Ma allora questi Ugonotti li mettiamo in scena, sì o no?

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Les  Huguenots di Meyerbeer: un’opera di altissimo valore storico e artistico, senza la quale è semplicemente impossibile farsi un’idea completa di ciò che è stato, in una manifestazione di punta, certo teatro musicale dell’Ottocento. Quest’opera fondamentalissima e bellissima, che farebbe l’onore e il successo di qualsiasi grande teatro (grande nel senso dei mezzi esecutivi, oltre che delle intenzioni artistiche), manca in Italia, salvo il vero, da quasi trent’anni: ossia da quando se ne dette alla Scala, nel 1962, un’edizione memorabile, diretta da Gianandrea Gavazzeni e con un cast di stelle (Sutherland, Simionato, Corelli, Ghiaurov, Cossotto, per citare solo le più accecanti). Ma si trattava di un’edizione in lingua italiana e in quattro atti anziché cinque, ossia con molti tagli: peraltro condotti in modo magistrale e addirittura geniale da quel falso (per fortuna) immoralista che era ed è il maestro Gavazzeni («tagli da esposizione», li definì il principe dei direttori artistici Francesco Siciliani: e aveva perfettamente ragione). Quell’operazione aveva un senso in quel preciso momento del recupero di testi ardui del repertorio melodrammatico, in considerazione anche degli interpreti che vi erano impegnati; fu in altri termini una tappa nella storia della ricezione, a suo modo di grande significato artistico e culturale, come si direbbe oggi (ma allora si faceva, non si diceva soltanto). Tutto lasciava credere che in un altro momento storico – giacché molto è cambiato nel frattempo, come gli avvicendamenti hanno dimostrato anche alla Scala con Rossini, Verdi e via dicendo – si potesse pensare a un’edizione integrale degli Ugonotti, che facesse conoscere quest’opera nella sua veste originaria, stabilendo fra l’altro confronti quanto mai istruttivi. Vi si troverebbe materiale non solo per chiarire certe prospettive e tendenze generali del grand-opéra e dello spettacolo d’opera in quanto tale (per quanto, e ciò ne accresce l’interesse, Les Huguenots sia un unicum nel suo genere), ma anche per costruirci sopra il grande “evento”.

E perché allora nessuno si è fatto avanti? Per paura del rischio di un’operazione che richiederebbe comunque un notevole impegno nella preparazione (profondissimo, attentissimo lavoro sul testo anzitutto) e per la difficoltà di reperire oggi i cantanti adatti. Mitici, appunto, furono quelli della Scala; e tanto basta per aver paura dei confronti. Si potrebbe affidare il tutto a un giovane direttore di talento e a un regista disposto a lavorare un paio d’anni sull’opera in collaborazione con qualche collega o studioso già esperto. Tutto naufraga quando si scopre che mettere in scena Gli Ugonotti, che richiedono un enorme apparato scenico, è costoso.

I cantanti, si troverebbero. Anche perché all’estero, evidentemente, si pensa diversamente. Si sono viste tre edizioni degli Ugonotti, in questi ultimi cinque anni: a Berlino (non integrale, con una regia “attualizzante” che in fondo al massacro della notte di San Bartolomeo e alla guerra sanguinosa in nome delle ideologie non disdiceva, ma con ottimi cantanti che risolvevano egregiamente, anche se non erano Corelli o la Sutherland, le difficoltà delle loro parti), a Brema e a Montpellier. Quest’ultima produzione, rigorosamente integrale, ci è offerta adesso in disco dalla Erato (4 cd, 2292-45027-2): ascoltarla equivale a capire che alibi sui cantanti non se ne possono avere qualora si sia convinti dell’importanza di un’opera fatta non solo di grandiose parti di canto.

E tale è il caso degli Ugonotti integrali: opera mirabile per gli equilibri drammaturgici pur nell’ampia, articolatissima gittata della costruzione drammatica, per la varietà delle situazioni individuali e corali (solo il miglior Verdi riesce a portare ad altrettale incandescenza le passioni dei personaggi sullo sfondo della storia e degli ideali che li infiammano, specchio e insieme trasfigurazione di un’epoca), per la varietà delle tematiche politiche, sociali e religiose, e per la evidenza, ora a tutto tondo ora celata nelle pieghe della psicologia, con cui sono caratterizzati i personaggi principali: tutti e sette, non solo uno. Qui interpretati con una proprietà e una disciplina artistica che vanno ben oltre le qualità più o meno eccellenti delle singole voci. Quanto al direttore, lo sconosciuto Cyril Diederich, ci piacerebbe avergli affidato noi un simile altissimo compito. In un teatro italiano, nella realtà finalmente viva di una nostra scena.


Il giornale della musica, n. 59, marzo 1991

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