Il conservatorio di musica e la professione artistica. Quale ricerca per quali professioni

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Il conservatorio di musica e la professione artistica. Quale ricerca per quali professioni.


Nei Conservatori di Musica non si son fatti istituzionalmente né ricerca né produzione artistica, salvo forse nei Licei musicali, che sono stati una valvola di ossigeno, purtroppo chiusa in molti Conservatori, come per esempio il Conservatorio di Firenze, e nelle classi sperimentali, di composizione soprattutto, dove è possibile un coinvolgimento rivolto in entrambi questi sensi. Questa affermazione non vuol essere la solita, facile e generica accusa ai Conservatori, anzi, è una semplice constatazione di una funzione diversa assolta più o meno bene dai Conservatori per un lungo periodo della loro storia: la funzione di una scuola professionale indirizzata soprattutto all’apprendimento. Le esigenze di ricerca e di produzione artistica, che travalicano le consuete e pur fondamentali scadenze dei saggi scolastici, sono fatti nuovi e di più ampio respiro nei rapporti col sociale, già avviati in molti Conservatori, fra cui anche il nostro, da intendersi in senso globale nel quadro della riforma e dell’autonomia. Riforma ed autonomia sono essi stessi fatti nuovi, che prefigurano un cambiamento di indirizzo più che mai necessario nella vita futura dei Conservatori.

Una premessa sulla riforma mi sembra necessaria: credo che sia pericoloso limitarsi all’equiparazione dell’insegnamento nei Conservatori a modelli universitari. Questa riforma è destinata a fallire se non sarà collegata a una riforma globale dell’istruzione musicale che miri a introdurre subito, e sarà comunque sempre troppo tardi, l’alfabetizzazione musicale, con tutto ciò che di pratico ne consegue, a partire dalle scuole materne ed elementari. La formazione che oggi danno i Conservatori è, nella migliore delle ipotesi, una formazione di base a medio raggio, e non vedo come ciò possa essere equiparato all’insegnamento universitario, che è preceduto da una alfabetizzazione elementare, una media e una superiore. Il diploma di Conservatorio può essere oggi equiparato tutt’al più a un diploma di maturità, ossia a qualcosa che precede l’università: ma sappiamo che una università della musica fino ad oggi non esiste. Si tratta di crearla nel quadro armonico e completo di una ristrutturazione dell’istruzione musicale.

Quanto all’autonomia: l’autonomia dei Conservatori è un fatto senza dubbio positivo, che avrà il merito se non altro di creare una concorrenza e di premiare chi saprà gestire meglio questa autonomia. Ma a quali fini? La risposta più immediata è: ai fini della professione artistica. Ciò richiede subito una risposta a un’altra domanda, o meglio a un ventaglio di domande: quale ricerca dovrà essere introdotta prioritariamente, e per quali professioni?

Gli sbocchi professionali di uno studente di Conservatorio, diplomato o laureato che sia, sono essenzialmente di tre tipi:

1) la carriera solistica o in formazioni di musica da camera;

2) la professione d’orchestra per gli strumentisti, quella di artisti del coro per gli studenti di canto;

3) una serie di impieghi diciamo così di operatore musicale nell’ambito della musicologia, della critica musicale, delle case editrici, dei teatri, dei mezzi di comunicazione e delle tecnologie, tradizionali e non. Quest’ultimo tipo presuppone un collegamento diretto con l’università, tanto che la laurea ne è un presupposto fondamentale, ma non è detto che non possa essere il risultato di una nuova concezione e di una nuova preparazione del Conservatorio.

La domanda che sorge spontanea è questa: il Conservatorio è oggi in grado di preparare con i suoi corsi a queste professioni? La risposta è: no. Non tiriamo in ballo le solite eccezioni, che si contano sulle dita di una mano. La media generale dei diplomati dei Conservatori non è assolutamente in grado di affrontare neppure lontanamente la professione, per il semplice fatto che la scuola non li prepara adeguatamente a questo. Nella migliore delle ipotesi, la preparazione equivale a quella di un liceo, con il paradosso di aver già predeterminato, almeno potenzialmente, un indirizzo professionale che non necessariamente si realizzerà in modo reale.

Di chi è la colpa di questo stato di cose? Non solo dei programmi, che continuano a essere antiquati e inadeguati, e che non possono accontentarsi ancora a lungo dell’aggiramento dei programmi sperimentali: un programma sperimentale deve diventare ufficiale in sostituzione di quelli vecchi non appena abbia dimostrato la sua validità. Ma non si tratta solo di programmi: il discorso riguarda anche gli insegnanti. Non si capisce perché in una scuola a indirizzo professionale debba essere dato l’ostracismo ai professionisti che esercitano la musica e non si possa, fermo restando il sacrosanto divieto del doppio impiego stabile, recuperare all’insegnamento, sotto forma di impegni a contratto, come fra l’altro avviene nelle università, quei musicisti interessati a tramandare le proprie esperienze artistiche e professionali attraverso l’insegnamento. Non ci sarà bisogno di ricordare che ciò avviene regolarmente presso le più importanti orchestre del mondo: le prime parti di orchestre come quelle dei Wiener, dei Berliner, del Bayerischer Rundfunk, per non parlare delle orchestre inglesi e americane, sono obbligate a prestare la loro esperienza nei corsi superiori dei Conservatori delle loro città, per tramandare uno stile esecutivo proprio di quella orchestra e introdurre così i migliori studenti, da loro stessi selezionati, nella vita dell’orchestra stessa. Il primo obiettivo di un nuovo modo di intendere il collegamento tra il Conservatorio e la professione è dunque  quello di creare una inserzione graduale dello studente nella professione, fino ai massimi livelli. L’apertura dei Conservatori a esperienze professionali esterne deve essere uno dei primi impegni dell’autonomia e richiede la certezza di fondi destinati a questo scopo. Non si tratta di sfiducia nei confronti degli insegnanti stabili, ma di un necessario complemento della preparazione individuale in funzione della professione.

È inutile far finta di ignorare il fatto che la proliferazione non solo dei corsi di perfezionamento ma anche delle scuole di musica private o sovvenzionate dagli enti locali è la conseguenza di una riconosciuta inadeguatezza dei Conservatori a svolgere la loro funzione istituzionale. Non ho dubbi che la scuola di perfezionamento pianistico di Imola o la scuola di musica di Fiesole realizzino assai meglio dei Conservatori una funzione di ricerca e di preparazione professionale. Non si vede perché i Conservatori non possano fare altrettanto, istituendo da un lato corsi di perfezionamento a livello universitario affidati a professori a contratto appositamente scelti – e sarà merito o demerito di chi li sceglie raggiungere o meno gli scopi prefissi -, dall’altro lato incentivando corsi di formazione professionale nell’ambito della musica strumentale e vocale da camera, del coro e dell’orchestra, ivi comprese le ricerche sugli stili e le prassi esecutive e le esecuzioni di musica contemporanea. Non si tratta forse neppure di istituire nuovi corsi, ma di indirizzare quelli esistenti a una più compiuta e concreta preparazione professionale.

L’orchestra e il coro del Conservatorio debbono diventare sotto questo profilo un pilastro almeno della vita cittadina, tenendo regolari concerti anche con il concorso degli insegnanti, la cui opera didattica non può prescindere dalla presenza accanto agli allievi nei primi passi verso la professione. Da questo punto di vista la riforma dei Conservatori dovrà abbattere resistenze e, diciamolo pure, privilegi atavici, istituendo liberamente forme diversificate di collaborazione a tempo pieno, con un numero di ore adeguato, e part time. L’assurdo divieto imposto agli insegnanti di esercitare la libera professione nell’ambito della loro specifica competenza, quando non confligga con le esigenze della scuola, è un altro di quei paradossi che allontanano la ricerca da un sempre continuo aggiornamento e perfezionamento professionale degli insegnanti. È un divieto che deve cadere per essere regolamentato nell’interesse stesso della scuola.

Altrettanto fondamentale è la creazione di un collegamento con le altre istituzioni (teatri, orchestre, cori, università, scuole, quartieri, ospedali) e promuovere su vasta scala il decentramento. Si tratta di un obbligo di presenza sia passiva che attiva. Il Conservatorio deve essere presente come propedeutica alla professione ed elemento educativo inserito nel sociale.

Altro punto di svolta è l’individuazione di tematiche culturali e artistiche che possano essere realizzate interdisciplinarmente in occasione di convegni, mostre, conferenze, dibattiti eccetera. L’apertura del Conservatorio all’esterno ne è il presupposto, accanto all’incentivazione degli scambi di esperienze e di collaborazione fra i Conservatori.

Il Conservatorio deve diventare un centro pulsante di musica e di cultura. Il che significa avere un proprio indirizzo, una propria cifra culturale e musicale, e una propria identità.

Aspetto economico: responsabilizzare i comuni, le province e le regioni sull’educazione musicale, ricevendo in cambio dei servizi. Apertura ai privati. Organizzazione: massima responsabilità ai direttori, che debbono essere capaci di dare un indirizzo alla vita dei Conservatori.

Non credo che sia lontano il momento in cui i Conservatori diventeranno soggetti a una legge di mercato. Sopravviveranno quei Conservatori nei quali la ricerca volta non solo alla preparazione ma anche alla qualificazione professionale darà i suoi frutti fornendo alla società elementi adeguati alla funzione che a loro si richiede: nel nostro caso, essere come minimo dei buoni professionisti, se non degli artisti altamente competitivi. È indubbio che sarà l’iniziativa autonoma di cui ogni Conservatorio nella sua situazione socio-economica saprà dimostrarsi capace a fare la differenza. Non credo che sia più tollerabile il fatto di sfornare musicisti scarsi e disoccupati: scarsi perché disoccupati, o disoccupati perché scarsi. O anche, il che è più grave, bravi e disoccupati. Si tratterà allora anche di monitorare le esigenze di quali professioni siano più necessarie anche in ambito artistico; senza impedire a nessuno di imparare ed esercitare la musica per il proprio diletto. Anche questo aspetto fa parte del tema “”quale ricerca per quali professioni””. Per ottenere ciò credo che siano indispensabili due elementi:

1) ampliare il bacino di utenza della musica a tutti, insegnando la musica a tutti, in ogni scuola di ordine e grado, almeno al livello in cui si impara a leggere e a scrivere e a disegnare e a far di conto. Ma direi anche ampliare la fruizione della musica, creando nuovi cori, orchestre, associazioni in grado di produrre musica e di assecondare la ricerca nei diversi ambiti.

2) decidere quale ruolo debba essere assegnato ai Conservatori: se continuare, in assenza di un’istruzione musicale generalizzata, a essere una scuola in cui si impara più o meno bene la musica o una vera, completa scuola professionale, che cioé introduca naturalmente e direttamente, dopo adeguata selezione, alla professione. Per questo ci dovrà essere uno stadio elementare, medio e superiore, ognuno continuo e coordinato. L’importante, ripeto, è non illudersi che si possa costruire il tetto senza aver prima fissato solide fondamenta.

Conservatorio Statale di musica “Luigi Cherubini”di Firenze, atti del convegno nazionale dei direttiri dei conservatori di musica, Ricerca e produzione artistica nel quadro della riforma e dell’autonomia dei Conservatori di Musica – Modalità e tempi di attuazione – 2, 3, 4 Dicembre 1999, Sala del Buonumore di Firenze

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