Igor Stravinskij – The Rake’s Progress (La carriera di un libertino)

I

Il libertino allo specchio.

 

 

Sogni d’oro, padron mio.

I sogni mentono, lo sai,

ma sogna lo stesso.

Perché quando ti risveglierai, morrai.

(The Rake’s Progress, I, 2)

 

La genesi di The Rake’s Progress (La carriera del libertino), l’opera capitale del periodo americano di Stravinskij (aveva lasciato la Francia allo scoppio della seconda guerra mondiale), ci è narrata diffusamente dallo stesso autore. “”Sei anni fa (cioè nel 1947), a Chicago, ad una mostra sulla pittura inglese, fui colpito dalle diverse serie narrative di Hogarth [William Hogarth, pittore inglese del Settecento, nato e morto a Londra rispettivamente nel 1697 e nel 1764] che mi sembrarono una successione di scene d’opera. Poco dopo, conversando con il mio amico e vicino di Hollywood Aldous Huxley – che si potrebbe chiamare il ‘padrino’ della mia opera, poiché fu lui a suggerire Wystan H. Auden come librettista – discutemmo il problema dell’opera in lingua inglese. Nel settembre 1947, dopo aver finito 1′Orpheus, informai il mio editore, il defunto Ralph Hawkes, del mio progetto di scrivere una lunga opera. L’idea gli piacque molto; commissionò il libretto a W.H.Auden. In novembre il poeta mi raggiunse a Hollywood: ci accordammo sul soggetto, una favola morale in tre atti basata sulla serie The Rake’s Progress e impostammo una trama, l’azione, le scene e i personaggi. Tornato a New York, Auden prese come collaboratore Chester Kallman. Nel marzo 1948, consegnarono quello che è sicuramente uno dei più bei libretti d’opera. La composizione della musica mi tenne occupato per tre anni [1948-1951: 1′Epilogue è datato 7 aprile 1951]””. Per la prima rappresentazione Stravinskij preferì un teatro di proporzioni ridotte ma di grande tradizione, come La Fenice di Venezia. La première ebbe luogo martedì 11 settembre 1951, nell’ambito del XIV Festival Internazionale di Musica Contemporanea di Venezia. Il coro e l’orchestra erano quelli del Teatro alla Scala, sotto la direzione dell’autore; il regista Carl Ebert; nel cast figuravano nomi importanti: Raffaele Ariè, Elisabeth Schwarzkopf, Robert Rounseville, Otakar Kraus e Jennie Tourel.

Stravinskij coltivava da molti anni l’idea non soltanto di tornare all’opera, che nel suo catalogo mancava dai tempi giovanili di Le rossignol e Mavra, ma anche di scrivere un’opera in inglese, che cioè nascesse con la prosodia inglese e fosse elaborata alla sua maniera con corrispondenti elementi di gesticolazione musicale. La visione dei quadri di Hogarth fu dunque soltanto l’occasione esterna che mise in moto un meccanismo in parte già prefigurato. Fu però un impulso decisivo, almeno per due motivi. Il racconto per immagini di Hogarth intitolato appunto The Rake’s Progress, una serie di otto dipinti del 1732-1733 divenuti molto popolari grazie alle incisioni che ne furono tratte, oltre a narrare una storia emblematica – l’ascesa e la caduta del libertino come lo poteva intendere moralisticamente il razionalismo settecentesco –, rappresentava nel suo seguito di scene un’idea molto vicina alla concezione che Stravinskij aveva dell’opera, ossia come una serie di quadri staccati basa-ti su forme chiuse; inoltre costituiva la quintessenza di quel particolare tipo di Settecento inglese che configurava un idioma e in musica si rispecchiava nel melodramma italiano, e nel Mozart italiano in particolare. Non dramma musicale, dunque, ma opera: da questo punto di vista The Rake’s Progress è, come scrisse l’autore, “”decisamente un’opera, composta di arie, recitativi, cori e pezzi d’insieme. La sua struttura musicale, il concetto dell’uso di queste forme, perfino i rapporti tonali, sono sulla linea della tradizione classica””.

Naturalmente a Stravinskij non sfuggiva che un’opera “”sulla linea della tradizione classica”” avrebbe comunque dovuto confrontarsi con la contemporaneità, e non soltanto per evitare l’accusa di restaurazione e di sguardo rivolto nostalgicamente al passato (accusa che già aveva colpito anni addietro i suoi lavori cosiddetti neoclassici): si trattava anche di una questione, oltre che di forme, di linguaggio e di stile, anzi di cristallizzazione di un nuovo stile. Il suo modo di intendere la contemporaneità non era però basato sul principio di progresso, bensì di riflessione: e in questo senso non esistevano esperienze che non potessero essere rese attuali. In questa sorta di moto pendolare, di storicità e rispecchiamento, la vicenda illustrata in The Rake’s Progress conteneva non soltanto precisi riferimenti a un modello storico ma anche elementi di universalità che la visione contemporanea avrebbe potuto rendere più chiari: di fatto li rese più problematici. Sotto questo profilo il ciclo di Hogarth, tipico prodotto della cultura inglese del Settecento “”moralista””, ossia incline alla satira e alla parodia della società londinese del tempo, diviene un apologo, una favola non più soltanto “”morale”” bensì “”artistica””, una parabola caricata di simboli assai più pregnanti e sospesa in una dimensione mitica, senza spazio e senza tempo. In altri termini, La carriera del libertino assume un valore più comprensivo e si trasforma, come acutamente suggerisce Quirino Principe, nella Carriera di libertino: dove il libertino è prima di tutto l’autore alle prese con i suoi ritorni al passato e le sue alchimie di compositore spregiudicato, capace di ironizzare anche su se stesso.

Nell’operazione che fece di The Rake’s Progress un’opera tipicamente novecentesca per coscienza e consapevolezza gran parte ebbero i due librettisti, che lavorarono con il compositore in una stretta consonanza di intenti. Il libretto del poeta Auden, al quale l’amico Kallman portò in dote la sua esperienza teatrale scrivendo l’ultima parte dell’atto I scena I e tutta la scena III, parte della scena I dell’atto II e tutta la scena II, parti delle scene I e II dell’atto III, si distacca dallo schema di Hogarth proprio al fine di rendere più ricco e multiforme, più screziato e da ultimo più ambiguo, il significato della vicenda. “”Nel comporre il nostro libretto”” – scriveva Auden – “”Chester Kallman e io abbiamo conservato gli elementi essenziali della versione di Hogarth come l’improvvisa eredità, lo sperpero della stessa, il matrimonio con una brutta e vecchia donna, la vendita all’asta della proprietà dell’eroe e la sua fine in manicomio. Abbiamo poi aggiunto altri tre miti comuni: 1) la storia di Mefistofele – qui il protagonista Tom Rakewell si prende un servo chiamato Ombra; 2) una partita di carte con il diavolo in cui il diavolo perde per soverchia fiducia in se stesso; 3) il mito dei tre desideri: nell’opera il primo desiderio di Rakewell è di essere ricco, il secondo di essere felice e il terzo di essere buono. Questi tre desideri sono in relazione con le tre tentazioni e rispettivamente cioè con il desiderio del piacere, il desiderio dell’assoluta libertà spirituale in qualche atto gratuito, e il desiderio di diventare il salvatore del mondo””. In effetti, guardando più da vicino, il protagonista Tom Rakewell ha contorni assai più problematici e sfumati, e non è solo un corrotto, un dissoluto che dopo aver sperperato la sua vita viene punito. La fortuna non gli deriva dall’eredità del padre avaro (come nel primo dei quadri di Hogarth), ma gli viene lasciata inaspettatamente da un ricco zio che egli neppure conosce; l’ascesa non è segnata dall’esibizione della ricchezza accumulata e dall’ambizione di emancipazione sociale tipo borghese gentiluomo (La levée, secondo quadro di Hogarth), ma dall’azione di una potenza demoniaca esterna. Anche le ragioni della sua caduta sono modificate da Auden, che lo mostra non soltanto soccombere alla lussuria e ai piaceri della carne (come nella scena del bordello, pendant del quadro III hogarthiano, L’orgia), ma abbandonarsi anche alla sfrenatezza dell’acte gratuit (il matrimonio con la mostruosa Baba la Turca) e alla megalomane illusione di poter cambiare le miserie del mondo sfruttando la fantastica invenzione che tramuta le pietre in pane: del che in Hogarth non vi è traccia. Anche la figura di Hogarth della fanciulla (Sarah Young) che il protagonista ha sedotto promettendole il matrimonio e da cui ha avuto un figlio scompare e il suo posto è preso dalla virtuosa e delicata ragazza di campagna Anne Trulove, che incarna l’immagine stessa dell’amore fedele e idealizzato. La novità più importante è però costituita dall’invenzione di un personaggio del tutto estraneo a Hogarth, Nick Shadow, che riassume in sé i tratti di Mefistofele, alter ego di Rakewell-Faust, e di Leporello, servitore di Rakewell-Don Giovanni. Shadow si offre di realizzare i tre desideri di Rakewell – ricchezza, felicità, salvezza del genere umano – ma dopo un anno e un giorno di servizio (l’azione si svolge da primavera a primavera), falliti i suoi desideri, gli rivela di essere il diavolo e reclama come compenso l’anima del suo padrone. Rakewell ottiene di poter giocare il suo destino a carte e con fortuna stupefacente vince; il diavolo allora lo condanna alla follia. Se per lui non vi è redenzione, la sua fine non è la conseguenza di un comportamento scellerato bensì di un potere soprannaturale di cui è vittima.

Il modello a cui Stravinskij si ispirò nello scrivere un’opera di stile “”italiano-mozartiano”” fu per sua stessa ammissione Così fan tutte; alcuni momenti, come la scena II dell’atto III e il quintetto dell’Epilogo, richiamano invece rispettivamente la scena del cimitero e il sestetto finale del Don Giovanni. Nella sua favola morale Stravinskij interpretò in senso novecentesco non soltanto le convenzioni ma anche lo spirito del dramma giocoso mozartiano, intrecciando commedia e tragedia in modo ingegnoso e vario. I nomi dei personaggi sono maschere di commedia (nella traduzione italiana del libretto si chiamano Tom Birba, Nick Ombra, Corfido, Mamma Oca) e talora l’azione volge decisamente alla farsa; gli stati d’animo sottendono però una gravità permeata di serietà e di mistero. E per quanto l’Epilogo stemperi la tensione introducendo la morale della favola in una sorta di giocoso vaudeville, la catastrofe finale della pazzia nell’ultima scena del manicomio non manca di suscitare pietà e prolunga il suo alone tragico oltre lo scioglimento lietamente distensivo. Se Mozart è dunque il punto di partenza, con qualche reminiscenza delle atmosfere elisie di Gluck, molteplici sono i riferimenti sia all’operismo barocco inglese (Purcell e Haendel), sia al melodramma italiano del primo Ottocento (Rossini, Donizetti, Verdi), sia alle proiezioni del settecentismo che giungono nell’Ottocento fino a Gounod (Faust), Offenbach (Orfeo all’inferno) e naturalmente Cajkovskij (La Donna di picche: il personaggio di Hermann, le carte, il diavolo). In ogni caso si tratta però più di memorie storiche sedimentate, ripensate se non reinventate, che di esplicite, riconoscibili citazioni.

Anche l’orchestra si rifà al più tipico organico settecentesco: legni e ottoni a due (senza i tromboni), timpani e archi, più il clavicembalo, cui è affidato non solo l’accompagnamento dei recitativi “”secchi”” ma anche parti “”drammatiche”” di rilievo (nell’elenco premesso alla partitura Stravinskij scrive “”Cembalo (Pianoforte) “”; alla prima veneziana fu impiegato il pianoforte, ma in molte esecuzioni successive fu ripristinato l’uso del clavicembalo: è una questione aperta). I recitativi “”secchi”” sono lo scheletro di un’opera che si articola in numeri chiusi chiaramente segnati in partitura e che consistono anche di “”accompagnati””, ariosi, arie, ensembles (Duetti, Terzetti e Quartetti), concertati e vari interventi corali. I tipi di aria comprendono come casi estremi una Cavatina (per Tom) e una Cabaletta (per Anne): in genere le parti vocali mantengono una costante cantabilità, con uso di intervalli ampi in funzione espressiva sia per Tom sia per Anne (la rovina di Tom sarà anzi sottolineata dalla perdita progressiva di questa facoltà di espandersi liricamente e dalle spire di un attanagliante cromatismo). Le arie, gli ensembles e i cori sono generalmente scritti in versi, mentre i recitativi sono in prosa. I vari numeri sono collegati da un deliberato impianto tonale che si rivela essenziale nella costruzione dei personaggi e delle situazioni (per esempio il la maggiore con cui l’opera si apre e si chiude) e il gioco delle modulazioni, mobile e spesso imprevedibile, vi recita un ruolo di primo piano.

Caratteristico è anche il ricorso, in alcune arie, a introduzioni strumentali e a soli “”obbligati”” che definiscono un clima, a seconda che si tratti di tromba, oboe, fagotto o corno. La parte strumentale presenta la trasparenza e la sobrietà di una composizione da camera: e come “”musica da camera”” l’autore considerava fondamentalmente la sua opera. I tratti più caratteristici dello stile stravinskiano si riscontrano però nel ritmo e nelle armonie. Nel ritmo predominano l’ostinato e il ribattuto, che scandiscono la vicenda come in una marcia ineluttabile, tanto oggettiva quanto ossessiva. I costrutti armonici sono invece spesso apparentemente “”sporchi””, in realtà sottoposti a un processo di acidificazione che li rende caustici e velenosi. Né mancano da un lato gli arcaismi modali, che offrono quasi un’oasi di pacificante consolazione, dall’altro le incursioni nella politonalità più inquieta e nervosa, per mezzo di continue sovrapposizioni e incroci. Nel complesso, però, l’opera mantiene una quadratura classica: divisa in tre atti, si articola in nove scene intese come entità a sé stanti, tre per ogni atto, e in un “”a parte”” in forma di Epilogo.

Il primo atto è introdotto da un brevissimo preludio, affidato quasi esclusivamente a una fanfara di trombe e corni, poco più di un segnale e un richiamo all’attenzione: l’autore lo considerava “”non ouverture, né un preludio importante, ma semplicemente l’equivalente di ‘on va commencer’, ‘si incomincia’. La prima scena del primo atto si svolge in un pomeriggio primaverile nel giardino della casa di campagna di Trulove (basso), padre di Anne (soprano), fidanzata di Tom Rakewell (tenore). Il Duetto iniziale di Anne e Tom, che diviene Terzetto con l’intervento, a parte, del padre di Anne, si svolge in un arcadico clima settecentesco, mite e idilliaco, riecheggiante teneri spunti mozartiani. Nel Recitativo secco che segue, Trulove offre a Tom un impiego in banca, ma Tom lo rifiuta e in un Recitativo seguito da un’Aria bellicosa rivela di nutrire altre ambizioni e di sperare nell’aiuto della fortuna: poi emette il suo primo desiderio, “”vorrei molto denaro””. Appare improvvisamente al cancello Nick Shadow (baritono), l’Uomo Ombra, il diavolo in incognito: la sua apparizione è contrassegnata da un arabesco del clavicembalo, un arpeggio che nel corso dell’opera ritornerà significativamente a quasi tutte le sue entrate. In un Recitativo accompagnato dall’orchestra Shadow annuncia a Tom che ha ereditato le ricchezze di uno zio sconosciuto. La sorpresa si mescola alla gioia, e nel Quartetto che segue Tom, Anne e Trulove manifestano i loro sentimenti, mentre Shadow, che Tom ha ingaggiato come servitore, lo invita a recarsi a Londra per curare i propri affari. Anne e Tom, rimasti soli, si salutano in un Duettino trasognato, che riporta i palpiti soavi del Così fan tutte mozartiano. In un nuovo Recitativo, accompagnato alternativamente dal solo clavicembalo e dall’orchestra, Tom chiede a Shadow quale sia il suo compenso. Shadow risponde elusivamente che tra un anno e un giorno egli pagherà quanto sarà giusto. Tom accetta di buon grado, suggellando il patto con una rapida cadenza “”perfetta””. La scena si chiude con un Arioso e un Terzettino: nell’Arioso Tom prende commiato da Anne e Trulove, promettendo di chiamarli a Londra al più presto; nel Terzettino, iniziato da Tom, i tre personaggi esprimono “”ognuno per sé””, come il compositore indica in partitura, i diversi stati d’animo al momento dell’addio. Poi, con un semplice arpeggio di sol maggiore sostenuto dal rullo dei timpani, Shadow, alla maniera di un banditore da fiera, annuncia al pubblico: “”La carriera del libertino ha inizio””.

La seconda scena si svolge a Londra nella casa di piacere di Mamma Goose (Mamma Oca, mezzosoprano). Un coro di sgualdrine e crapuloni, tra sfrontati ritmi marziali e carezzevoli seduzioni, inneggia brindando a Venere e a Marte. Shadow introduce Tom, affinché venga esaminato dalla padrona del locale prima di essere iniziato al piacere del bordello. In un Recitativo drammatico accompagnato dall’orchestra Tom risponde a tutte le loro domande, ma si arresta come confuso e sgomento di fronte a quella che riguarda l’amore vero. L’orologio a cucù suona l’una. “”E’ tardi!””, conclude Tom. A un cenno di Shadow l’orologio torna indietro e suona la mezzanotte. Riprende il coro provocante delle prostitute e dei giovanotti. Tom replica intonando una malinconica Cavatina accompagnata dagli archi e dal clarinetto obbligato, nella quale piange il suo tradimento verso Anne, e prega il dio Amore di assisterlo, anche se sa di non avere la forza di resistere alla tentazione. Il coro delle cortigiane si fa allora sentimentale e invita Tom a dimenticare le sue pene e la sua tristezza tra le loro braccia. Ma Mamma Oca, reclamandolo per diritto di anzianità, s’impadronisce del giovanotto e s’allontana con lui, mentre il coro fa ala al loro passaggio con maliziose eppur enigmatiche, lubriche allusioni. Shadow alza il bicchiere augurando a Tom sogni dolci durante quel sonno alla cui fine l’attende la morte.

Con la terza scena ritorniamo nella casa di campagna di Trulove. E’ una notte autunnale di luna piena. In un Recitativo accompagnato dagli archi e in un’Aria timbrata dal suono scuro e insinuante del fagotto concertante Anne esprime la sua desolazione per non aver ricevuto notizie da Tom. E’ un momento di altissima concentrazione emotiva e di profonda umanità, che ricorda addirittura la severità incantata di certe Arie delle Passioni di Bach: il personaggio di Anne, creatura gentile e affettuosa, semplice e schietta, riceve qui la sua consacrazione di luce nelle tenebre. Ma non solo. Anne possiede anche la chiarezza della decisione; sicché, con repentino cambiamento d’umore, può slanciarsi in una brillantissima e inaudita Cabaletta, la cui sfacciata parodia di stilemi italiani, con il suo vertiginoso virtuosismo, non intacca la genialità di un’invenzione miracolosamente libera e travolgente.

La prima scena del secondo atto (a Londra, in casa di Tom) si apre con un lungo a solo (un’Aria intramezzata da un denso Recitativo) nel quale Tom dà voce alla noia e al disgusto della sua nuova vita, dissipata e oziosa, in città: si sente prigioniero, e al tempo stesso triste, svuotato. Sospira un desiderio: “”vorrei essere felice””. Ed ecco arrivare, preannunciato dal sinistro arabesco del clavicembalo, Shadow che reca il ritratto di Baba la Turca, una donna barbuta, mostruosa, che si esibisce come attrazione nei baracconi della fiera. Un Recitativo accompagnato prima dal solo clavicembalo, poi da secchi accordi dell’orchestra, e infine da un’insistente figurazione ritmica degli archi, sostiene il dialogo nel quale Shadow induce Tom a chiedere in sposa Baba la Turca, onde affermare con un atto gratuito e assurdo la propria incondizionata libertà. Nel Duetto finale i due compari, dopo una risata euforica, prorompono nella gioia incontenibile e insensata di mettere in atto la loro colossale e bizzarra burla. La seconda scena si svolge di fronte alla casa di Tom. Anne è giunta a Londra e si aggira sola e smarrita davanti alla dimora del fidanzato: questa sorta di ansiosa pantomima è accompagnata dal canto nudo e solitario di una tromba, evidente, anzi dichiarata reminiscenza del Don Pasquale di Donizetti. In un Arioso Anne manifesta tutto il suo affanno, che da concitato e fremente si trasforma in un più disteso e lirico melodizzare intriso di speranza. Al suono di un’allegra marcetta s’avanza un corteo nuziale: i servitori depongono a terra una portantina chiusa, scortata da Tom. Anne riconosce Tom: segue un Duetto nel quale la fanciulla dà sfogo alla sua gioia, è pronta a perdonare le miserie di cui Tom si accusa di fronte a lei e a dimenticare ogni offesa. Invano Tom cerca di persuaderla ad allontanarsi. A un tratto si ode la voce di Baba (mezzosoprano), che aprendo lo sportello della portantina e sporgendo il volto velato protesta con voce querula di essere stufa di aspettare. Il Duetto si muta in Terzetto (anzi Trio, come scrive Stravinskij) : Anne apprende da Tom che Baba è sua moglie e, al colmo del dolore, si dispera e fugge. E’ uno dei momenti più intensi dell’opera, delicato e al tempo stesso amaramente patetico e grottesco, gonfio di ironia tragica: come ha scritto Massimo Mila, “”nessuna parola riuscirebbe mai a rendere con l’evidenza, con la realtà di questo canto, la disperazione d’una fatalità assurda che separa due esseri proprio nel momento in cui riconoscono ancora una volta d’amarsi più di ogni altra cosa al mondo””. Partita Anne, ha inizio il Finale, con effetto quasi straniante nella sua solenne indifferenza: Tom aiuta con galanteria la sposa a uscire dalla portantina e si avvia con lei sullo scalone; Baba, come una grande diva, si toglie il velo e mostra la sua barba nera, fluente, alla folla, che trionfalmente l’acclama.

La terza scena ha luogo nella stessa stanza del primo quadro, ora piena di oggetti strani e improbabili. I due sposi siedono a tavola per colazione. Baba attacca un’Aria monotona e cantilenante sopra un “”perpetuum mobile”” degli archi e dei clarinetti, distrattamente seguita dal marito annoiato; allora, per attirare la sua attenzione, intona una sguaiata Canzoncina sentimentale, mentre l’orchestra tace del tutto. Tom la interrompe brutalmente e scoppia una rissa, con l’isteria di Baba tradotta ora in furiose esclamazioni ora in disumani gorgheggi. Per farla definitivamente tacere, Tom le caccia sul viso la sua parrucca, poi sfoga la sua indifferenza in un breve Recitativo, infine si addormenta arcanamente ipnotizzato da una lunga nota tenuta del corno con sordina e della viola sul ponticello. Nella Pantomima che segue entra di soppiatto nella stanza Nick Shadow recando con sé una strana, fantastica macchina: prende un panino dalla tavola, apre uno sportello sul davanti della macchina, vi caccia dentro il panino e richiude lo sportello. Poi raccoglie da terra un coccio di vaso, lo getta in un imbuto della macchina, gira una ruota e il panino cade fuori da un canale. Apre lo sportello, tira fuori il pezzo di porcellana, v’introduce il panino e ripete la manovra: tutto ciò deve accadere in modo che il pubblico si accorga che tutto il meccanismo è un assurdo imbroglio. Soddisfatto, Shadow canterella una triviale melodia. Quando dall’orchestra sale la nota figura arpeggiata del clavicembalo che rivela la presenza diabolica, Tom si sveglia pronunciando il suo terzo desiderio: “”vorrei che fosse vero””. Poi, in un Arioso, racconta d’aver sognato una macchina capace di liberare l’umanità dal bisogno, trasformando i cocci o le pietre in pane. Shadow gli fa vedere la macchina e lo invita a provarla: detto fatto. Tom, estasiato, cade in ginocchio. Attacca a questo punto il vivace Duetto finale, nel quale Tom si abbandona all’entusiasmo e incita all’azione, dimenticando Baba e i suoi lamenti, più che mai sicuro della protezione di Shadow.

Nella sua riconfermata varietà – una prima scena comicamente grottesca, una seconda intensamente drammatica, una terza in modo toccante patetica – il terzo atto costituisce il culmine sia drammatico sia musicale dell’opera: un culmine però progressivamente segnato da un raffreddante anticlimax. Esso inizia in un pomeriggio di primavera nella stessa stanza in casa di Tom, dove una folla di Rispettabili Cittadini è convenuta per assistere chiassosamente alla vendita all’asta dei suoi ultimi beni dopo la bancarotta. Baba è seduta ancora con la parrucca in testa allo stesso posto che occupava alla fine del secondo atto. Giunge Anne, in cerca di Tom. Il suo impaccio, la sua esitazione sono subito travolti dall’eccitazione per l’inizio dell’asta, condotta dal banditore Sellem (tenore caratterista) con caricaturale frenesia: da notare lo straordinario effetto d’un “”vibrato”” di tromba che scandisce ossessivamente su una sola nota ribattuta e via via ascendente di grado il caotico avvicendarsi delle offerte. Roman Vlad vede in questa scena “”gesti musicali da vertiginosa ‘toccata’”” ; per Massimo Mila essa si configura invece come “”una specie di gigantesco rondò””. Quando il banditore si avvicina a Baba credendola un oggetto dell’asta, Baba si risveglia, si libera della parrucca e riattacca la sua Aria là dove l’aveva lasciata nel secondo atto. La folla ora non ha occhi che per lei, la regina della fiera. Si odono fuori scena le voci di Tom e Shadow che cantano una canzonetta volgarmente allusiva. Baba e Anne le riconoscono, incontrandosi. Nel Duetto che segue Baba esorta Anne a rintracciare Tom per toglierlo dalle grinfie del suo diabolico servitore. Di nuovo risuona dall’esterno la voce di Tom e Shadow, ancora più sguaiata, ancora più inquietante. Anne si appresta a partire. Durante la Stretta finale, elaborata in uno spettacolare reticolo di contrappunti e canoni, l’uscita trionfale di Baba è appena increspata dall’ultima ripresa della canzonetta dei due compari, fuori scena, dileguante in lontananza.

E siamo alla lugubre scena del cimitero, la seconda dell’ultimo atto. E’ una notte buia, senza stelle. Arrivano Rakewell e Shadow, soffermandosi davanti a una fossa appena scavata. Sono trascorsi l’anno e il giorno durante i quali Shadow si era impegnato a servire Tom. Ora esige il suo compenso. Non vuole denaro, ma l’anima del suo padrone. Quanto al corpo, la fossa è pronta e Tom potrà uccidersi con l’arma che vorrà allo scoccare della mezzanotte. Tom è terrorizzato, cupo, rassegnato. Ma Shadow, attaccando improvvisamente un Recitativo, dichiara di voler offrire a Tom un’ultima possibilità: egli potrà giocare la sua anima in una partita a carte. Il destino giocato in una partita a carte: “”simbolo”” – commenta Massimo Mila – “”della vita dell’uomo, il quale non è altro che un trastullo, secondo il deterministico pessimismo stravinskiano, nelle mani di forze superiori, di cui egli non può penetrare le leggi misteriose””. Geniale è l’intuizione di accompagnare il lungo Duetto della fatale partita con il suono oltremondano, metallico e duro, livido e glaciale, del clavicembalo solo: sono lenti arpeggi bitonali, che ogni tanto si condensano in accordi arpeggiati, gravi e spaziosi come in una danza macabra, ossessionanti e implacabili come in un “”ostinato perpetuo””. Ancora Mila: “”C’è una logica elusiva e inafferrabile nelle evoluzioni di quegli arpeggi che non hanno fretta; la bitonalità produce l’effetto di una scissione dolorosa, d’un vuoto che non si riesca a colmare, d’una ferita che non rimargina””. Tom, soccorso dal pensiero di Anne, la cui voce da ultimo risuona fuori scena con la forza dell’amore, vince le tre “”mani”” e allo scoccare della mezzanotte ha salva l’anima; ma il diavolo, scornato e beffato, per vendicarsi della sconfitta lo priva della ragione. Sulla scena si è fatta oscurità completa. Quando spunta l’alba, Tom siede sorridente e stranito sul verde tumulo della sua tomba, si cosparge il capo d’erbetta e con voce infantile canterella una filastrocca, dicendosi coronato di rose come Adone, in attesa della sua bella Venere: con orrore ci accorgiamo che la sua cantilena altro non è che una parodia della canzonetta sguaiata e volgare che poco prima aveva allegra-mente condiviso con il diavolo.

Nell’ultima scena Tom è nel manicomio di Londra. In un Arioso pregno di attesa e di calma spettrale vagheggia l’arrivo imminente di Venere. Invano i matti cercano di persuaderlo che l’attesa è vana: come lemuri gli danzano e cantano intorno con gesti di scherno un lugubre Minuetto. Ma giunge Anne, introdotta dal guardiano, che mette in fuga i matti. Tom l’accoglie, credendola Venere, con un Recitativo quasi Arioso di dolce, mortale spossatezza, lancinante e doloroso, chiedendo alla Sublime Dea di accoglierlo nel suo grembo e di cullarlo. E come nel finale del Peer Gynt di Ibsen, Anne canta una Ninna-nanna d’infinita, semplice e tenera bellezza, fino a che Tom non si addormenta; poi, raggiunta dal vecchio Trulove, parte, giurando fedeltà eterna al loro amore. Quando Tom si risveglia, rendendosi conto che Anne non è più lì, si dispera e impreca, accusando i matti della sua scomparsa. Poi invoca Orfeo perché intoni il “”canto del cigno”” sulla morte del giovane Adone. Il coro dei matti raccoglie l’invito al compianto, e con una lamentazione funebre di cinerea fissità, nella tonalità di la minore, prende congedo dallo sfortunato amante, mentre il sipario lentamente si chiude. Ma prima che giunga a chiudersi del tutto, Nick Shadow lo ferma con un gesto e invita gli attori alla ribalta. In teatro si accende la luce. Ora gli uomini sono senza parrucche e Baba la Turca senza barba. Un festoso tema orchestrale in la maggiore, lietamente circolare, incornicia l’Epilogo, nel quale ogni personaggio a turno dà la sua versione della vicenda e tutti insieme cantano la morale della favola: “”Per chi nell’ozio se ne sta / il diavolo ha / da far, per lei, signor, per lei, bella signora, / per lei e lei!””. Poi s’inchinano rispettosamente al pubblico ed escono.

Non è questo dell’Epilogo il solo imprestito mozartiano che Stravinskij e i suoi librettisti si concedono. Anzi, come si è già accennato, il ritorno a forme e atteggiamenti del passato raggiunge in quest’opera un’evidenza forse maggiore che in qualsiasi altra opera precedente per ciò che riguarda tanto gli estrinseci aspetti formali quanto gli intrinseci elementi del linguaggio sonoro (melodia, ritmo, armonia, strumentazione ecc.). Eppure The Rake’s Progress ci appare più che mai oggi, cinquantatré anni dopo la sua prima apparizione, un’opera ineludibilmente, direi fatalmente, forse disperatamente novecentesca. Stravinskij gioca con delle regole, ma poi le fa saltare. In altri termini, il gioco stravinskiano, se davvero di gioco si tratta, è, come ben rappresenta la partita a carte nel luogo simbolico della morte, il cimitero, un gioco da giocarsi in un cerchio magico, se non addirittura in faccia alla morte: sotto questo aspetto niente vi è di più serio che la finzione sub specie ludi. Non solo. In un certo senso The Rake’s Progress è anche un’opera autobiografica, e il libertino altri non è che Stravinskij stesso, compositore allo specchio della storia e dell’uomo. Con una differenza, però: Tom, incarnazione dell’uomo senza qualità moderno, vive la contraddizione interna di chi soccombe senza sapere perché e senza raccogliere altro frutto che insoddisfazione e rimorso: la sua debolezza è una sorta di spleen della volontà. Stravinskij, al contrario, reagisce con la forza della volontà alla coscienza della vanitas vanitatum e assume di volta in volta, come il grande burattinaio della favola, anche gli attributi del diavolo e quelli della candida fanciulla mossa dall’amore. E la salvezza è data proprio da questo trasformismo, che reintegra eroicamente la tragica dissociazione dell’individuo in una categoria di superiore distacco, in una visione panoramica, l’unica che possa consentire il recupero della totalità. Quando Stravinskij affermava che “”l’arte richiede soprattutto la coscienza dell’artista, pena la perdita di se stessi””, non faceva altro che riaffermare un principio che avrebbe esteso a ogni fase della sua “”carriera”” di compositore “”libertino””. E se la storia ci ha insegnato che in arte il libertinaggio può essere anche indice di alta moralità, il Novecento vi ha aggiunto la consapevolezza che ogni epoca costituisce un’unità storica. Non vi è pessimismo, dunque, ma semmai una vena di scetticismo nelle parole che Stravinskij aggiunge a questa consapevolezza: “”Non apparirà mai se non come una cosa o l’altra ai suoi più parziali contemporanei, naturalmente, ma la somiglianza è graduale, e col tempo l’una cosa e l’altra divengono gli elementi compositivi della stessa cosa””.

Julian Kovatchev / Kerstin Maria Pöhler, Frank Fellmann, Allen Yu, Reinhard Traub, Ferdinando Chefalo, Maria-Isabel Graf, Julian Mayer, Kip Wilborn, Simon Edwards, Ann-Helen Moen, Elena Rossi, Richard Paul Fink, Alessandro Svab,Claire Powell, Konstantin Sfiris, Fran Lubahn, Wolfgang Noet, Eldar Aliev, Orchestra del Teatro Lirico “Giuseppe Verdi”
Fondazione Teatro Lirico “Giuseppe Verdi” di Trieste, Stagione lirica e di balletto 2004-2005

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