La rinascita degli interessi frescobaldiani presso i musicisti italiani del Primo Novecento

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La rinascita degli interessi frescobaldiani presso i musicisti italiani del Primo Novecento

Niente più che una cauta premessa, una sorta di promemoria a margine del tema del Convegno «Frescobaldi e il suo tempo», vuol essere questa relazione sulla fortuna di Frescobaldi nella cultura musicale italiana del primo Novecento; intendendo come limiti cronologici grossomodo il primo terzo del secolo, periodo nel quale si pone e si sviluppa con particolare ampiezza, in Italia, il problema del rapporto con la musica italiana del passato e del suo recupero. Basterà appena ricordare per sommi capi, tanto a fondo l’argomento generale è stato indagato e dibattuto nei suoi cardini fondamentali, che il movimento volto alla riacquisizione e alla rivalutazione del patrimonio musicale della tradizione antica, del Settecento, del Seicento e del Cinquecento strumentali, venne originato da impulsi tanto convergenti quanto alla radice contraddittorii: la sazietà per il melodramma ottocentesco – più in generale, per l’Ottocento italiano in quanto secolo dominato dalla musica operistica – con il conseguente rifiuto del teatro verista, sua estrema propaggine in tempi e abiti moderni; la rivendicazione (anche in senso apertamente nazionalistico) della grandezza musicale dell’Italia, del suo primato e della sua eccellenza nei generi che si consideravano storicamente assegnati alla cultura tedesca, anzitutto quello strumentale e secondariamente quello vocale da camera; iii. la convinzione, soprattutto da parte dei compositori delle giovani generazioni, che la nuova musica italiana dovesse ricostruire la propria identità sullo studio e sull’insegnamento degli antichi maestri, ossia, in altri termini, che il passato nazionale andasse recuperato e coltivato soprattutto in funzione del presente artistico operativo, per riacquistare originalità e indipendenza dagli influssi stranieri sul piano creativo moderno (questa tendenza culminerà nel neoclassicismo, ma non si esaurirà in esso). Da ultimo, ma non in ordine di importanza, l’insorgere dell’esigenza di una ricerca alle fonti del materiale musicale antico che, se non si può ancora chiamare musicologica, certo pone le premesse di una vera svolta in questa direzione. Innescata dal lavoro solitario, sperimentato sul modello della musicologia di scuola germanica, di pionieri della vecchia generazione quali Oscar Chilesotti e Luigi Torchi, quell’esigenza deflagra nel primo decennio del secolo oscillando, con innumerevoli gradi intermedi, fra due posizioni di principio nettamente contrastanti: quella ‘positivista’ di chi, come Guido Gasperini, reclama anzitutto di «procedere alla ricerca, alla ricognizione e alla catalogazione di tutta la musica antica, teorica e pratica, manoscritta e stampata, esistente nelle Biblioteche e negli Archivi pubblici e privati d’Italia, per servire di base ad una grande edizione critica delle opere complete dei nostri migliori autori»(1), e quella ‘idealista’, assunta con particolare veemenza dal giovane Torrefranca, che oppone invece lo scopo primario di avviare, preventivamente alla ricerca, studi critici, d’interpretazione storica ed estetica, in grado di illuminare nella scelta e di guidare nella sintesi rivitalizzante di epoche ed autori.

In questo movimento tutt’altro che unitario, protagonisti del quale, fianco a fianco e sovente in aperta, scontrosa polemica, sono studiosi d’estetica e letterati, musicografi e musicologi, musicisti e compositori militanti – ognuno impegnato dal proprio punto di vista -, il nome di Frescobaldi appare costantemente innalzato al più alto rango, accanto a Palestrina e a Monteverdi, ma in una posizione del tutto particolare. Altrimenti detto: nella rinascita degli interessi per il passato musicale nazionale, la ricezione di Frescobaldi si indirizza fin dal principio in un ambito specifico, per così dire enucleato dal contesto; fatto che non mancherà di influenzare e determinare la diffusione di Frescobaldi anche dal lato pratico (nella quantità, nel tono e nei risultati delle edizioni moderne, delle revisioni e delle trascrizioni). Cercherò di analizzare e di interpretare questo fatto misurandolo sul metro di ciascuno di quegli impulsi schematicamente registrati sopra.

Partendo anzitutto dall’ultimo. Non può essere considerato un caso che la fondazione dell’Associazione dei musicologi italiani, presieduta da Gasperini e sostenuta fra gli altri da Bonaventura, Vatielli, Chilesotti, De Rensis e Liuzzi (nella battaglia in favore della musica antica impegnati tutti nel segno per così dire positivista sopra delineato) – atto nel quale Giorgio Pestelli ha visto la data di nascita ufficiale della «resistibile ascesa della musicologia italiana»(2) -, avvenisse nell’ambito del Convegno frescobaldiano promosso a Ferrara nel 1908: convegno che per quell’epoca e per molti anni ancora rimase un unicum in Italia. Ora, a leggere alcuni degli scritti prontamente raccolti in volume già nello stesso anno, si ha netta la sensazione che la scelta di Frescobaldi per il lancio dell’iniziativa (in un’occasione celebrativa per lo meno labile: il terzo centenario della sua prima pubblicazione) fosse nata dalla convinzione che il compositore rappresentasse non soltanto un momento decisivo della tradizione strumentale italiana – verso il cui recupero ideologicamente ci si muoveva -, ma anche una figura quasi appartata, chiusa in una sua personale specificità e compiutezza storica, inaccostabile secondo i criteri di divulgazione fino ad allora praticati o semplicemente reclamati come utili alla battaglia in corso. In altri termini, Frescobaldi avrebbe dimostrato la verità di quanto programmaticamente asserito dall’Associazione; e nello stesso tempo soltanto un tipo di accostamento secondo i criteri di questa avrebbe dato un senso al recupero di Frescobaldi. Ecco quindi, nel composito album frescobaldiano, accanto a scritti di prevalente carattere celebrativo, lo studio di Bonaventura sul Primo libro d’arie musicali, e soprattutto contributi bio-bibliografici di sorprendente rigore filologico come quello di Alberto Cametti (che corresse le notizie sulla data di morte del musicista) (4) e persino, vincendo le diffidenze di una montante esterofobia, una traduzione dell’Haberl, ossia del massimo studioso tedesco di Frescobaldi (5). Questa sorte, di essere cioè rappresentato agli inizi da un’indagine sui documenti alla cui base si profila ancora informe ma ineludibile una disciplina storico-critica fondata sui fatti e sui problemi, non toccò a nessun altro musicista della cordata. (Non a Monteverdi, le cui fortune cominciavano ad accumularsi su ben altri versanti, soprattutto per iniziativa di Malipiero; non a Vivaldi, il cui recupero in senso moderno avrebbe tardato almeno altri trent’anni.)

Se non un caso, l’esempio citato potrebbe esser giudicato riduttivamente un’eccezione, favorita dalle circostanze e dalla natura stessa dell’opera frescobaldiana: un’opera quasi interamente circoscritta nell’ambito della musica cembalistica e organistica, per la quale si ponevano concretamente problemi di realizzazione e di prassi esecutiva; di qui la questione delle fonti e delle edizioni critiche sollevata dal Gasperini. Comunque sia, sta di fatto che il caso di Frescobaldi, nella ricezione primonovecentesca, si colloca in una posizione periferica rispetto alle linee maestre del movimento (Monteverdi, oltre che coi madrigali, sarà ripresentato da Malipiero attraverso il teatro, in funzione polemica verso il melodramma ottocentesco e naturalistico; Vivaldi servirà per rivendicare all’Italia la priorità di una civiltà strumentale di grandi tradizioni e ambizioni), e centrale solo rispetto a se stesso, come fenomeno d’arte, di cultura, di storia in sé compiuto. Certo è che alla devastazione consumistica della musica antica, quella che portò alle falsificazioni più smaccate e indiscriminate, egli rimase, salvo rare eccezioni, estraneo. Pizzetti non si farà scrupolo di degradare a collage genericamente secentesco alcuni spunti frescobaldiani nelle Danze per l’Aminta del Tasso (1914), ma anche questo episodio sarà destinato a restare contingente(6).

Più spinoso si fa il discorso entrando nel vivo della questione delle edi­zioni moderne (primonovecentesche) e della loro diffusione. Nel 1908, anno di intensi fervori frescobaldiani, Oscar Chilesotti pubblica nel sesto volume della «Biblioteca di rarità musicali», edita da Ricordi, una trascri­zione in notazione moderna delle Partite sopra La Romanesca, La Monicha, Ruggiero e La Follia, conforme, scrive il curatore, all’edizione originale del 1614, senza aggiunta di alcun segno estraneo. E ciò in quanto – si legge – «ho creduto di non allestire una riduzione pianistica secondo il concetto moderno, perché, a mio avviso, la musica del Frescobaldi scritta per il cem­balo, non vi si presta». Prima di lui e con criteri analoghi era stato Luigi Torchi ad offrirne più cospicui esempi nel terzo volume dell’Arte musicale in Italia dal secolo XIV al XVIII (8), con scopi eminentemente di studio storico che si riallacciavano alle sue argomentazioni sull’evoluzione della musica strumentale dal Cinque al Settecento. Sono edizioni che, nonostante le buone intenzioni, non vanno esenti da pecche e inesattezze sotto il profilo filologico. Esse ebbero senza dubbio una larga diffusione presso i musicisti ma, rimanendo su un piano astratto (esplicitamente il Torchi parla di «studio di pura composizione musicale» (10)), servirono più a fornire parziali assaggi del pensiero compositivo frescobaldiano che a impostare, non si dice realizzare, problemi esecutivi e interpretativi.

Gli anni intorno alla guerra vedono un notevole incremento nella diffusione editoriale della musica antica. Cresce proporzionalmente, fino a diventare regola, l’abitudine all’infedeltà e all’approssimazione, non soltanto nelle rielaborazioni e nelle riduzioni dei testi antichi, ma anche nelle revisioni e nelle trascrizioni, sui cui princìpi sovente si preferisce tacere: segno di un rapido cambiamento di rotta rispetto alla generazione pioneristica e a suo modo scrupolosa dei Chilesotti e dei Torchi. In questi anni il nome di Frescobaldi scompare quasi del tutto, improduttivo com’è, a quanto sembra, per le nuove scelte di gusto e per tendenze di mercato che si indirizzano in primo luogo verso la musica vocale, violinistica e del Settecento ‘pianistico’. Riapparirà invece, e non poteva essere diversamente, nella collana «I Classici della musica italiana» (raccolta nazionale delle musiche italiane pubblicata a Milano nel 1919 dall’Istituto editoriale italiano), patrocinata e diretta da Gabriele D’Annunzio con l’appoggio dei maggiori rappresentanti della musica italiana del tempo, da Malipiero a Pizzetti, da Perinello a Toni, da Balilla Pratella a Casella: e proprio a Casella tocca il fascicolo frescobaldiano. Nella prefazione alla ambiziosa impresa (trentasei volumetti ognuno dedicato a un diverso musicista, in ordine alfabetico; Frescobaldi è il n. 12), D’Annunzio promuove Frescobaldi accanto a Monteverdi e Palestrina come paladini della riscossa nazionale: è nel loro nome, egli scrive, che «offriamo agli Italiani un florilegio di vecchie musiche [ … ] non per tornare all’antico ma per riconoscerlo e per vendicarlo contro un lungo secolo di oscuramento e di errore».(11). Sorvolando sui risvolti propriamente ideologici sottesi al proclama dannunziano (12),  appare chiaro che il progetto mirava a ridestare l’interesse per la musica antica adattandola al gusto dell’epoca moderna, senza però stabilire criteri unitari e tanto meno rigorosi; ci si affidava perciò a musicisti-compositori i quali, in conformità alla propria poetica, avevano agio di intervenire (tagliare, ridurre e manipolare) a loro piacimento: fermo restando, quale mezzo di divulgazione, l’uso dello strumento pianoforte. In questo generale appiattimento dell’identità delle musiche antiche (e del concetto stesso: musica antica), molto dipende, naturalmente, dal revisore. Casella denuncia senza equivoci che le composizioni per organo e cembalo scelte per il fascicolo frescobaldiano – e ambiguamente raccolte sotto il titolo «Sonate» (13) – sono non soltanto trascritte in notazione moderna ma anche rivedute per il pianoforte. In che cosa consiste questa revisione? È presto detto: indicazioni di tempo, segni agogici e dinamici, legature di espressione e di portamento, modo d’attacco del suono, più acconcia disposizione sui pentagrammi, correzioni, talvolta, di note alterate al fine di rendere più chiara tonalmente o modalmente l’armonia, inquadramento delle figure melodiche e degli sviluppi polifonici in un fraseggio chiuso, per grandi arcate.

La trascrizione di Casella, che pur reca evidenti le tracce della sua personalità, estende per la prima volta normativamente anche a Frescobaldi un genere allora assai diffuso: la trascrizione per l’uso pratico, ovviamente destinata al pianoforte. Diretto ai musicisti ma anche ai dilettanti di musica interessati agli antichi maestri italiani, questo genere di edizioni si incuneerà nei programmi dei Conservatori e delle scuole di musica sotto la voce «antichi clavicembalisti italiani», per integrare lo studio dei modelli bachiani. Limitatamente a Frescobaldi, ne sarà l’alfiere, negli anni venti, una singolare figura di musicista veneziano trapiantato a Firenze, Carlo Felice Boghen (1869-1945). Allievo di Martucci e di Sgambati, attivamente impegnato nel rinnovamento della musica italiana attraverso il recupero delle sue tradizioni strumentali, Boghen ereditò dai suoi maestri l’entusiasmo per l’antico e coltivò in proprio una speciale predilezione per Frescobaldi. Già tra il ’18 e il ’19, in un progetto di vasto impegno parallelo a quello dannunziano – la collana «Edizione nazionale di musica classica italiana» stampata a Firenze dalla Casa editrice musicale italiana – egli aveva pubblicato la trascrizione per pianoforte di Sedici Ricercari (14) e di Quindici Capricci (15); per oltre un decennio continuò a produrre revisioni di opere di Frescobaldi, (16) toccando anche, con lodevole sforzo di sottrarla al modello ibrido di «aria antica» imposto dal Parisotti, la sua produzione vocale.””È interessante leggere quanto stampato da Boghen nell’Avvertenza al volume delle Toccate (Ricordi 1918):

 

Naturalmente, rivedendo la musica che presento in questo volume, sono stato condotto a legare (dato che la musica stessa doveva essere trascritta per pianoforte) molte note che per l’arpicordo (clavicembalo) erano invece ripetute; a modificare qualche parte; a dividere diversamente tra le mani l’esecuzione di molti passaggi.

Credetti inoltre opportuno di aggiungere armonie o parti, dove la composizione riusciva troppo schematica; ma scrupolosamente ho indicato, con caratteri più piccoli, ciascuna di queste aggiunte e di queste modificazioni. Solo qualche rara volta, in casi di minima importanza, trascurai tale indicazione.

Le edizioni precedenti di quasi tutte le Toccate qui raccolte erano schematiche, prive d’indicazioni non soltanto ritmiche, ma di fraseggio: presumibilmente gli esecutori ne riempivano i vuoti all’atto dell’esecuzione; certo la maggior parte di questa musica riuscirebbe oggi quasi ineseguibile per la generalità dei giovani studiosi. Ho aggiunto perciò con criterio didattico tutto quanto poteva contribuire a facilitare la immediata comprensione di ciascun pezzo: legature, coloriti, metronomo; e ho indicato diteggiature ed esercizii, quali la mia esperienza me li suggeriva. E poiché molti passi possono eseguirsi, secondo il mio parere, con una certa (non eccessiva, s’intende) libertà ritmica, ho indicata quell’esecuzione che propongo, perché corrisponde al mio personale modo di sentire, senza escludere altre interpretazioni, che potranno anche essere migliori.

Un po’ paradossale suona poi la conclusione:

 

Spero che l’opera faccia apparire in luce più completa alcuni nostri autori, dimostrando l’ammirazione di cui son degni, quando pure noi li poniamo al confronto coi più celebrati stranieri (18).

 

Il corredo ‘didattico’ proposto da Boghen – a cui vanno aggiunti le trasposizioni e gli adattamenti secondo un sistema armonico maturo, «il nostro sistema armonico» – indicano in modo inequivocabile che la volontà di riproporre Frescobaldi in veste attuale non poteva uscire dai binari di un’epoca nella quale il concetto di trascrizione come libera reinvenzione (un essere nel presente anche della musica antica) si era emancipato sia nella prassi che nella teoria estetica (in questo senso, schematizzando, la guerra fra il partito di Gasperini e quello di Torrefranca si era risolta a netto favore del secondo). Ciò non era sentito però automaticamente come una violenza nei confronti del testo originale: già Busoni, nei suoi lavori sul Bach clavicembalistico e organistico, aveva sostenuto che la trascrizione moderna non distrugge l’originale, bensì lo perfeziona; di conseguenza, se condotta con quella proprietà, quel gusto e quella coscienza che richiedono uno studio profondo e una onesta intenzione, non conduce affatto all’arbitrio stilistico. Di queste idee sia Boghen che Casella erano convinti assertori(19). Per quanto riduttivo possa apparire il modo di intendere le revisioni moderne primonovecentesche, non c’è dubbio che esse rispondevano in pieno a quello che era lo spirito del tempo. E per capire che cosa potessero significare invece libertà e arbitrio fuori di questi confini, bisognerebbe confrontarle con le agghiaccianti rielaborazioni di Respighi delle fughe (pseudofrescobaldiane) in sol minore e in la minore, cui va la sola attenuante che il materiale enfaticamente amplificato in pletorico gesto pianistico non appartiene, come egli pur credeva, a Frescobaldi (20).

Busoni, e sulla sua scia coloro che ne condividevano le idee, avevano intrapreso l’operazione sulla musica tastieristica del passato nella convinzione che la sintesi di passato e di presente (rivolta al futuro) potesse avvenire attraverso la lingua depurata di un nuovo stile pianistico sottratto all’influenza dello stile monumentale ottocentesco, di matrice lisztiana. Alla necessità di offrire strumenti di conoscenza (sia pure nel senso che si intendeva allora, con mezzi moderni) si sovrapponeva l’intento di trasformare lo spirito vitale del passato in condizione per la rinascita e il rinnovamento della musica italiana contemporanea: impulsi e suggerimento per il proprio lavoro compositivo cui avrebbero dato nuova linfa le forme antiche, il diatonismo modale, il contrappunto lineare imitativo, la castità e l’eleganza timbrica, l’arte della variazione opposta alla logica ferrea dello sviluppo sonatistico. Sull’uno come sull’altro terreno la fonte Frescobaldi non zampillò certo copiosa di risultati. L’inadattabilità al pianoforte del suo linguaggio strumentale si manifesta nella realtà di queste trascrizioni per l’uso pratico; ed è sintomatico, passando dal terreno della pratica a quello degli studi critici, che nessuno dei più importanti lavori sull’argomento di questo periodo (21), assegni a Frescobaldi un qualche ruolo nell’albero genealogico della preistoria e della storia del pianoforte moderno. Neppure allargando il campo d’indagine dal linguaggio specificamente strumentale a quello compositivo, in senso lato formale, il modello frescobaldiano si prestava a recuperi (e tanto meno a restauri) in stile moderno. Dalla tendenza neoclassica – nelle forme in cui si propalò in Italia – Frescobaldi rimase miracolosamente fuori: non una Frescobaldiana accanto alle Vivaldiane, Scarlattiane, Cimarosiane, Pergolesiane e via dicendo. Se è vero, come lo stesso Casella retrospettivamente lamentava, che l’apparizione di quella tendenza fece dilagare dovunque, a un certo momento, «antiche forme preromantiche quali partite, toccate, passacaglie, ricercari, concerti grossi, ecc.» (22), è altrettanto vero che il fenomeno non ebbe presa sulla musica di Frescobaldi. Frutto, forse, di una lontananza poetica e ‘mentale’ prima ancora che storica; ma anche, senza dubbio, del sempre più consapevole riconoscimento di una specificità e di una compiutezza di ambiente e di stile non passibili di attualizzazioni e di ammodernamenti più o meno compositi (neppure nella moda imperante degli «omaggi a» (23).

Eppure, d’altro canto, non bisogna dimenticare che nella coscienza dei musicisti italiani Frescobaldi rimane, come emblema e orgoglio, il fondatore della musica strumentale europea, di quella musica che, come scriveva Bastianelli, trova in lui «giusta nascita […] in una tradizione vergine e ancora ingenua, una tradizione da coordinare, fissare e allargare, più che da seguire pronamente, come avverrà in seguito ai settecentisti, i quali trovano ormai la musica quasi un terreno troppo sfruttato dalla coltivazione» (24). Per Frescobaldi, proprio Bastianelli aveva coniato già nel 1914 una definizione destinata a grande successo, quella di primitivo, desumendola da altri campi – dalla pittura e dalla letteratura – con forte segno positivo, come perfezione di elementi oggettivi e soggettivi che si attesta individualmente al ‘limite’ dell’epoca per così dire ‘ufficiale’ della musica strumentale. In questa rivendicazione palesemente riferita all’attualità, Bastianelli giungeva a istituire un parallelo tra Frescobaldi e Bach, tra primitività e cosciente civiltà:

 

Ora tra l’arte di Bach e quella di Frescobaldi c’è un vero abisso storico e umano. Infatti l’arte di Frescobaldi, oltre che per le sue caratteristiche individuali. (passionalità e persuasione di fede, delicatezza e a volte forza dantesca di sentimento, nonché freschezza e spontaneità perenne di forma), diversifica dall’arte di Bach per il suo appartenere a un’epoca in cui la musica, come la pittura del 400 e del 500, era, più che un’arte, la conquista progressiva di un’arte. La

musica in Bach è invece grave di tutta la sconfinata scienza (nettamente formulata in tradizione) acquisita durante tutto un ciclo artistico che ormai era più vicino al suo tramonto che alla sua aurora (25).

Il contrappunto di Bach è «un prodigio del formalismo»; quello di Frescobaldi «spontaneità virginea che, come nei pittori e nei poeti primitivi, palpita tutta di un libero spirito di rinnovamento inventivo. Il contrappunto è per lui scopo a sé stesso; è una potenza formale che gli permette di avvolgere in veli trasparenti ed enormemente suggestivi la sublime purezza della sua intimità» (26) Questi concetti, affidati alla cassa di risonanza di articoli di giornale ma con intendimenti di vera critica d’arte, esprimono assai bene, anche se in modo un po’ estremo, il tono della ricezione di Frescobaldi negli anni più caldi della rivalutazione dell’antico. Ed è significativo, sia pur a margine, che perfino Busoni, nel momento di più appassionata difesa delle tradizioni italiane in campo strumentale, si rifacesse idealmente a Frescobaldi nel comporre la Toccata per pianoforte (1922) e vi apponesse in calce, simbolicamente appunto, il celebre motto «non è senza fatiga che si giunge al fine» (motto peraltro, altro indizio di tempi assai poco rigorosi, citato maldestramente: «non è senza difficoltà che si arriva al fine»).

Per giungere a vedere il problema in termini nuovi, più completi e analitici anche se non scientifici, bisognerà attendere la monografia di Luigi Ronga, che uscì a Torino nel 1930 presso i Fratelli Bocca: lavoro di forte impegno storico e critico, insieme documentato e meditato. Già nel titolo (Gerolamo Frescobaldi organista vaticano, 1583-1643. Nella storia della musica strumentale, con esempi musicali inediti), Ronga mette in evidenza i due piani della sua trattazione: ricostruzione storica dell’ambiente artistico precedente e circostante da un lato, analisi e valutazione estetica delle opere di Frescobaldí, disposte in ordine cronologico, dall’altro. Fedele a un metodo storicistico che non si preclude tuttavia fiorite divagazioni e interpretazioni metaforiche di natura poetica, Ronga parte dal presupposto di una progressiva, organica evoluzione dell’arte frescobaldiana, le cui origini vanno ricercate nella tradizione strumentale cinquecentesca, non soltanto italiana. A una prima fase di conquista stilistica, nella quale Ronga sottolinea l’importanza dell’attività di Frescobaldi esecutore, fa seguito la stagione della grande arte frescobaldiana, inaugurata dai Capricci del 1624. Le conclusioni cui Ronga perviene assegnano a Frescobaldi la posizione storica di un artista isolato nella sua grandezza, tanto inattuale nella sua epoca quanto universale nella sua perfetta individualità. Per quanto evidentemente influenzata dalla personalità dell’autore, questa monografia, condotta sullo studio delle musiche e corredata di apparati bio-bibliografici importanti, segna un punto fermo negli studi frescobaldiani ed è rimasta finora l’unica di ampio respiro storico-estetico prodotta in Italia. Essa però non incise minimamente sul modo contraddittorio in cui Frescobaldi continuava ad essere considerato e praticato dai musicisti. (Questo distacco fra studi storico-critici e diffusione esecutiva è del resto una precisa caratteristica dell’epoca.)

Dalle antinomie esposte più sopra una via d’uscita, forse di mediazione degli opposti, si era costituita nella possibilità di trascrivere Frescobaldi per complessi strumentali o per orchestra, puntando dunque apertamente alla libera reinvenzione scissa da riferimenti, specificamente strumentali, all’organo o al clavicembalo (la via più ovvia, quella di presentare Frescobaldi sugli strumenti originali e seguendo le indicazioni da lui stesso fornite, era perentoriamente vietata, ancor prima che dalla mancanza di ristampe e di edizioni critiche per organo o clavicembalo, dal disuso in cui questi strumenti erano caduti nel corrente costume musicale primonovecentesco, quando perfino la realizzazione del basso continuo era quasi sistematicamente affidata al pianoforte; con la parziale eccezione della tradizione specificamente organistica, da sempre circoscritta in un ambito suo proprio e rigorosamente definito). Trascurando rare trascrizioni di pretto e sbrigativo consumo come quelle di Alessandro Peroni, un’attenzione particolare merita la trascrizione per orchestra d’archi di tre Toccate frescobaldiane curata da Gian Francesco Malipiero nel 1930 (27). E ciò per almeno due motivi. Anzitutto per il calibro del trascrittore, uno dei maggiori protagonisti della rinascita moderna dell’antico; in secondo luogo per la procedura scelta nell’accostarsi a Frescobaldi, tale da sembrare la riprova illuminante di un tipo di ricezione intuitivamente e inconsciamente problematico tanto restìo a risolvere disinvoltamente la questione quanto incapace di trarne conseguenze attuali. Malipiero, che pur non andava troppo per il sottile quando si trattava di adattare l’antico alle proprie esigenze (che erano poi le esigenze della propria poetica, umana e artistica), di fronte a Frescobaldi – non a caso affrontato dopo la lunga esperienza monteverdiana e vivaldiana – sceglie una via di compromesso, la via della prudenza e della disciplina coatta. Si limita cioè a liberare l’intreccio polifonico-contrappuntistico della concentrata scrittura frescobaldiana in una disposizione di fluttuante scorrevolezza melodica, puntando a riprodurre gli effetti del suono organistico assai più che a sviluppare il discorso sotto il profilo tecnico-compositivo. A un allentarsi dei meccanismi interni della logica compositiva, privati delle tensioni e delle relazioni strutturali che danno vita al processo formale, corri-sponde di fatto una timbrica uniforme, stranamente monocolore, senza rilievo ed espressione: come bloccata e irrigidita, anche sotto l’aspetto ritmico e armonico, quello che forse si sarebbe prestato di più a una interpretazione novecentesca. Contraddittoria appare poi la scelta di una disposizione formale dei pezzi basata sullo schema ternario Allegro-Adagio-Allegro, con conclusiva Fuga a 4; giacché essa finisce inevitabilmente per suggerire alla ricezione un modello sonatistico-sinfonico sostanzialmente estraneo all’originale (non sarà inutile ricordare, come prova di una ennesima contraddizione irrisolta, che lo stesso Malipiero, benché collocasse Frescobaldi al centro della grande scuola italiana discesa da Palestrina e Gesualdo, proseguita da Monteverdi e Domenico Scarlatti, lo giudicasse un «primitivo», un ricercatore di nuove possibilità espressive (28) non ancora rivelatesi appieno).

Con grande acutezza Luigi Dallapiccola individuerà il nodo cruciale che Malipiero non aveva saputo (o voluto) sciogliere nella troppo stretta dipendenza della trascrizione dall’originale organistico: nell’aver inteso il trascrittore, in nome della fedeltà e dell’equilibrio stilistico, semplicemente imitare e interpretare con l’orchestra l’organo.

 

Lo so: Frescobaldi ha scritto per organo. Ma l’orchestra ha una sua voce, ben diversa da tutte le altre, e penso che, accettata questa voce nuova e diversa, il compito del trascrittore non sia più quello di imitare o di interpretare la voce originaria, bensì quello di potenziare, coi nuovi mezzi che ha a disposizione, le singole parti della composizione musicale, quasi si trattasse di «musica assoluta» (29).

 

In che misura l’opera di Frescobaldi, pur nella precarietà della sua ricezione, si poteva prestare a un simile concetto di trascrizione, una trascrizione che evidentemente intendeva influire non soltanto sui «nuovi mezzi a disposizione» ma anche sui contenuti del rinnovamento linguistico e formale al quale si guardava ormai senza più soltanto implicazioni nazionalistiche o intenti neoclassici? Poteva la sua musica, una volta esauritosi o assorbitosi il mito del primitivismo e del primato storico, venir acquisita  e reinterpretata secondo la metastorica categoria della «musica assoluta»?

La trascrizione per grande orchestra di Giorgio Federico Ghedini (Quattro pezzi di Girolamo Frescobaldi, Milano, Ricordi 1931),30 l’unica che abbia avuto una certa permanenza nelle sale da concerto, può aiutare a dare una risposta a un interrogativo non inessenziale nella storia della ricezione di Frescobaldi in Italia. Ghedini, generazionalmente posto a metà strada fra Malipiero e Dallapiccola, giunge a Frescobaldi per una strada isolata, intimamente personale.È un amore che segna una svolta nella sua carriera, e ne determina la poetica. L’appropriazione di Frescobaldi nasce da un’intima compenetrazione nell’essenza del suo linguaggio, assorbendone la logica costruttivo-compositiva e decantandola, in prospettiva moderna, con mezzi potenziati; ma come procedendo, passo dopo passo, dall’interno, verso il centro stesso dell’invenzione e dei princìpi tecnico-compositivi. Ghedini accentua, con concretezza scevra da fantasiosi impressionismi, gli aspetti più passibili di una rivisitazione moderna: il dispiegarsi della composizione da una cellula iniziale che prolifera in continuo arricchimento strutturale (qui realizzato attraverso l’arricchimento timbrico), la vaghezza modale, le virtualità tonali e politonali, le sovrapposizioni dei piani melodici, l’individualità delle linee polifoniche e del contrappunto, i risvolti di una timbrica estremamente variata, alla cui base sta un’attenzione particolarissima per il suono. Le relazioni ritmiche, le variazioni di tempo, l’apparato delle figure retoriche e di quelle ornamentali, sono tradotte in linguaggio ‘moderno’ senza che vengano alterati i rapporti stilistici originali. In altri termini, essi sono interpretati e ricreati, nei loro stessi aspetti esoterici – da codice cifrato -, allo scopo di far proprio, con congeniale sensibilità e mezzi attuali, il dettato originario. Di qui il senso di stupore con cui Ghedini traspone l’immagine del musicista antico nel proprio tempo, uno stupore che si avverte ad ogni istante nel clima poetico del suo lavoro, nelle atmosfere timbriche ora come depurate e oggettivate in algide proporzioni, ora amplificate a massicce sonorità quasi organistiche. Con quali risultati? L’arte di Frescobaldi rivive nel presente nella sua identità; ma come se ci provenisse da un altro mondo. E, paradossalmente, proprio da una trascrizione come questa – che partendo da un concetto assolutamente musicale cerca di riconnettersi alle problematiche linguistiche e alle esigenze espressive del proprio tempo – traspare un senso di lontananza irraggiungibile, un diaframma incolmabile: quasi che Frescobaldi, nel momento stesso in cui è presentato coi mezzi potenziati del presente, rimanesse intangibile, estraneo nella sua adeguata identità, profondamente radicato nel ‘suo tempo’, specchio di un’altra, più vera identità.

Quali conclusioni ne trarremo? Nato come punto di riferimento di un programma musicologico di vasta portata che non trovò né lo spazio né la forza per realizzarsi (e non vogliamo dimenticare che ciò accadde proprio a Ferrara, settantacinque anni or sono), il caso di Frescobaldi, pur mantenendo sempre una sua specificità problematica, non si discostò dal modo in cui il passato musicale nazionale venne recuperato agli albori del nostro secolo: con approssimazioni vistose, deformazioni, strumentalizzazioni, fraintendimenti ed equivoci. Neppure al rinnovamento della musica italiana, tanto auspicato e dibattuto per circa un trentennio prima che salissero alla ribalta nuovi protagonisti con diverse esigenze culturali, esso sembra aver recato molti frutti. Lo storico che, partendo da queste premesse, privilegiasse la storia della composizione sulla storia delle idee e della ricezione, dovrebbe probabilmente concludere che nella rinascita primonovecentesca degli interessi per la musica antica, Frescobaldi e la sua musica restassero assenti o inoperanti, sostituiti da improbabili, mitiche controfigure. Eppure è da questa eredità, e dalle conseguenze che essa ha avuto in Italia, che almeno in piccola parte trae origine e significato lo sforzo di costruire una disciplina storica, una ricerca musicologica e una prassi interpretativa nelle quali anche i miti si avviino a diventare realtà.

 

NOTE

(1) Cfr. G. Gasperini, L’associazione dei musicologi italiani, «Rivista musicale italiana», XVIII, 1911, pp. 637-646: 638

(2) G. Pestelli, La resistibile ascesa della musicologia italiana, in Atti del Convegno: Musica italiana del primo Novecento: «La generazione dell’80», a cura di F. Nicolodi, (Firenze, 9-10-11 maggio 1980), Firenze, Olschki, 1981, p. 37.

(3) A. Bonaventura, Da un un’opera di Girolamo Frescobaldi stampata a Firenze (Primo libre d’arie musicali), con trascrizione e armonizzazione dell’aria a voce sola Entro nave dorata in Ferrara a Girolamo Frescobaldi nel terzo centenario della sua prima pubblicazione, a cura di N. Bennati, Ferrara, Stab. tip. Ferrarese 1908, pp. 56-61.

(4) A. Cametti, La morte di Girolamo Frescobaldi, in Ferrara a Girolamo Frescobaldi cit., p. 62 sgg. Questo articolo fu ampliato nel fondamentale studio Gerolamo Frescobaldi in Roma (1608-1643), «Rivista musicale italiana», XV, 1908. Non è inutile ricordare che ancora per molti anni, nelle edizioni moderne delle musiche frescobaldiane, si continuò a indicare ne 1644 la data di morte, ignorando questa rettifica basata sull’indagine dei documenti.

(5) F. X. Haberl, Girolamo Frescobaldi. Esposizione della sua vita e delle sue creazion a base di documenti bibliografici ed archivistici, in Ferrara a Girolamo Frescobaldi cit. pp. 133-155. Si tratta della traduzione di G. B. Sanguinetti dello studio: Hieronymus Frescobaldi-Darsteliung seines Lebensganges und Schaff ens au f Grund archiv. und bibliograph. Documente, «Kirchenmusikalisches Jahrbuch», II, 1887.

(6) Pizzetti strumentò per piccola orchestra alcune musiche di Michelangelo Rossi, Ber­nardo Pasquini, Luigi Rossi e Girolamo Frescobaldi (una Passacaglia, una Corrente, un Bal­letto e corrente, nella edizione del Torchi) per adattarle come musiche di scena dell’Aminta del Tasso rappresentata al Teatro Romano di Fiesole il 17 maggio 1914 dalla compagnia di prosa Dalla Porta-Capodaglio.

(7) Chilesotti riduce alla metà i valori ritmici allo scopo di «rendere più evidente la divi­sione metrica delle battute e la conseguente accentuazione della melodia». Circa la disposi­zione delle note sul rigo nella trascrizione dalla «intavolatura per cimbalo», cerca fin dove possibile di mantenere la divisione originale, fornendo anche un esempio di una pagina originale in facsimile. I pezzi sono tutti tratti dal primo libro delle Toccate e partite d’inta­volatura di cimbalo, Roma, Borboni 1614.

(8)L. Torchi, L’Arte musicale in Italia, pubblicazione nazionale delle più importanti opere musicali italiane dal secolo XIV al XVIII, tratte da codici, antichi manoscritti ed edizioni primitive, trascritte in notazione moderna, messe in partitura, armonizzate e annotate, 7 voll., Milano, Ricordi 1897-1907 (il vol. III è del 1902 e reca il titolo Composizioni per organo o cembalo dei secoli XVI, XVII, XVIII). La raccolta delle musiche frescobaldiane comprende (fra parentesi le fonti così come sono indicate dal curatore): Composizioni per cimbalo: Cor­renti, Balletti, Passacagli (I, 1637); Partite sopra passacagli (I, 1637); Capriccio pastorale per organo (I, 1637); Toccata per organo (11, 1637); Toccata di durezze e ligature per organo (II, 1637); 3 Canzoni per cembalo (senza indicazione di fonte); 2 Fughe  per cembalo (senza indicazione di fonte; in realtà apocrife). Sui criteri seguiti, Torchi afferma che «l’incertezza della tonalità e del ritmo, anzi la mancanza talora del senso tonale offendono l’orecchio mo­derno; eppure sono caratteristiche». E aggiunge: «Siccome a punto lo sviluppo e il pro­gresso del senso d’arte da minimi fatti risultano, così io avrei fatta cosa contraria al mio scopo accomodando, chiarendo, integrando. Ciò appartiene alla scuola, non all’arte. Poi l’appli­care dei criteri moderni alla musica antica non è affare mio. Coerente a questi principi, io ricostruisco sì ma non altero nulla. L’aspetto originale per me è la stessa autenticità della cosa. Fare diversamente è opera vana e volgare, è generare confusione e ignoranza».

(9) L. Torchi, La musica istrumentale in Italia nei secoli XVI, XVII e XVIII, «Rivista musicale italiana», voll. IV-VII, 1898-1901 (estratto, Torino 1901); per quanto riguarda Frescobaldi si veda il capitolo VII, dedicato alla musica d’organo e di clavicembalo, pp. 110-145 della ristampa, Bologna, Forni 1969.

(10) L. Torchi, Prefazione a L’arte musicale cit., p. 4.

(11) G. D’Annunzio, Prefazione al catalogo generale della Raccolta nazionale delle musiche italiane, Milano, Istituto editoriale italiano 1918 (ma datata marzo 1917).

(12) Un po’ apodittico, ma senz’altro condivisibile nella sostanza, è il giudizio che sinteticamente ne dà Fiamma Nicolodi: «La rivendicazione del patrimonio autoctono va ormai chiaramente intesa in chiave nazionalistica […] cercando di istituire nessi fra passato remoto e avvenire – non solo musicale – nel segno di un eroismo e di una schiettezza italica, come purificata dal lavacro bellico» (Cfr. Restauri in stile moderno, in Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, Firenze, Sansoni 1982, p. 122).

(13) Questa ambiguità si rispecchia nella apparente contraddizione fra titolo (Sonate trascritte per pf. a cura di Alfredo Casella) e sottotilo (Composizioni per organo e cembalo riviste e trascritte in notazione moderna a cura di Alfredo Casella). Sembra quasi che nel titolo generale si volesse, forse per ragioni di mercato, far per cosa dire buona pubblicità al prodotto presentandolo come una raccolta di Sonate. Più precise sono invece le diverse sezioni in cui si articola il fascicolo: 1. Toccate e Ricercari (undici composizioni); 2. Correnti e Balletti / Bergamasca / Capriccio pastorale; 3. Sei canzoni; 4. Tre fughe (in realtà apocrife; contro la loro attribuzione a Frescobaldi insorse G. Benvenuti: cfr. Noterelle circa tre fughe attribuite al Frescobaldi e alcune ristampe moderne, «Rivista musicale italiana», XXVII, 1920, violenta requisitoria contro Torchi e Chilesotti, entrambi già scomparsi dalla scena, che invero sembra voler attaccare anche Casella, pur senza mai nominarlo).

(14) G. Frescobaldi, Sedici ricercari trascritti per pianoforte ed illustrati da F. Boghen, vol. I della «Edizione nazionale di musica classica italiana», Firenze, Casa editrice musicale italiana 1918; con indice tematico e indicazione delle fonti: Primo libro di capricci, 1628; Fiori musicali, ristampa del 1635 (sic).

(15) G. Frescobaldi, Quindici capricci trascritti per pianoforte ed illustrati da F. Boghen, vol. II della raccolta sopra citata, ma Firenze, Casa editrice musicale italiana 1919; indice tematico e indicazione delle fonti come segue: nn. 1, 4, 5 dal Primo libro di toccate ecc. (Borbone 1637); nn. 2, 3, 6, 7, 8, 9, 10, 12, 13, 14, 15 dal Primo libro di capricci (Vincenti 1628); n. 11 dai Fiori musicali (Vincenti 1635).

(16) Partite (dal Primo libro, 1614), Milano, Ricordi 1922; Canzoni (scelte dal I e dal IV libro), Milano, Ricordi 1924; Toccate, Milano, Ricordi 1928; Toccate, Milano, Ricordi 1930. Composizioni di Frescobaldi sono anche contenute nelle raccolte degli «Antichi maestri italiani»: Toccate (Milano, Ricordi 1918) e Fughe (Milano, Ricordi 1918; in realtà, come sappiamo, apocrife). Tutte queste raccolte hanno l’indice tematico e l’indicazione delle fonti.

(17) Sei madrigali, Londra, Chester 1922 (parziale riedizione dei primi sei Madrigali del primo libro del 1608, con l’aggiunta della parte mancante allo scopo di renderne possibile l’esecuzione). E soprattutto Primo libro d’arie musicali, curate dal Boghen per la sezione fiorentina dell’Associazione dei musicologi italiani, Firenze 1933. Questa edizione, prefatta da Arnaldo Bonaventura, riporta in facsimile il frontespizio e la dedica di Frescobaldi; è assai precisa nell’indicazione delle fonti, meno rigorosa nella trascrizione e realizzazione del basso, pur esponendo con chiarezza i problemi ad esso connessi e la «via di mezzo» prescelta. Nel Piccolo album di musica antica (Milano, Ricordi s.a.) Parisotti include un’aria di Frescobaldi facendone una vera e propria melodia accompagnata ‘da salotto’.

(18) Una legittimazione estetica al lavoro di Boghen viene offerta nella prefazione al volume delle Fughe (trentasette pezzi da Frescobaldi a Clementi, ed. cit.) dal musicologo Arnaldo Bonaventura: «Assai ci è stato rimproverato di imbastardire l’arte nazionale colla imitazione di quella straniera. Certo, piuttosto che perdere il tempo a dir male, inutilmente, di capolavori esotici consacrati per l’eternità della loro reale bellezza, gioverebbe, in primo luogo, smettere l’antipatico vezzo di denigrare sistematicamente le cose nostre e, soprattutto liberarci dall’influsso, spesso malefico, che sulla nostra produzione hanno esercitato ed esercitano opere straniere non da noi assimilabili, perché contrarie all’indole nostra, e delle quali, conseguentemente, non possiamo rivivere l’intima essenza, ma solo riprodurre la parte esteriore. Ad ottenere pertanto lo scopo di non più asservire l’arte nostra a quella di altri paesi e di imprimervi invece l’impronta, il sigillo della nostra vita nazionale, ben potranno giovare pubblicazioni del genere di questa, miranti a resuscitare il ricordo e a porre sott’occhio gli esempii della grande tradizione musicale italiana». Questa edizione servì da testo base della didattica nei Conservatori e Istituti musicali.

(19) Nella edizione sopra citata delle Fughe (Milano, Ricordi 1918), compaiono due epigrafi: la prima è un passo di una celeberrima lettera di Verdi a Bülow («Noi pure, figli di Palestrina, avevamo un giorno una scuola grande […] e nostra! Ora s’è fatta bastarda e minaccia rovina! Se potessimo tornare da capo?!»); la seconda è un messaggio scritto da Busoni durante il suo soggiorno romano del marzo 1918 espressamente per questa edizione: «Nella storia, i vani tentativi di tornare all’antico hanno sempre avuto per risultato la creazione d’uno stile nuovo, per quanto voluto. In tali avvenimenti, categorizzati col nome di Contro-Riformazioni, si compie di fatto una Riforma. Nel caso del presente fascicolo, si tratta piuttosto di trarre alla luce delle cose belle e quasi dimenticate, di studiarle e goderle, per poi trasmetterle ad un pubblico, che ne ha perduto il contatto. Anche in questo senso l’intenzione, qui eseguita con gusto e coscienza, è da considerarsi pregevolissima».

(20) G. Frescobaldi, Passacaglia; Preludio e fuga in sol minore; Toccata e fuga in la minore, trascrizioni libere per pianoforte di O. Respighi, Milano, Ricordi 1918. Respighi premette alle due fughe rispettivamente un esteso Preludio e una virtuosistica Toccata, modificando la linea originale secondo stilemi strumentali tipici della tradizione virtuosistica dell’Ottocento: ottave, passaggi in terza e sesta, scale e arpeggi, salti trascendentali, blocchi di sei-otto suoni per volta. Nella Fuga in La minore è addirittura modificata la melodia del tema. E di Frescobaldi non rimane assolutamente niente.

(21) Mi limito a ricordare Le origini e lo sviluppo dell’arte pianistica di G. Pannain (Napoli, Curci 1917), Studi critici d’interpretazione di A. Toni (Milano, Bottega di poesia 1925), La musica pianistica italiana dalle origini al Novecento di A. Brugnoli (Torino, Paravia 1932); e si potrebbe aggiungere, anche se assai più tardo (1948), Il Pianoforte di A. Casella (Roma-Milano, Tumminelli 1937; poi Milano, Ricordi varie edizioni). I primi tre studi si occupano diffusamente di Frescobaldi, in particolare quello di Toni, che espone pensieri e indicazioni pratiche per l’interpretazione delle musiche frescobaldiane in gran parte fatti poi propri e sviluppati dal Ronga nella sua monografia.

(22) A. CASELLA, I segreti della giara, Firenze, Sansoni 1941, p. 300.

(23) Un omaggio a Frescobaldi è costituito dai Tre Pezzi in nomine Hyeronimi di L. PERRACHIO (Milano, Ricordi 1923), condotti sul modello dell’Hommage à Rameau di Debussy con

curiose elaborazioni di stampo debussyano della modalità tonalmente sciolta di Frescobaldi.

(24) G. BASTIANELLI, Girolamo Frescobaldi e Bernardo Pasquini, in Musicisti d’oggi e di

ieri, Milano, Studio editoriale lombardo 1914, p. 125.

(25) G. BASTIANELLI, Bach e Frescobaldi, in Musicisti d’oggi e di ieri cit., pp. 144-145.

(26) Ibid., p. 146.

(27) G. FRESCOBALDI, Tre toccate, Milano, Ricordi 1930. I tre tempi corrispondono rispettivamente alla Toccata per organo (dal Secondo libro, 1637), alla Toccata cromatica per l’Elevazione (Fiori musicali, Messa della Domenica), Ricercare post il Credo (id., Messa della Madonna). La prima e la terza compaiono già nella raccolta di Torchi e in quella di Casella.

(28) «Frescobaldi è stato uno dei primi ad arricchire le sue opere di molte ‘nuove’ armonie, oltre a quelle cromatiche che talvolta sono in lui un poco tormentate». E ancora: «Fino alla fine del Seicento la musica istrumentale era molto impacciata. Lo stesso Frescobaldi è un primitivo di fronte a un Orazio Vecchi o a un Palestrina». Cfr. G. F. MALIPIERO, Il filo di Arianna: saggi e fantasie, Torino, Einaudi 1966, pp. 116 e 225.

(29) L. DALLAPICCOLA, Per una rappresentazione de «Il ritorno di Ulisse in patria» di Claudio Monteverdi, in Parole e musica, Milano, Il Saggiatore 1980, p. 434.

(30) I. Toccata per organo (del Secondo libro, 1637; vedi Torchi, Casella e la trascrizione di Malipiero) – Largamente, con molta espressione. II. Canzone per organo o cembalo (Canzone Quinta dalla stessa fonte) – Molto adagio, con raccoglimento – Vivace – Primo tempo – Allegro. III. Toccata «avanti la Messa della Domenica» per organo (dai Fiori musicali) – Adagio religioso (archi soli) – IV. Canzone per organo o cembalo (Canzone prima, dal Secondo libro, 1637) – Allegro molto moderato – Gravemente – Allegro con fantasia (variazioni). L’organico orchestrale comprende:  3 flauti (II e III ottavino); 2 oboi, corno inglese, 2 clarinetti in Si bemolle, clarinetto basso in Si bemolle, 2 fagotti, 4 corni, 2 trombe, 3 tromboni, basso tuba, 2 timpani, archi.

La rinascita degli interessi frescobaldiani presso i musicisti italiani del Primo Novecento, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 1986
Estratto dal volume: Girolamo Frescobaldi nel IV centenario della nascita, Atti del Convegno internazionale di studi (Ferrara, 9-14 settembre 1983), a cura di Sergio Durante e Dinko Fabris

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