Una tesi più volte avanzata, spesso volgarizzata, vede nella figura del Commendatore del Don Giovanni una allegoria del padre di Mozart, Leopold. Don Giovanni uccide in duello il padre di Donn’Anna; ma la statua che incontra nel cimitero, che invita a cena e da cui alla fine riceve la punizione divina, è un simbolo che trascende la semplice identificazione con il padre di colei: diviene un’entità soprannaturale, nella quale Mozart ha riversato molti, diversi significati. Anche inconsci, e non solo ripensando a suo padre.
Che nel Commendatore possa essere presente la figura del padre, prima ritualmente ucciso e poi resuscitato per liberarsi dai rimorsi e dai sensi di colpa e ricevere la punizione, è un motivo già adombrato nel Don Giovanni di Molière. Qui il conflitto tra padre e figlio è espressamente rappresentato sulla scena: verso la fine Don Giovanni finge ipocritamente di essersi pentito, e Don Luigi, suo padre, versa lacrime di gioia nell’udire quella notizia. Non è che un ultimo inganno col quale Don Giovanni profana sacrilegamente valori nei quali non crede, perché comuni. Ma la statua appare e si vendica, smascherandolo. Non solo per la vicinanza di queste scene il collegamento è sottinteso.
Non così in Mozart. Dove Don Giovanni non ha vincoli familiari di sorta. È un uomo solo, senza radici. Ha “dichiarato sua sposa” Elvira, ma sappiamo in che senso. Perciò il simbolo della statua non rappresenta solo il soprannaturale: è anche la memoria improvvisa di tutto ciò che il libertino ha rifiutato o abbandonato per strada. Nell’ultima scena il mondo dei ricordi si riaffaccia per un attimo alla sua mente da lontananze remote, travolgendolo; ed è per questo che Don Giovanni rifiuta di pentirsi: se lo facesse, dovrebbe riconoscere il fallimento di tutta la sua vita. Sa di essere colpevole, ma non può ammetterlo proprio ora. Altrimenti nulla avrebbe più valore.
Il Don Giovanni di Molière è un ipocrita che cerca il modo per fare impunemente ciò che gli pare; quello di Mozart e Da Ponte è, al contrario, un impavido che ha scelto la solitudine proprio per affermare i propri valori, che alla fine ne sente il peso e ha la rivelazione di un vuoto. Mozart, come Don Giovanni, sapeva che la sua vita era stata un fallimento. Ma, come Don Giovanni, aveva la certezza di aver agito in base alle sue convinzioni e di aver sofferto e sacrificato molto per realizzarle: non poteva smentirsi di fronte alla statua. La statua era la sua liberazione, il suo “lieto fine”.