco ai protagonisti, grandi e meno grandi, del Novecento italiano, di cui fu a sua volta primattore nonché testimone diretto (la prefazione agli scritti di Dallapiccola sublima l’affetto per l’amico in intuizioni critiche insuperate). E ogni volta, ritornando sugli stessi temi o ampliandoli, l’assoluta disponibilità a rimettere in discussione idee e giudizi, senza preconcette certezze, con amabile indisciplina. Non meno indicativi di questa inquieta ricerca di una verità sfuggente sono gli scritti sotto varia forma autobiografici; dove a risaltare è in primo luogo il gusto per il particolare apparentemente trascurabile, magari minimo, in realtà rivelatore di un fatto, di un personaggio, di un evento: la piccola cosa che, fissata e osservata con attenzione, individua e segna le scelte, la parabola della vita. Gavazzeni aveva un’anima poetica. Il disincanto di cui spesso amava fare sfoggio nelle sue pirotecniche conversazioni non sconfinava mai nell’amarezza acida del rifiuto, ma esprimeva semmai la curiosità di considerare tutto possibile e, forse, accettabile nella vanità delle cose del mondo. La ragione di tutto era nella vita stessa. Il fine, forse, altrove. Ma su questo non si sbottonava. Sarebbe certo limitativo circoscrivere l’importanza di Gavazzeni direttore d’orchestra nel numero davvero considerevole di prime esecuzioni o riprese moderne che a lui si debbono: non solo dell’amatissimo Donizetti portato in trionfo dovunque, ma anche di Rossini (la riscoperta del Turco in Italia con la Callas), Verdi (Simon Boccanegra fu lui, e non altri, a rimetterlo in pista in Italia e perfino a Salisburgo) e quant’altro (Cilea, Mascagni, Pizzetti, Casella, Petrassi: il catalogo è immenso). Eppure, come interprete teatrale in senso stretto, Gavazzeni fu a lungo relegato nel novero dei rappresentanti, certo insigni, di una tradizione operistica per così dire di stampo antico: dove il direttore era considerato anzitutto in funzione dei cantanti e i registi non avevano ancora preso il sopravvento sulla musica, anche se si chiamavano Visconti. Paradossalmente, il suo rango di interprete si impose con la fine dell’epoca d’oro del belcanto, di cui il sodalizio con Leyla Gencer fu una grandiosa, estrema apoteosi tanto musicale quanto drammatica: fino a far brillare, in età ormai tarda, la chiara sensazione che Gavazzeni fosse, più che il depositario di una tradizione, l’interprete di una visione dell’opera come terreno di passioni e di ideali. Cui l’esecutore aderiva, senza sovrapporre se stesso, annullandosi completamente nel delirio dei sensi per riemergere purificato, quasi con scetticismo, nel riflesso del pensiero oggettivante. Gli nocque nella considerazione ufficiale, e lo fece amare da molti, il fatto di non essere un divo, né un virtuoso della bacchetta. L’impugnava, contrariamente a ogni convenzione, perpendicolare al braccio, ad angolo retto, e ne guidava il movimento con ampie aperture, a ondate, poco curandosi di sottolineare attacchi e suddivisioni. Questo modo di dirigere, da nessuno imitato e da nessuno imitabile, imprimeva alla musica uno slancio impetuoso, una forza di pertinace intensità, tesa a delineare le grandi arcate, il flusso orizzontale dei suoni fino al riposo della frase o della linea principale. Da questo punto di vista Gavazzeni non era affatto un direttore intellettuale o sofisticato, ma un musicista pratico cui premeva su tutto dare, dopo averla individuata, l’idea di totalità, di continuità dell’espressione, fino al suo compimento. E questo senso dell’insieme sapeva comunicare agli ascoltatori.

La lunga militanza nel partito per sua stessa definizione “impuro” dell’opera – sessant’anni di splendida carriera! –

non impedì incursioni nel repertorio sinfonico. Qui, come se il Maestro sentisse il richiamo di un mondo superiore, le scelte si facevano preziose, quasi intime: Bruckner, Schubert, Mendelssohn, Schumann, Fauré. Ossia i compositori meno teatrali, distillati tra luce e crepuscolo. Furono i momenti da ultimo più belli, decantati nell’attesa del silenzio.

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