La rarefatta Aida di Harnoncourt

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L’incisione dell’Aida diretta da Nikolaus Harnoncourt con i Wiener Philharmoniker è stata salutata dalla stampa internazionale come l’evento discografico dell’anno verdiano. Vediamo. Di un evento si tratta, dato che il nome di Harnoncourt non si lega normalmente a questo autore, né a questo repertorio. Ciò non significa che un musicista di razza quale è Harnoncourt non sia legittimato ad affrontarli. Anzi, ben vengano tali incursioni, da lui come da altri outsider (per esempio Gardiner, il cui Falstaff spigoloso inciso per la Philips è stato giudicato del pari un evento). Poi però si ascoltano i dischi, e si rimane interdetti, prima affascinati e poi disorientati. Ciò che ascoltiamo è un Verdi totalmente diverso da quello a cui siamo abituati; e fin qui niente di male. La diversità è data prima di tutto, così sembra, da un intento dimostrativo, ideologico, di cui Harnoncourt dà anche conto con finezza nelle note di accompagnamento all’elegante cofanetto della Teldec: rispettare rigorosamente le indicazioni della partitura nell’agogica e nella dinamica, sottrarre Verdi all’atletismo vocale, sottoporre il testo a una approfondita analisi psicologica.

Anche se Harnoncourt non lo dice espressamente, si arguisce che per lui tutta la tradizione esecutiva verdiana si fonda su un equivoco: non basta a definirla lo scatto bruciante degli snodi drammatici, teatrali, ma occorre la contemplazione di un’essenza lirica (non melodrammatica) che dal prisma dell’orchestra si riflette sulle voci, e non viceversa. In altri termini, una visione bloccata, trasfigurata, non rivissuta in prima persona ma osservata con distacco attraverso la lente d’ingrandimento di un accumulo di materiali (il deposito del tempo) che vengono a poco a poco smontati e decontestualizzati. È singolare che Harnoncourt, partito da posizioni filologiche di recupero di una prassi esecutiva “originale” con gli autori più lontani nel tempo (Monteverdi, Bach, Mozart), sia pervenuto con questo Verdi al capolinea opposto: rifiutare la tradizione della prassi esecutiva per collocare l’opera in un eden fuori del tempo e dello spazio. Prima di tutto fuori dello spazio impuro del  teatro.

Alcune costanti sono così esibite da figurare come chiavi di lettura concettuali: la lentezza dei tempi, in primo luogo, presente come manifesto già nel Preludio, estenuato come un “Largo” di barocca eloquenza; la dimensione contrappuntistica elevata a misura di riferimento della scrittura musicale, per via di analisi alchemica (parti interne che sono costantemente parificate alle linee guida) più che di sintesi fisiologica; la tendenza quasi maniacale a privilegiare i pianissimo (ben oltre le gradazioni consuete) e nel rendere per contrasto secchi e legnosi i forte; la scelta di un suono esile e scarno, ottenuto per spoliazione e privazione di risonanze (il vezzo di non far vibrare gli archi, oppure di sostenere il suono con portamenti, mette a dura prova i Filarmonici, che debbono rinunciare alla loro naturale bellezza di timbro): contrapposta invece a una spedita e chiassosa rudezza nelle scene di danza e di guerra (il trionfo del Gran Finale II ha una brutalità e una pesantezza che stride vistosamente con tutto il resto: per eccesso di retorica).

Ma è nel rapporto con le voci che l’interpretazione di Harnoncourt si distingue e impone il suo marchio. La generale liricizzazione del fraseggio (ancora una volta con tempi trattenuti) ottiene risultati notevoli nei momenti di introspezione delle arie e nel finale dell’opera, che sarebbe piaciuto a Hans Castorp nella sua interpretazione intellettualmente decadente, ma provoca vistosi vuoti d’aria nelle parti più drammatiche, nei duetti e nelle impennate tragiche: dove i cantanti (soprattutto La Scola, Radames, e la Borodina, Amneris) faticano a non andare dove li porterebbe il cuore nonché l’istinto, con esiti talora incerti e forzatamente disomogenei anche nella emissione. Il migliore della squadra, non soltanto per l’altezza della sua classe, rimane Thomas Hampson, che disegna un Amonasro regale e sfaccettato senza cadere nell’accademico: anche se un Amonasro così nobile e forbito, istruito alla scuola di Schubert e di Schumann, non è forse proprio il personaggio concepito da Verdi.

Letture come queste, che sembrano ricordare più che rivivere, delibare più che consumare, evocare più che rappresentare, non sono casuali. Esse segnano un consapevole momento di rottura nel rapporto con il repertorio, al di là tanto della continuità quanto dell’attualizzazione. È un punto di non ritorno a cui ci dovremo, volenti o nolenti, abituare sempre più.

 

Verdi, Aida; Polgar, Borodina, Gallardo-Domas, La Scola, Hampson, Wiener Philharmoniker, dir Harnoncourt. Teldec 8573854022 (3 cd)

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