Povero Fidi, all’ombra di papà

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«È un maschio!». L’eco della voce della cameriera Vreneli non si è ancora spenta nei saloni della villa di Tribschen presso Lucerna, la mattina di domenica 6 giugno 1869, che già il padre, un compositore famoso, è al lavoro per convertire la lieta novella in epifania musicale. Gli strilli del neonato, il cinguettio di un uccellino nel bosco, i raggi del sole nascente che illuminano il tappeto arancione della camera da letto riflettendosi con un bagliore mai visto sul ritratto incorniciato di blu della madre, Cosima von Bülow, si trasformano in visione sonora: «Idillio di Tribschen col canto dell’uccellino-Fidi e levata del sole arancione». Ma occorrerà attendere più di un anno – e un’occasione altrettanto solenne, il trentatreesimo compleanno della madre e la mattina di Natale del 1870 – per udir risuonare quella composizione. L’Idillio di Sigfrido è, secondo le male lingue, la cosa migliore cui abbia dato origine la nascita di quel bambino.

Che si dovesse chiamare Siegfried era fuori discussione. E non solo perché a quel tempo il padre stava lavorando al terzo atto dell’opera intitolata all’eroe. Scriverà la madre nel suo diario: «Il regalo che il destino ci ha fatto con la nascita di un figlio mi sembrò subito una consolazione di inestimabile valore. Un figlio di Richard è l’erede, il futuro rappresentante di suo padre e delle sue creature; sarà il protettore e la guida delle sue sorelle». Col che evidentemente si alludeva non soltanto a Isolde e Eva, ma anche ai frutti del precedente matrimonio di Cosima von Bülow, Blandine e Daniela. Legittimato, come le sorelle, solo dopo la sua nascita (Richard e Cosima poterono sposarsi solo il 25 agosto 1870), Siegfried ricevette già il 9 settembre il soprannome di “Fidi”, che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita. Con alcune varianti: Endimione, raggio di sole, il nostro principe elettore; e ancora: il Beethoven biondo, Fidi Albrecht Dürer, Fidi l’olimpico, l’arcobaleno, e Fidi nostro sole.

Il piccolo Fidi ha appena pronunciato la parola “papà” (e la data del 2 aprile 1870 viene religiosamente annotata: è infatti la prima volta che Wagner si sente chiamare così, dato che per le bambine era ancora soltanto “zio Richard”) e i genitori si preoccupano già della sua educazione e del suo futuro. Gira per casa un professorino niente male, Friedrich Nietzsche, che certo non rifiuterà di dargli lezioni di greco. A dire il vero Cosima non si aspetta che Fidi diventi un genio: «Non credo che i genii si riproducano così alla svelta anche se non mancano gli esempi nella storia; mi basta che abbia una carattere forte e un intelligenza sveglia!». Ma poteva bastare a cotanto padre? «Se non si perde in qualche eccesso – è la sua replica – sono sicuro che con quel suo testone e quella sua natura esuberante saprà farsi straordinariamente valere. Dovrà riuscire a fare le cose che io non ho saputo fare. E allora diventerà un genio!». Che simpatico quadretto di famiglia!

Siegfried Wagner, genio nell’ombra: così Peter P. Pachl ha intitolato il suo voluminoso studio sul nipote di Liszt e figlio di Wagner (editore Nymphenburger di Monaco, pagine 544). Questa biografia ha suscitato molte polemiche in Germania non solo per la luce non sempre edificante che getta sulla famiglia più bella del mondo (non a caso l’autore dedica ironicamente il suo libro a Wolfgang Wagner, «che rifiutandosi di collaborare mi ha condotto sulla giusta strada») ma anche per certe affermazioni tendenti a rivalutare Siegfried sia come uomo che come artista. A tutto sfavore dell’ambiente che lo circondò e che gli sopravvisse. E con tanto di oroscopo del genio all’inizio.

Polemiche e giudizi di valore a parte, per la completezza dell’informazione (ricca di documenti inediti e accompagnata da materiali iconografici semplicemente favolosi) il libro di Pachl ha il grande merito di riproporre all’attenzione una figura tanto interessante quanto dimenticata, o meglio rimossa: schiacciata nell’ombra prima dalla presenza dei genitori (non solo di Richard, ma anche di Cosima, che morì solo quattro mesi prima del figlio, nel 1930), poi dalla moglie Winifred, la famigerata amica di Hitler, e infine dai figli, Wieland e Wolfgang, promotori del rinnovamento e del nuovo corso di Bayreuth. Ma grande spazio Siegfried non ebbe neppure nelle tante attività artistiche a cui si dedicò: come direttore d’orchestra fu oscurato da nomi di lui ben più eccelsi (da Richter a Mottl a Muck, e poi Elmendorff, Furtwängler, Strauss, Toscanini); come compositore di teatro dovette confrontarsi, oltre che col peso del cognome, con circostanze storiche e culturali poco adatte ad accogliere le istanze del suo idealismo un po’ ingenuo e sognante.

Eppure Siegfried si sentiva votato alla missione teatrale. Fra il 1898 e il 1929 compose in tutto diciotto opere, ossia in media quasi due opere all’anno: ed è significativo che solo queste rechino un numero progressivo nel suo catalogo. A ciò vanno aggiunti molteplici tentativi giovanili e numerosi lavori d’altro genere, fra cui una notevolissima Sinfonia in do maggiore (1925-27). Una produzione considerevole, dunque; e per di più concepita sempre in vaste dimensioni, e con grandi ambizioni.

Sotto certi aspetti Siegfried, come compositore, è un tardo romantico; come post-wagneriano accoglie tutti i mezzi del teatro paterno rifiutandone però drasticamente i contenuti e le implicazioni di carattere psicologico e drammatico. Sintomatico è ciò che egli scriveva al suo venerato maestro Humperdinck proprio alla vigilia del debutto in campo operistico con Der Bärenhäuter (L’indolente), una fiaba dei fratelli Grimm: «Il ritorno alla semplicità! Una cornice piccola! Il tuo merito eterno sta nell’aver aperto e indicato questa strada. Solo così potremo restare veramente wagneriani. Una tenue, giudiziosa commedia tedesca: questo è ciò che ci rimane ancora da fare!». E più tardi, quando la strada era già stata intrapresa: «Da mio padre bisogna imparare: stile, declamazione, strumentazione, concisione, costruzione, drammaturgica. Nota bene, ma guardati dal calzare i coturni; altrimenti diventerai solo un miserevole epigono. Conoscere i suoi limiti, questo significa essere wagneriani. Non incaponirsi con l’orchestra nibelungica se non si ha niente da dire. Imparare soprattutto la finezza della modulazione, e non sguazzare in tutte le tonalità quando sulla scena due poveracci si annoiano e non hanno nulla da dirsi».

Affermazioni come queste si trovano a ogni pie’ sospinto nel corso della carriera artistica di Siegfried. Privilegiato e continuato è il filone dell’opera fiabesca romantica, ricollegandosi a Spohr e Marschner fino a Humperdinck: con tanto di spiriti, diavoli e personaggi della commedia popolare o del Medioevo fantastico (Il duca scapestrato, Il coboldo, Fratello Gaio e via dicendo; fino a quella Maledizioncella che ognuno ha ricevuto in dote – meraviglioso titolo ch’è tutto un programma – ambientata «nel nostro mondo fiabesco» in un cantuccio con vista sul Flauto magico e su Lohengrin).

Grettezza morale, dogmatismo, superstizione, perfino il militarismo e i tabù sessuali, sono i bersagli preferiti dal teatro di Siegfried; in vicende che spesso appaiono non solo intricate e sconnesse ma anche volutamente astruse e irreali, secondo schematizzazioni e tipizzazioni che fanno parte del gioco e del divertimento ma non nascondono affatto chiari riferimenti all’attualità. E se la drammaturgia non sempre lo sorregge, ciò che risalta immediatamente è la pungenza ritmica, la vivacità melodica (di corto respiro, tendenzialmente chiusa), la chiarezza armonica (forse un po’ accademica), la solida strumentazione. Giacché Siegfried era un compositore con basi salde, e uno spirito umoristico sottile: di stampo comico e popolare.

Ma nella vita come nell’arte la sua personalità non ebbe modo di realizzarsi interamente. La madre, che non volle mai assistere a un suo lavoro, non lo considerava affatto un creatore bensì l’erede di un grande impero da amministrare: compito per il quale Siegfried mancava del necessario fanatismo e della conseguente energia. Si addossò comunque l’impresa di Bayreuth – lui unico uomo in una casa di donne – con impegno, senza lasciare nulla di intentato per assecondare gli ideali assolutistici della famiglia. Come direttore delle opere del padre non si distinse in modo particolare; d’altronde, è evidente che non potesse competere con la grande scuola degli interpreti wagneriani. Scriveva a un amico nel 1921: «Dirigo come un forsennato dove capita per raccattare denaro, perché la nostra economia domestica (sette persone di servizio!!!) è una rovina completa, e poi sempre debiti!». Altrove, tra le righe, oltre alla rassegnazione, traspare invece una amara consapevolezza del proprio rango; per esempio dopo un concerto raffazzonato a Braunschewig: «Io stesso ho ricevuto un compenso assai modesto, con il quale a fatica ho potuto coprire le mie spese di viaggio (2.000 marchi, Strauss chiede 12.000, Furtwängler 10.000 marchi!)».

Ma sono lamenti fugaci. Quel che conta è mantenere in piedi l’istituzione di Bayreuth. Soprattutto dopo la catastrofe della guerra, con l’inflazione, il compito diviene arduo. Siegfried pensa di coinvolgere gli americani («che qui son rappresentati in gran numero e hanno capito l’importanza del festival per tutto il mondo della cultura»), ma non sa proporre altro che una tournée di concerti oltre oceano per batter cassa. Intanto continua a mettere in scena le opere paterne, con scarso successo: mostrando la stessa mancanza di nerbo nell’imporre le proprie idee (che desidererebbero cambiamenti e innovazioni) al cospetto di quelle, nettamente conservatrici, della madre e della sua corte; nella quale anche Eva, da quando ha sposato Houston Chamberlain, comincia a fare la voce grossa. Se però si vuole capire veramente il carattere di Siegfried Wagner, niente è più illuminante delle circostanze che portarono al suo matrimonio con Winifred Williams.

Winifred aveva diciassette anni quando giunse a Bayreuth per il festival del 1914 in compagnia di un vecchio amico di famiglia, Karl Klindworth, che l’aveva adottata: naturalmente amava la musica di Wagner, e Senta era il suo soprannome. Piacque subito a Cosima. Accompagnandola in una passeggiata nel Hofgarten ebbe modo di dimostrare che le sue idee politiche coincidevano con quelle di lei e di Chamberlain. Non c’era dubbio: era la sposa adatta per Siegfried. Dopo tutto, Siegfried amava le donne bambine, come dimostravano le sue opere, che ne erano piene, e dunque… La macchina familiare si mise in moto e poco più di un anno dopo, il 22 settembre 1915, Winifred divenne la signora Wagner. In realtà Siegfried non amava solo le donne bambine, ma aveva anche spiccate tendenze omosessuali. Fu in ogni caso marito esemplare e padre di tre figli. Quanto a Winifred, la famiglia non ebbe mai a pentirsi della sua scelta.

La dignità con cui Fidi seppe affrontare il suo ruolo ha qualcosa di grandioso, di straordinario, ed è insieme profondamente enigmatica. Forse davvero gli bastava evadere in un mondo di sogno, popolato di cavalieri e di gnomi, di incantesimi e di buone intenzioni, per ritrovare se stesso. Non rinnegò mai quel destino che lo aveva posto al centro di una saga familiare che nessuna telenovela potrà mai uguagliare; per possederlo, avrebbe dovuto dimenticare ciò che aveva ereditato dai suoi padri. Ombra di un genio. Difficile, impossibile uscire da quell’ombra.

 

 

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