La vocazione autentica

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Le prime opere di Brahms furono pensate per il pianoforte. Fatto del tutto naturale: era pianista e voleva intraprendere la carriera del virtuoso. Il pianoforte fu però anche il mezzo per giungere ad affrontare la composizione strumentale di grande respiro e avviare la conquista di altri territori, come testimoniano le vicende del Primo concerto per pianoforte e orchestra, abbozzato dapprima come sinfonia e poi come sonata per due pianoforti. Il pianoforte fu così anche la via d’accesso alla musica da camera, genere al quale, col pianoforte o senza, Brahms era fatalmente predestinato, o al quale era predestinata una parte, la più intima e sensibile, meno epica e monumentale, della sua natura.

La produzione cameristica di Brahms si estende nell’arco di un quarantennio (il secondo Ottocento) e manifesta, nel segno di un’autentica vocazione, una consapevolezza storica vivissima e un impegno tenace sia nei singoli lavori sia nel disegno complessivo, tale da costituire un piano organicamente concepito e progressivamente compiuto. Dalla sonata per strumento solista (violino, violoncello, clarinetto) e pianoforte ai sestetti per archi, passando attraverso i trii, i quartetti e i quintetti per organici diversi, non v’è compagine propriamente cameristica che Brahms non abbia trattato. In queste composizioni si assiste al passaggio da un atteggiamento d’ardente passionalità (le pagine giovanili, dove pure predomina un senso innato della qualità artistica) a un raccoglimento più maturo e controllato, attenuato da colori caldi e autunnali, dove la necessità espressiva trova adeguata rispondenza in una precisa tecnica strumentale, realizzando gli aspetti della forma in un modo ovunque efficace e personale.

Il Trio in si maggiore op. 8, pubblicato nel 1854 a ventun anni, la prima composizione da camera degna di nota, lo aveva lasciato talmente insoddisfatto che, molti anni dopo (trentasette!), si decise a rielaborarlo interamente. Vi è in quest’atto uno dei tratti salienti della personalità di Brahms: uno straordinario senso di responsabilità e di autocritica unito a una valutazione del proprio lavoro secondo il metro più elevato. I due Quartetti con pianoforte in sol minore e in la maggiore op. 25 e 26 furono le prime opere cameristiche veramente importanti che Brahms presentò in occasione del suo primo viaggio a Vienna, nell’autunno 1862, insieme con il Sestetto in si bemolle maggiore per archi op. 18; a questo avrebbero fatto seguito, un paio d’anni dopo, il Secondo sestetto in sol maggiore op. 36 e la Prima sonata per violoncello e pianoforte in mi minore op. 38. Segni distintivi di questi lavori sono la densità e la compattezza del suono, soprattutto in presenza del pianoforte, e una diffusa pienezza e ricchezza armonica: i rapporti tonali tesi fino all’estremo delle possibilità, l’ampiezza del giro armonico che, evitando le punteggiature drasticamente conclusive, lega l’uno all’altro i vari episodi in un unico e ininterrotto flusso musicale conducono, anche in presenza di un tematismo disteso e scorrevole, a una continua, intensa tensione espressiva. In questo periodo la chiarezza circa le intenzioni fu anche il frutto di un profondo lavoro di ricerca: un’opera che risaliva al periodo del Primo sestetto, nata come Quintetto per archi con due violoncelli, fu trasformata in una Sonata per due pianoforti e infine in un Quintetto con pianoforte (in fa minore, op. 34). Circostanze simili non si verificheranno più quando Brahms avrà raggiunto la completa padronanza di tutti i mezzi compositivi, come dimostrano, nella raffinata scrittura per soli archi, i due Quintetti op. 88 (1882) e op. 111 (1890).

A quarant’anni Brahms pubblicò i primi due Quartetti per archi op. 51 (in do minore e in la minore), seguiti a distanza di tre anni da un terzo in si bemolle maggiore op. 67; tra questi vide la luce anche, e non si può non cogliere l’analogia, un terzo Quartetto in do minore con pianoforte (op. 60), progettato da tempo. La consuetudine, che gli era propria, di scrivere una dopo l’altra opere gemelle denota qui, nell’ampliamento addirittura a una terza, non soltanto un metodo di lavoro ma anche l’aspirazione alla sintesi: l’esperienza acquisita serve da stimolo per un’altra e poi un’altra composizione dello stesso genere. Quasi sempre esse sono il punto d’arrivo di una completa libertà creativa, più ricca d’ispirazione, non più ostacolata da difficoltà e preoccupazioni di ordine tecnico. L’interesse per la musica da camera si intensificò negli ultimi anni, a partire dal 1880, quando nacquero le tre Sonate per violino e pianoforte op. 78, 100 e 108, la Seconda sonata per violoncello in fa maggiore op. 99, i Trii con pianoforte in do maggiore op. 87 e in do minore op. 101, i due già menzionati Quintetti per archi in fa maggiore e in sol maggiore (capolavori degni di stare accanto a quelli di Mozart), per giungere infine alle quattro opere degli anni Novanta dedicate al clarinetto, il Trio in la minore op. 114, il Quintetto in si minore op. 115 e le due Sonate op. 120. Con queste opere Brahms accostò autentici gioielli, ora infiammati da bagliori screziati, ora ammantati dai riflessi della luce soffusa del crepuscolo. Il traguardo raggiunto è ora quello della concisione, della riduzione all’essenza.

Nelle composizioni cameristiche Brahms giunse a intrecciare fra loro i vari episodi con la massima flessibilità e spontaneità, a configurare nella sua totalità il grande arco teso sui singoli movimenti raggiungendo l’ideale equilibrio tra l’unità della condotta melodica e la necessaria ricchezza di contrasti. L’assoluta osservanza delle regole, quale la vedeva e intendeva realizzata nelle opere dei grandi predecessori, era un principio basilare della sua stessa libertà stilistica: una necessità interiore, un che di austero, di riservato e di con-centrato insieme. Talvolta non mancava di farsi strada una certa tendenza verso la stilizzazione classica o arcaizzante, controbilanciata però da un’invenzione naturale e diretta, nata, si direbbe, per il puro piacere di fare musica. In altri casi il controllo di sé, il forte senso di auto-disciplina evitarono il pericolo di forzare eccessivamente le dimensioni del discorso, secondo una tendenza che aveva nel Beethoven più titanico il suo presupposto. Zone od oasi ombrose di «tempi morti», nei quali il discorso sembra invece sospendersi, allentarsi nei timbri opachi di uno sperdersi romantico, rivelano un desiderio nostalgico, una brama inquieta che si annulla nella pace interiore soltanto al cospetto del rigore della forma. Se la disputa tra Brahms «classico» ovvero «romantico» non è mai stata totalmente risolta (questione forse oziosa: non una dicotomia, ma un processo d’integrazione fra una natura d’origine romantica e una educazione d’impronta severamente classica), una distinzione netta fra pagine autenticamente classiche o romantiche è impossibile. Restano semmai le esperienze sedimentate, alcune tendenze ricorrenti che per esempio spaziano dalla versione giovanilmente impetuosa del Trio op. 8 all’eccentrico Trio per violino, corno e pianoforte op. 40 (1865), pagina dominata dall’esaltazione romantica, ma vista come un addio ai sogni della giovinezza. Le estreme composizioni per clarinetto sono invece pervase da un romanticismo tutto introverso e notturno, riflessivo e malinconico, per così dire voluttuosamente consegnato all’aura mite della vecchiaia. Benché in linea di massima fosse rimasto ognora fedele alla concezione classica e tradizionale, Brahms conferì all’articolazione dei movimenti (sempre quattro, a ribadire la predilezione per l’architettura di vaste proporzioni) un’impronta originale e personale. Spostò al terzo posto il tempo lento, in luogo dello Scherzo introdusse una specie di intermezzo meditativo, di carattere più intimo e a volte affine alla danza. Forme dalle linee ampie e sviluppate sono tenute insieme da ricorrenze tematiche e simmetrie organiche, mentre il ritmo assume il ruolo di guida interna, sovente ravvivato da caratteristiche figure sincopate. Altri elementi caratteristici sono l’impiego del principio polifonico basato sul contrappunto imitato (contro-temi come se si trattasse di una doppia fuga, voci di mezzo che si scambiano le funzioni fantasiosamente) e l’uso delle variazioni: tecnica, strutturale, in tutta l’opera di Brahms, dalle prove della musica da camera alle sinfonie.

All’interno di questo quadro i Trii assumono un rilievo a sé stante e offrono in succinto un compendio della sua arte. Quelli per la formazione classica (violino, violoncello e pianoforte) tratteggiano l’intero percorso della sua evoluzione: l’irruenza appassionata, le tinte accese e le esuberanze melodiche del primo Trio in si maggiore op. 8, pur temperate dalla più tarda riscrittura comunemente preferita, possono essere assunte a paradigma della fase giovanile; il mediano, in do maggiore op. 87 (1882), nel quale il tempo lento (un «Andante con moto» in forma di variazioni) rimane in seconda posizione, si segnala per il suo lirismo confidenziale e per le sonorità dai contorni sfumati, a tratti inquiete e misteriose, inclinanti verso un ragionamento pensieroso; l’ultimo, in do minore op. 101 (1886), dei tre il più noto ed eseguito, presenta un’immagine vaporosa e smaterializzata, quasi decantata, come se rivivesse gli slanci espressivi del passato con distacco lucido e con esemplare, eloquente sinteticità.

Del Trio in mi bemolle maggiore op. 40 per violino, corno e pianoforte già si è accennato: con il suo organico inconsueto, e ancor più con il tratta-mento dell’insieme timbrico, appartiene al Brahms più nobile, incantevole ritrattista della natura e dei paesaggi poetici dell’anima, in una certa misura più nostalgico. Ciò non gli impedisce affatto di toccare una quantità di corde che vanno, assegnando al corno un rilievo atmosferico primario, dall’evocativo al brillante, dal malinconico all’euforico: opera in un certo senso romanticamente ciclotimica, essa impregna una parte nascosta della natura enigmatica di Brahms di una buona dose di sperimentazione innovativa.

Da notare, sotto questo riguardo, il movimento iniziale, un sorprendente Andante che eleva il tono di assorta trenodia a potenza di arcano notturno. Quanto al Trio in la minore op. 114 per clarinetto, violoncello e pianoforte (1891), esso fu il primo dei quattro lavori da camera con clarinetto che Brahms compose dopo aver conosciuto il clarinettista Richard Mühlfeld, strumentista di qualità eccezionali dell’orchestra di Meiningen. Il rango di capolavoro della tarda maturità gli spetta di diritto: per il clima elegiaco e ormai congedato dal mondo, per l’ispirazione intensa e partecipe, per la perfetta adesione dello spirito retrospettivo della composizione alla sua forma: una sequenza di quattro movimenti i cui Allegro angolari racchiudono due tempi lenti di sublime bellezza, sfiorati dalla contemplazione della morte e tuttavia animati da eleganti, quasi civettuole movenze di danza.

Amadeus a. XV, n. 3 (160), Marzo 2003

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