Pollini il profeta

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Ho notato più volte, ascoltando le Variazioni su un valzer di Diabelli di Beethoven in concerto, come il pubblico, più che amarle, le rispetti e le tema. Quel blocco unico di cinquanta minuti di musica, collocato invariabilmente (e come potrebbe essere altrimenti?) nella seconda parte di un concerto, costituisce un colosso davanti al quale si alza lo sguardo in stupefatta ammirazione: una specie di Sfinge, di Piramide della musica. In un certo senso, le Diabelli vengono accolte come una prova o un esame, che costringe a impegnarsi anche come ascoltatori. Insomma, se per esempio le ultime Sonate di Schubert, che non durano di meno e forse non sono neppure meno complesse, ci appaiono come un romanzo nel quale è anche consentito distrarsi e perdersi, le Diabelli richiedono la stessa concentrazione di un trattato di filosofia: guai a perdere il filo. Non solo avremo l’impressione di non capirci più nulla, ma anche la sensazione di essere meschini e ottusi. Direi, moralmente inadeguati. Capita allora un fatto strano, fateci caso: quando, alla ventiduesima variazione risuona inaspettato (perché a quel punto ci siamo già persi) il temino di Mozart “Notte e giorno faticar” del Don Giovanni, il pubblico si scuote, sembra finalmente riprendersi e respirare, e la cappa di “profondità” immediatamente si dirada. Peccato che Beethoven liquidi quel lieto ricordo (ma come ci siamo arrivati?, si chiederanno i più masochisti) in cinquanta secondi, per ripiombare poi nel suo strenuo ragionamento.

Anch’io ho ascoltato le Diabelli, con convinzione assoluta, così. Fino a che a Monaco m’imbattei in un concerto nel quale Friedrich Gulda aveva messo le Diabelli nella prima parte, facendole seguire dalle sue improvvisazioni tra il jazz e l’esoterico. E fu uno shock. Gulda sbriciolò il macigno beethoveniano pezzo per pezzo, come se si trattasse di una parodia nella quale tutto – pensieri, sentimenti, stili, metafisica – veniva messo allegramente, quasi impudicamente in discussione. Naturalmente lo faceva con lo spirito e la genialità che lo contraddistinguevano, e soprattutto con l’atteggiamento del clown dietro la cui maschera si cela la più profonda serietà e tragicità. Immaginate l’Amleto recitato da Buster Keaton, e capirete che cosa voglio dire. Non solo. Un Amleto nel quale Buster faccia non la parte del protagonista, ma quella di tutti gli altri personaggi della tragedia. Ossia, per intenderci, quella degli altri cinquanta compositori (e fra questi c’era anche Schubert) che sullo stesso valzer di Diabelli scrissero una variazione ciascuno. Mi sono sempre domandato che cosa avessero pensato costoro quando si videro accomunati con il loro valzerino nel secondo volume, dopo il primo in cui Beethoven, da solo, aveva sinceramente strafatto. Maurizio Pollini suona (e ora ha inciso per la prima volta) le Diabelli come Laurence Olivier (dico Olivier per dire il massimo) recitava l’Amleto: ovviamente nella parte del protagonista. Per quanto i suoi cinquantanove anni lo abbiano assai ammorbidito, Pollini non ammette scherzi e frivolezze, soprattutto in questo monumento. E dunque il tono di fondo deve essere stabilito subito, impregnare subito il tema (il laico Pollini sembra dar ragione a quei teologi cattolici i quali asseriscono nel seme esservi già la vita formata) e farci entrare nel tempio attraverso un portale grandioso (decisiva la prima variazione). Pollini non ammicca, declina. Anzi, scolpisce. Mi pare però che già nell’esposizione del tema Pollini inserisca un tratto più conciliante. Il carattere dato alle ornamentazioni, in contrasto con la sostanza armonica e ritmica, è più leggero, e tornerà nel corso delle variazioni a stabilire una superficie (in Pollini sempre un po’ malinconica) più distesa, se non proprio salottiera. Fino al raccoglimento infinitamente dolce del Tempo di Menuetto che Beethoven, arrivato a 33, scrive «moderato, ma non tirarsi dietro». E che Gulda evidentemente interpretava: «pianista, non tirartela troppo».

Un altro pregio di questa incisione discografica è che Pollini racconta più del solito. Racconta la storia delle Diabelli e forse anche un po’ di se stesso con una severità meno austera (variazione quinta e nona, con l’appendice funambolica del “Presto” della decima). Non è troppo preoccupato, come può accadere in concerto, di distribuire le forze (intellettuali, non manuali) per arrivare alla smisurata concentrazione delle variazioni finali (dalla ventinovesima) con la tensione intatta. Il che gli dà modo di arrivarci da dio e profeta, in modo che la scalata sia non solo più facile, ma anche più importante. A me è successo di pensare: “Peccato, è già finito”. In disco si può ricominciare. Ma con Pollini accade sempre, almeno a me, anche un’altra cosa. Mi sembra, ogni volta che l’ascolto, che venga messa in gioco tutta la posta, come in un’ultima, definitiva puntata, e che la pallina si fermi sempre sul numero giusto. Oplà, vinto. Ma non ha vinto solo lui (come accadeva con Benedetti Michelangeli, che sembrava quasi irridere la nostra insignificanza di giocatori in panchina), no, abbiamo vinto anche noi. E che cosa? È come se avessimo compreso di più non solo la musica ma anche noi stessi, e ci sentissimo migliori, più integri e forti, arricchiti di voglia di fare. Euforici nell’anima. Per questo Pollini rimane un pianista unico.  Grande, grande, grande.

 

Beethoven, 33 variazioni su un valzert di Diabelli; pf Pollini. Deutsche Grammophon 459642 (1 cd)

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