Sergej Prokof’ev – Matrimonio al convento, opera comico-lirica in quattro atti e nove quadri

S

Sergej Prokof’ev – Matrimonio al convento, opera comico-lirica in quattro atti e nove quadri

 

Sergej Sergeevič Prokof’ev fu operista istintivo, appassionato, dotato e precoce come pochi, almeno nella sua epoca. Compose la sua prima opera teatrale – Il gigante – a nove anni: un’opera in tutti i sensi infantile, che ebbe però la possibilità, grazie all’affettuosa compiacenza della madre, di venir subito allestita in una rappresentazione privata, familiare. Ma già nel 1904, allorché il ragazzo tredicenne sostenne l’esame di ammissione al Conservatorio di Pietroburgo, le opere erano diventate quattro, e almeno una di esse – L’ondina, tratta dalla novella di La Motte-Fouqué – in grado di destare l’interesse di esaminatori severi quali Rimskij-Korsakov e Glazunov. Agli anni di studio in Conservatorio risale la prima prova di piú maturo impegno, quella Maddalena, scabra e aggressiva, alla quale fu rifiutata l’esecuzione nel saggio annuale degli allievi. Era la prima volta che il compositore si scontrava con la dura realtà dei superiori: «sognavo di comporre opere con marce, tempeste, scene terrificanti, e invece mi volevano insegnare delle regole», scrisse rammentando quel tempo. E di scene terrificanti, nel soggetto della Maddalena, non ne mancavano certo. Come non mancano, ma su un piano compositivamente piú alto e organico, non di rado illuminato da lampi di genio, nel primo notevole, compiuto lavoro teatrale di Prokof’ev, Il giocatore da Dostoevskij, che ciononostante dovette attendere oltre dodici anni prima di venire rappresentato (Bruxelles, 1929): iniziato nel ’15, finito nel “”16, annunciato dal Teatro Mariinskij per il febbraio-marzo 1917, scomparve dal cartellone a causa dello scoppio della rivoluzione. Forse furono anche questi eventi a spingere Prokof’ev a scegliere la strada dell’Occidente, ufficialmente solo per «prendere una boccata d’aria fresca». In America. dove era emigrato e dove si tratterrà per un lustro, trascorrendo poi altri dieci anni in Europa, egli colse la prima affermazione come operista con L’amore delle tre melarance, scritto di getto nel ’19 e rappresentato con grande successo a Chicago alla fine del 1921 (giunto in Russia nel “”26. fu la prima apparizione ufficiale di Prokof’ev operista in patria). Nel contempo. però, si preparava la via per una nuova delusione, assai piú amara di tutte le precedenti. L’angelo di fuoco, creazione alla quale il musicista attese fra il ’19 e il ’23 rimaneggiandola di continuo nei quattro anni seguenti, non trovò un teatro disposto ad accoglierla (solo nel ’28 se ne dette a Parigi un’esecuzione del secondo atto in forma di concerto) e rimase, vivente l’autore, irrappresentata; per essere riscoperta in tutta la sua visionaria grandezza solo due anni dopo la morte di lui, in una storica serata del settembre 1955 alla Fenice di Venezia.

Dopo L’angelo di fuoco, opera che in forma complementare alla «favola» gozziana dell’Amore delle tre melarance costituisce la quintessenza di una visione innovatrice e originale del teatro musicale, Prokof’ev si tenne lontano per molti anni dal cimento operistico, vuoi per le delusioni patite nel vano tentativo di affermarsi, vuoi perché queste due opere avevano complessivamente esaurito un primo stadio della sua ricerca e di quanto propriamente avesse da dire. Vi si riaccostò soltanto nel 1939, sei anni dopo il definitivo ritorno in patria, con un lavoro sotto molti aspetti nuovo, strettamente legato alle circostanze in cui maturò: l’epopea nazional-popolare del Semën Kotko, attraverso la quale Prokof’ev cercò di conciliare le richieste del regime sovietico con le proprie individuali esigenze artistiche, rimanendo, suo malgrado, penosamente invischiato nella difficile quadratura del cerchio. E’ a questo punto che si colloca la composizione dell’opera comico-lirica in quattro atti Matrimonio al convento. Essa, rispetto al Semën Kotko che immediatamente la precede, è la conseguenza di una brusca sterzata, un ritorno, unitariamente perseguito da Prokof’ev nella molteplicità dei mezzi usati, alla vena piú caratteristica della sua arte, sia pure con una colorazione tutta speciale. Iniziato nel 1940 e completato già alla fine dell’estate di quell’anno, Matrimonio al convento sarebbe dovuto andare in scena nel ’41, ma una circostanza ancora una volta drammatica – lo scoppio della guerra – ne impedí l’esecuzione. Fallito anche il progetto di presentarla al Bol’šoj nell’autunno del 1943 (e fu in quest’occasione che l’autore rivide la partitura al fine di renderla piú omogenea), l’opera venne rappresentata soltanto a guerra finita, il 3 novembre 1946 al Teatro Kirov (ex Mariinskij) di Leningrado, con accoglienze assai positive e anzi quasi trionfali, come prima non era mai accaduto in patria a Prokof’ev. Ma fu solo un’eccezione. Le peripezie ripresero, ancora maggiori, con le due ultime fatiche teatrali del compositore: l’ambizioso, smisurato e per molti versi irrisolto progetto di musicare Guerra e pace di Tol’stoj, lavoro che lo tenne impegnato quasi fino alla morte (ancora nel ’52 era intento a limare la partitura), non ebbe il conforto di una verifica in teatro (vi apparirà soltanto nel ’55 a Leningrado, dopo la famosa, benché incompleta, «prima» al Maggio Musicale Fiorentino del 1953); mentre l’altra opera, La storia di un vero uomo, composta nel 1947-1948, non andò oltre una tumultuosa anteprima a porte chiuse. E ciò nonostante l’autorità raggiunta da un artista considerato ormai, e non da poco tempo, fra i massimi del suo secolo.

Fosse che la scelta, in sé curiosa, di una commedia del tardo Settecento inglese – The Duenna, or the Double Elopement (La governante, o la doppia fuga d’amore) del drammaturgo irlandese Richard Brinsley Sheridan (1751-1816), per l’occasione ribattezzata Matrimonio al convento (ma occorre precisare che il titolo originale russo, Obručenie v monastyre, suona Fidanzamento al convento) – venisse ispirata a Prokof’ev dalla sua compagna (e di lí a poco sua seconda moglie) Mira Mendel’son, come ella ci assicura; fosse che invece nascesse dal compositore stesso, anglista appassionato, nelle cui mani il testo inglese era capitato per caso nel 1940, affascinandolo per «il senso dell’umorismo sottile, la lirica incantevole, la caratterizzazione dei personaggi precisa e acuta, la dinamica dell’azione, la costruzione divertente del soggetto, i cui cambiamenti spingevano ad attendere con interesse ed impazienza lo scioglimento», come egli dichiarò in una nota del 1943: fatto è che il soggetto si prestava meravigliosamente a essere sviluppato in forma operistica, e ancor piú in una forma operistica eclettica e composita, a Prokof’ev intimamente congeniale. E ciò per diversi motivi. La commedia di Sheridan è infatti un perfetto esempio di teatro di costume, amabilmente ironico nei confronti di un mondo sentito come mitico; mitico anche nei riguardi degli stilemi e delle convenzioni dell’opera settecentesca, del cui spirito e delle cui forme la commedia è pervasa pur tendendo, in modo appunto garbatamente ironico, al distacco, al non coinvolgimento emotivo. Ora, questi spunti, accortamente ripresi ed elaborati, si innestavano alla perfezione sui cardini dell’estetica teatrale di Prokof’ev, fornendogli il pretesto per esaltare, rispetto al forte impegno («aristocratico» o «popolare») delle opere di ispirazione russa, caratteri in lui innati: il gusto del gioco disincantato, in equilibrio tra serietà e parodia, il rigore di un ordine formale chiaro e prestabilito, la tendenza all’invenzione melodica pura, all’idea musicale sorgiva e autosufficiente, in una mescolanza tipicissima di vena lirica, sarcastica e grottesca. E ancora. Vi era la possibilità, che il testo di Sheridan offriva in abbondanza, di creare ed esaurire musicalmente situazioni sceniche già di per sé destinate alla musica, come canzoni, danze, pantomime, mascherate, travestimenti, serenate e cori. Nel settecentesco, classico girotondo delle coppie smaniose d’amore, farcito di equivoci e intrighi, costellato di inganni fittizi e di gioiosi disinganni, sapientemente guidato dalla mano esterna di un burattinaio (una matura governante desiderosa di accasarsi), fino al tradizionale, immancabile happy end, Prokof’ev aveva modo di ripensare modernamente tutto un mondo passato, irreale, teatralmente simulato e deformato, e di far rivivere, per cosí dire dall’interno, la storia dell’opera, prendendo a modello gli esempi della sua età dell’oro, accettandone, ma non passivamente, regole e schemi: quelle regole e quegli schemi a cui egli, musicista del Novecento, aveva sempre guardato con affettuosa partecipazione, subendo il forte richiamo dei piaceri «puri», dati da una fantasia musicale liberata, lanciata a briglia sciolta nei meccanismi «impuri» dell’invenzione teatrale. «E’ frizzante come champagne: si potrebbe farne un’opera nello stile di Mozart o di Rossini!», narra la Mendel’son ch’egli esclamasse dopo aver letto la commedia di Sheridan.

Nella quale particolarmente accattivante dovette sembrargli anche l’ambientazione spagnola: la Siviglia, poetica e letteraria, dove si svolgeva l’azione, anch’essa mitica, cara all’immagine operistica. Non la Siviglia assolata e rovente della Carmen, ma quella notturna e inquieta del Don Giovanni, fusa con quella, animata e vivace, giocondamente seria, di Beaumarchais, Da Ponte e, naturalmente, Mozart e Rossini; la Spagna, insomma, esotica e teatralissima del Settecento, che tanto aveva fatto innamorare di sé gli artisti e i musicisti europei, anche nell’Ottocento: dai compositori delle scuole nazionali, massime di quella russa (i Dargomyskij, i Clinka, i Rimskij-Korsakov antenati di Prokof’ev), fino ai piú severi rappresentanti della cultura e della musica austro-tedesca: sí che un musicista come Hugo Wolf scrisse la sua unica opera teatrale – Der Corregidor – su un soggetto spagnolo, per molti versi di intonazione simile a quella del Matrimonio al convento. Vi era poi, su tutti, un modello ancor piú diretto, sia per l’intreccio, quasi identico, sia per il carattere, lirico e comico allo stesso tempo, nel quale esso era stato svolto: Il matrimonio segreto di Domenico Cimarosa, ricavato da una commedia inglese pressoché coeva a quella di Sheridan. E Cimarosa, nel suo pur breve soggiorno a Pietroburgo, aveva lasciato sedimenti profondi nella cultura musicale e nell’opera russa.

Ma, come si è accennato, nella scelta della Duenna un terzo elemento si era imposto a Prokof’ev con attrattiva irresistibile: ossia che quel testo teatrale contenesse in sé spunti, caratteri, situazioni, momenti eminentemente musicali, i quali cioè richiedevano e contenevano già la musica. La commedia di Sheridan è formata di parti in versi dialogate, per buona parte integrate da musiche di scena composte, per la prima londinese del 1775, dal suocero e dal cognato di Sheridan, Thomas Linley senior e Thomas Linley junior: costituite, queste ultime, da brani musicali solistici, duetti, terzetti, pezzi d’assieme e cori, ora nello stile popolareggiante dei songs, ora in quello piú elevato delle arie (o degli insiemi) propriamente detti.

Prokofev, coadiuvato nella stesura del libretto da Mira Mendel’son (alla quale fu affidata la versificazione delle parti poetiche, come i couplets in versi), segui’ abbastanza fedelmente la traccia di Sheridan ma ne adattò lo svolgimento ai propri fini: che erano quelli, da lui stesso denunciati, di

sfruttare le possibilità offerte da Sheridan per «introdurre tutta una serie di pezzi chiusi, in sé compiuti – serenate, ariette, duetti, quartetti e ampi pezzi d’insieme – senza arrestare mai il corso dell’azione». Ne risultò dunque non semplicemente un’opera a pezzi chiusi, come nella tradizione antica, bensì una commedia musicale moderna fatta di scene in sé compiute che si susseguono senza interruzione, sostenute e legate da un tessuto orchestrale sempre denso, spesso tendente a emergere per porsi in primo piano in episodi musicali, sinfonici o «da camera», autosufficienti.

Ciò comportò ovviamente una reinvenzione pressoché completa della struttura teatrale. Se i personaggi principali rimasero inalterati in quanto «tipi» convenzionali, funzioni prestabilite di un’azione sagacemente congegnata e articolata (giovandosi però, grazie all’intervento della musica, di piú penetranti e individuali caratterizzazioni psicologiche), altri furono aggiunti per definire scene secondarie ma non inessenziali al meccanismo drammatico-musicale: i tre monaci beoni, dai nomi significativi di frate Elixir, frate Chartreuse e frate Bénédictine, che animano la spassosa scena del convento (primo quadro dell’ultimo atto); le due cameriere Lauretta e Rosina, nomi anch’essi pieni di richiami alla tradizione operistica, che danno modo alle protagoniste femminili. Luisa e Clara, di risaltare in parti liriche (scene, arie e ariosi) costruite secondo la tecnica tradizionale ma non statiche; le due figure mute dei suonatori di cornetta e grancassa che, nel secondo quadro del terzo atto, collaborano con Don Gerolamo nella concertazione di un minuetto caricaturale. Cosí come furono aggiunte alcune fulminee battute ironiche o ammiccanti, senza dubbio frutto della sofisticata eleganza della Mendel’son, fine letterata; e variate certe connotazioni, anche fondamentali. di alcuni personaggi, la piú importante delle quali è la trasformazione di Mendoza – Isacco, in Sheridan – da «schifoso ebreo» a semplice mercante di pesce: ripugnando a Prokof’ev, anche nella finzione teatrale, ogni forma di antisemitismo. E tutto ciò per scopi, prima ancora che

drammaturgici, musicali: tali cioè da consentire alla musica di espandersi seguendo il suo corso e il suo respiro naturale e di guidare dall’interno, unitariamente, il succedersi dell’azione.

A ragioni di economia musicale vanno dunque ascritte le diversità del libretto rispetto alla commedia originale. Che nella trasposizione operistica, per esempio, la «dueña» (secondo il termine spagnolo) figuri non come protagonista dell’intreccio ma come figura di sfondo e quasi deus ex machina della vicenda – per intendersi: assai piú un Don Alfonso che non un Figaro – nasce dal fatto che la costruzione drammaturgica tende a privilegiare, sfruttando le simmetrie speculari fra le coppie di innamorati già presenti in Sheridan, i rapporti musicali fra di esse, fino al culmine finale, dove le maschere cadono, della scena del finto matrimonio al convento; e ciò spiegherebbe, assai piú dei motivi pratici addotti dall’autore – secondo il quale «dueña» non avrebbe suonato bene in russo – la ragione del cambiamento del titolo: non La Dueña appunto, bensí Matrimonio al convento. (O meglio fidanzamento, per ora; dato che quello celebrato nell’antico convento e che scioglie lietamente la trama non è un vero sposalizio con i crismi della legalità ma una promessa di matrimonio.) Per converso, un’altra figura risalta sia nell’azione sia nella musica assai piú che in Sheridan: quella di Don Carlo, nobile decaduto amico del nobile e ricco Don Gerolamo, rappresentante della vecchia società e di un mondo tramontato: personaggio al quale Prokof’ev conferisce accenti di un’affettuosa, tenera comicità (si veda il duetto con Luisa che apre il terzo atto). Egli è l’unico che non si lasci travolgere dalla follia del denaro o dell’amore – i vecchi avidi e libertini da un lato, i giovani ardenti e sognatori dall’altro – e che stia quasi a sé, su uno sfondo crepuscolare un po’ patetico e un po’ nostalgico, ridicolo e serio al tempo stesso. Anche in questo caso viene riaffermata quella priorità definitiva del ruolo della musica, mezzo non soltanto di ininterrotto svolgimento drammatico ma anche di introspezione psicologica, che è attributo essenziale dell’opera.

Si è detto che a una maggiore evidenziazione drammatica concorrono la condensazione della trama e la concentrazione del libretto in situazioni sceniche musicalmente determinate. L’opera, suddivisa in quattro atti e nove quadri, rispetta rigorosamente le unità di tempo, luogo e azione. La vicenda si svolge a Siviglia fra interni ed esterni e scorre spedita da una sera all’altra, ravvivata da un carnevale notturno, dal gioco delle mascherate e degli equivoci; per concludersi con un grandioso banchetto in casa di Don Gerolamo che sancisce, fra brindisi e balli, il lieto fine: passando prima, per la svolta decisiva, entro le mura di un convento di monache abbandonato dove fratelli e monaci dissoluti celebrano rumorosamente gioie tutt’altro che spirituali. La scorrevolezza e il brio dell’intreccio sono assicurati dal rivestimento musicale. Fin dall’inizio, dopo la rapida Introduzione che annuncia alcuni dei temi principali dell’opera, Prokof’ev, a differenza di Sheridan, ci trasporta in medias res con un duetto nel quale Don Gerolamo, padre di Ferdinando e Luisa, e Mendoza, avido mercante di pesce interessato alla ragazza, suggellano il patto d’amicizia e d’affari con una promessa di matrimonio. Sul prolungamento del duetto si ha la rappresentazione dei due personaggi (una canzonetta nella quale Don Gerolamo espone le sue apprensioni di padre diverrà nel corso dell’opera il suo Leitmotiv), e indirettamente anche di Luisa, le cui virtù, comicamente enumerate dal padre fra le esclamazioni di stupore del maturo pretendente, sono buffamente paragonate a quelle taumaturgiche del pesce. Ecco poi entrare Ferdinando e Lopez (il padrone con il suo servo, stilema tipico della tradizione operistica). Costui ama, riamato, Clara, amica di Luisa, ma l’ha offesa con la sua internerata audacia penetrando nottetempo nella sua camera. Quasi senza avvedersene, il quadro è dipinto, l’atmosfera creata, i personaggi delineati e caratterizzati dalla musica. La temperatura espressiva sale notevolmente nella seconda parte dell’atto, dapprima con la serenata di Antonio (innamorato di Luisa e da lei ricambiato, ma inviso al padre di lei), poi con il breve, tenero duetto dei due amanti, infine con la già ricordata scena del carnevale notturno: un balletto di maschere che dà vita a un vasto intermezzo orchestrale di sapore orientaleggiante, il quale, inserito nello svolgimento dell’azione, la risolve e conclude in una specie di pantomima accompagnata dalla musica, di spessore prima sinfonico, poi tenuemente cameristico (l’attonito canto di tre violoncelli soli sulla scena). Dopo alcuni pastiches di carattere comico-amoroso, dunque, è alla musica che alla fine dell’atto spetta di riassumere ed esaurire, sospendendola ma non interrompendola, la trama, delineando la città che pian piano si addormenta.

L’ampio secondo atto, che consta di tre quadri, innesca e poi aggroviglia il nodo dei travestimenti. In breve: la «dueña» Margherita, che mira con l’inganno ad accasarsi con il ricco Mendoza, prenderà il posto di Luisa, mentre Luisa, fuggita di casa per raggiungere il suo Antonio, si fingerà Clara, amata da Ferdinando.L’azione si fa più serrata, ricca di colpi di scena, ora indulgendo a sottolineature comiche suggerite dalla situazione (come nel battibecco grottesco-caricaturale fra Don Gerolamo e la «dueña»), ora effondendosi in espansioni liriche, trepida eco degli intimi turbamenti degli innamorati. Ma non mancano gli inserti nei quali la musica torna a svolgere un ruolo preminente: il variopinto coro delle pescivendole che apre e chiude il secondo quadro (una invenzione di Prokof’ev, assente in Sheridan), il canto arioso e sognante («Andantino») di Clara, amante assai più ingenua e sentimentale di Luisa, il canto nostalgico e commosso del vecchio nobile Don Carlo, il quale da vero gentiluomo appoggia, senza avvedersene, la causa dei giovani, della giovinezza perduta sentendo acuto il richiamo e il ricordo. Culmine dell’atto è la scena esilarante degli equivoci fra Mendoza, venuto in casa dell’amico per conoscere la futura moglie, e la «dueña» che si è sostituita a Luisa. Per conquistare Mendoza, che essendosi immaginato tutt’altra merce non sa nascondere le proprie perplessità, la governante intona in suo onore una faceta canzone piena di doppi sensi, parodia di un song di Sheridan (altro inserto efficacissimo, in tono con la situazione paradossale). In questa scena la caricatura del melodramma tradizionale si fa piú evidente allorché i due decidono romanticamente di fuggire insieme, per coronare con qualche brivido d’estasi il loro «sogno d’amore»: fugacemente accennato, il sottinteso ironico è tanto sorridente quanto mite.

Atto terzo. Tre quadri, anche qui. L’arco drammatico, senza tuttavia slentarsi, ora per così dire indugia in preziosi virtuosistici arabeschi, presentando una successione di scene nelle quali il peso specifico della musica, ora piú che mai mezzo di connotazione formale, è considerevolmente accentuato. Il primo quadro, suddiviso in cinque scene, è un modello di proporzione e di perfezione: simmetricamente aperto e chiuso dalle forme in sé compiute di un duetto e di un quartetto, esso culmina in una scena in tutto degna del piú fantastico, geniale Prokof’ev. Mendoza ha condotto nel suo appartamento Antonio per fargli incontrare la bella Clara d’Almanza, che si dichiara di lui innamorata; costei altri non è se non Luisa, travestita, come sappiamo, da Clara. Il giovane, che non sa del travestimento e non vorrebbe tradire l’amico Ferdinando, seppur riluttante accetta di appartarsi con lei. Ed è a questo punto che inizia la bizzarra scena centrale, momento di grande teatro, visionario e quasi surreale: Mendoza e Don Carlo spiano dal buco della serratura gli approcci amorosi dei due, commentandoli a mezza voce con stupefatte interiezioni, magistralmente contrappuntate da una musica che par quasi voler rappresentare ciò che accade dietro la scena. L’innegabile comicità del momento è circondata da un velo di ineffabile mistero. Mendoza, evidentemente eccitato, accoglie il felice ritorno dei due innamorati dalla stanza manifestando a sua volta con risolutezza i propri propositi amorosi: anch’egli saprà farsi valere, conquistando la sua bella grazie a un rapimento pronubo di indicibili delizie. E’ il tramonto. Il lirismo un po’ affettato del maturo sognatore si depura a poco a poco nel quartetto, che ricapitola i sentimenti in gioco come in un concertato classico: Luisa e Antonio felici del loro amore, Mendoza lieto del suo successo, Don Carlo dolcemente nostalgico della giovinezza.

Il quadro seguente, secondo dell’atto e sesto dell’opera, è racchiuso omogeneamente nella forma musicale di un minuetto, alla cui concertazione stanno attendendo Don Gerolamo con un amico e un servo. E’ un minuetto invero assai curioso, pomposo e sfigurato, trascritto per un organico insolito: clarinetto (strumento del quale Don Gerolamo si vanta gran virtuoso), cornetta e grancassa. La stranita comicità della scena sta tutta nel contrasto fra la gioconda serietà della prova diretta da Don Gerolamo e le importune interruzioni provocate dall’arrivo delle patetiche lettere di Mendoza e Luisa, pentiti e in ansia per i possibili effetti dei loro atti imprudenti. Don Gerolamo, il quale impaziente com’è di terminare la concertazione del pezzo da lui scelto per le nozze imminenti non si rende conto dell’equivoco, risponde accordando salomonicamente a tutti il suo perdono. Il settimo quadro ricalca invece moduli più convenzionali: da un lato la disperazione di Clara, giunta al convento per farsi monaca, dall’altro l’ira di Ferdinando, che si crede tradito dall’amata e dall’amico. Anche qui predominano le forme chiuse e in modo particolare le effusioni liriche (il fluente duetto dei sopraggiunti Antonio e Luisa, musicalmente ripreso da quello del primo atto; il grande arioso di Clara, innalzata suo malgrado al rango di eroina tragica da melodramma), inframmezzate da episodi piú discorsivi e movimentati (l’impetuosa gelosia di Ferdinando, deciso a farsi giustizia in duello).

Il quarto e ultimo atto scioglie gli imbrogli della vicenda, rimettendo le cose al loro posto: i giovani si uniranno secondo i loro desideri, Ferdinando con Clara, Antonio con Luisa, mentre Mendoza finirà per scoprire troppo tardi la beffa e ritrovarsi scornato e maritato con la vecchia «dueña». Lo stesso Don Gerolamo, facendo buon viso a cattivo giuoco, accetterà il fatto compiuto, piú che altro preoccupato di far bella figura alla festa di nozze con il suo minuetto. Un’ombra di bonaria comprensione fa capolino in questo disincantato abbandono al gioioso meccanismo a incastri della favola, dove «tutto ha lieto fine», come cantano in coro, fra balli e il sonante tintinnare dei bicchieri, i partecipanti alla sfarzosa festa finale. E comprensione umana, assai piú che vera e propria denuncia morale, si ritrova anche nella caricaturale messinscena del penultimo quadro al convento, pagina intrisa di echi musorgskiani, di melodie e ritmi della piú autentica tradizione russa: nell’allegro brindisi dei monaci in onore della bellezza delle suore di Santa Caterina, nello strascicato salmo penitenziale da questi recitato controvoglia (contrappunto vigoroso nel quadro d’insieme), nel comico prestarsi all’inganno, essi stessi ingannati piú che ingannatori, nelle ridicole chiose moraleggianti che gravemente essi aggiungono, dopo esser stati corrotti a suon di ducati, per sancire le «fortunate unioni». In queste scene conclusive la piena della musica scorre inarrestabile, come in una pirotecnica girandola finale che raggiunge l’acme durante il banchetto, allorché si ripresentano, a mo’ di ricapitolazione, i motivi piú importanti dell’opera, con il minuetto, ora sorpreso mentre risuona fuori scena, in testa. La capacità inventiva e le formidabili doti dell’orchestratore, qui proluse a piene mani, ci abbagliano, lasciandoci storditi; senza però farci dimenticare l’equilibrio di un magistero compositivo in grado di spaziare all’interno del linguaggio musicale piú eclettico con stile inconfondibile.

In una nota scritta per il «Sovinform bureau» il 26 marzo 1943, Prokof’ev ebbe a dichiarare: «Quando decisi di comporre un’opera sul soggetto della Duenna avevo dinanzi a me due possibili strade: sottolineare il lato comico dell’opera oppure quello lirico. llo scelto la seconda soluzione». In realtà già nell’intestazione i due caratteri coesistono: liatrimonio al convento è infatti un’opera comico-lirica. Nessun dubbio che l’aspetto lirico sia preminente, per quanto il lirismo di Prokof’ev, fatta eccezione per alcuni momenti di aperta contabilità, sia piuttosto un ininterrotto susseguirsi di brevi idee melodiche che sorreggono il corso dinamico dell’azione. Ma il lato comico è anch’esso presente in modo marcato nella partitura, e non soltanto come sviluppo della comicità intrinseca al soggetto. Abbondano infatti le sottolineature comiche, gli spunti grotteschi e caricaturali, tanto piú efficaci in quanto presi di sfuggita, con distacco e ironia appena accennata, mai insistita. Il secondo quadro del terzo atto (la movimentata scena del minuetto in casa di Don Gerolamo) ne offre un mirabile esempio, con il suo scintillante intrecciarsi di effetti contrastanti di comicità e lirismo. L’una e l’altro, nei momenti migliori dell’opera, sono brillantemente fusi in uno stile musicale di conversazione scorrevole e brioso, elegante e rifinito, che si giova del continuo alternarsi di brevi parti parlate, di recitativi e declamati con sezioni chiuse melodicamente espanse, perlopiú caratterizzate da ampi, tensivi intervalli. La vivacità ritmica, che scandisce il dipanarsi dell’azione, è un altro degli elementi basilari della costruzione musicale. Senza indulgere a quegli eccessi «motorii», «urbanistici», quasi meccanicistici che avevano talvolta sbalzato le sue creazioni soprattutto pianistiche e sinfoniche, Prokof’ev elabora qui un ritmo interno alla musica, un sostegno vitale per la sua impalcatura, elastico e intimamente aderente alle figure melodiche che si ergono a definire una scena, un personaggio, una situazione: così facendo riduce a unità la stessa multiforme varietà degli elementi compositivi. Armonicamente siamo nei limiti di una moderata modernità. Spesso intere scene ruotano attorno a un’unica sfera tonale, esaurendone l’ambito senza rinunciare ad affermare con chiare cadenze la tonalità d’impianto: per poi passare, nel modo piú naturale richiesto dalle esigenze sceniche, ad altre regioni tonali. Gli stessi bruschi scarti armonici, ove si verifichino, come pure la maggiore incidenza del cromatismo o delle parentesi modali di matrice russa, sono giustificati dalla situazione teatrale, ma non da essa predeterminati: la realizzazione sonora, per la quale è essenziale la scelta dell’impasto strumentale, è sempre il prodotto di una trovata, al fine di illustrare e precisare quel dato snodo dell’azione o quello stato d’animo del personaggio. Componendo Matrimonio al convento, Prokof’ev mostrò di credere ancora nelle possibilità espressive di un linguaggio che, pur ampliato e liberamente ricreato, manteneva solide basi nella tradizione. E di questa cercò di recuperare e rinnovare gli elementi fondamentali in prospettiva novecentesca, Istruttivamente questa operazione, il cui risultato non fu l’eterogeneità stilistica ma la personale reinvenzione di strutture significanti, trovò lo spazio vitale per esplicarsi proprio nell’opera lirica: non nelle sue convenzioni, argutamente, all’occorrenza, citate; non nelle sue forme storiche, dal melodramma al dramma musicale bensì nella fedeltà all’essenza del teatro musicale, alle sue leggi non scritte, al delicato equilibrio dei suoi fattori, in funzione della misura e dell’economia dell’organismo vivente ricreato con tutti i mezzi che l’esperienza contemporanea metteva a disposizione del musici sta. Da questo punto di vista Matrimonio al convento è, nella produzione di Prokof’ev, una vetta che si staglia leggera e compatta in alto e che ben rappresenta, allo stadio piú maturo, un aspetto caratteristico della sua personalità, ovvero quel lato tendente a ricomporre fantasticamente in bella, superiore unità, con fervente ottimismo, le tremende lacerazioni esistenziali e artistiche che la sua epoca neppure a lui aveva risparmiate.

Gianandrea Agnoletto / Orchestra e Coro del Teatro Regio
Teatro Regio di Torino, Stagione d’Opera 2003-2004

Articoli