Suonare per capriccio

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Dalla irresistibile ascesa come solista alla nuova vita da camerista. Martha Argerich è una cometa dalla traiettoria imprevedibile. Ed eccentrica. Così come scapricciato e istintivo è il suo tocco sulla tastiera. Una dote naturale, che non si può pretendere. Anche quando dà improvvisamente forfait

Folgorante. Non esiste altro aggettivo che definisca meglio gli inizi della carriera di Martha Argerich, una delle figure più affascinanti e ineffabili salite alla ribalta nel gran circo della musica. Vincitrice a sedici anni del concorso di Ginevra e del Busoni di Bolzano, a ventiquattro del leggendario Chopin di Varsavia. Balzata giovanissima nell’arena del concertismo internazionale, da dominatrice capace di suscitare entusiasmi proverbiali. Eppure questa carriera, dopo i trionfi iniziali, si è venuta sviluppando per successive sospensioni e intermittenze. Conseguenza, le une e le altre, non soltanto di un’idea della musica che evidentemente non si esauriva nei clamori del successo, ma anche di una concezione della vita che reclamava i suoi spazi e le sue libertà. La ragazza partita dall’Argentina alla conquista del mondo e rimasta sempre un po’ una fanciulla senza briglie entrò in crisi con se stessa e con la vita. “”Amo suonare il pianoforte. Ma non mi piace essere una pianista. Davvero non voglio esserlo, anche se è la sola cosa che più o meno so fare””: così illuminò le sue contraddizioni. L’equilibrio parve spezzarsi per richiedere più avanzate determinazioni. Argerich, un nome che da solo riempiva le sale di tutto il mondo, dominava il mercato discografico e il jet-set della pubblicità, scomparve a poco a poco senza essere mai del tutto dimenticata, per riapparire poi in una nuova veste, quasi con umiltà e discrezione: frutto non di un calcolo, ma di un’intima necessità. La decisione di rinunciare a esibirsi da solista (contraddizione in termini per un pianista) non fu mai annunciata, avvenne di fatto. Non più recital da sola con gli autori che l’avevano resa famosa (Chopin, Schumann, Prokof’ev e Ravel su tutti), ma presenze limitate alla musica da camera, ai concerti con orchestra, e sempre ed esclusivamente con partner con i quali si fosse instaurato, se non un connubio nella vita privata, almeno una stretta consonanza personale.
Quello di una pianista che non suona più da sola in recital da tempo immemorabile e che continua tuttavia a essere un mito è un caso alquanto singolare. Confessò una volta candidamente: “”Ho un grande bisogno di compagnia quando sono sul palcoscenico. Suonare da sola mi fa sentire isolata, esclusa, ed è una sensazione dura da sopportare. Forse dipende dal fatto che a Buenos Aires da bambina non sono mai andata a scuola con gli altri, mi esercitavo da sola per ore e ore, senza giocare con i miei coetanei. E di questo ho sofferto molto nell’infanzia. Fare musica con altri mi risarcisce di queste mancanze, mi dà un piacere speciale””. Quello di Martha (così la chiaman tutti) è un fascino incomparabile, di donna e artista al tempo stesso. Tutto quello che è stato costruito intorno al suo personaggio pare non riguardarla, o non interessarle affatto. Per esempio la fama di essere un’artista che non sai mai se suonerà, una specie di detentrice dei record delle cancellazioni e delle rinunce all’ultimo minuto, come il suo grande maestro Arturo Benedetti Michelangeli. Bizzarria o che altro? Ma anche di questo Martha non sembra rendersi conto, e lo fa capire con il talento della semplicità. In realtà non è così semplice. Il mito non sarebbe tale se non sottintendesse qualche mistero, di quelli che invitano a riflettere. Martha è un personaggio complesso, una sorta di scatola cinese che a ogni apertura rivela una sorpresa: apparentemente forte, energica, tutta d’un pezzo, nasconde timidezze, insicurezze, fragilità e nevrosi che la rendono inesplicabile. Un misto di leggerezza e di gravità insondabile, di per sé molto attraente.
Si direbbe dunque che la Argerich rifugga l’isolamento e la solitudine che sovente attanagliano il grande concertista e non senta il richiamo smisurato dell’ego che altrettanto spesso ne nutre le ambizioni. Eppure si conoscono pochi artisti che abbiano la sua personalità, il suo temperamento, il suo carisma: un insieme di brillantezza, comunicativa, eleganza, senso poetico, profondità, umorismo, freschezza, magnetismo, genialità. E, trasferite nelle misure dell’arte, civetteria e femminilità in grado supremo, unite a una bellezza fulminante, zingaresca e selvaggia, miracolosamente rimasta intatta con il passare degli anni (62 da poco compiuti, e tranquillamente dichiarati). Questa donna vulcanica e mercuriale che sembra nata per farsi adorare disse una volta schiettamente: “”La mia vita è sempre stata un casino, credo di non essere nata per l’amore. Ogni volta che ti danno il caviale, ti tolgono il pane””. Sentimentalmente, le sue relazioni burrascose si sono sempre intrecciate con le vicende della vita artistica, ma sono rimaste un “”a parte”” avvolto in un alone di intimità impalpabile e riservata. E talvolta ti par di scorgere un filo di amarezza, di fatalismo nella fierezza di un essere in fondo fragile e indifeso. In questo inquieto manifestarsi del talento appeso a un filo e minacciato dal disordine intravedi una strana voglia di normalità. Ama circondarsi di giovani. Il numero di pianisti che chiedono di studiare con lei è ovviamente altissimo, e lei non sa dire di no. Ma neppure attorno a questa corte di ammiratori estasiati che la chiamano per nome e che sembrano pendere dalle sue labbra per carpire un segreto v’è traccia di affettazione: tutto avviene con naturalezza, e in mezzo a una buona dose di improvvisazione e di confusione.
Per Martha Argerich si sono usati gli epiteti più diversi: inafferrabile, indomabile, inaccessibile, impenetrabile, capricciosa, impossibile. Mai però una volta che qualcuno li abbia caricati di significati negativi: comunque si comporti, la señora resta sempre capita e amata, dal pubblico e dagli organizzatori. Se la Argerich annulla un concerto, è grave, ma per così dire giustificato. Non v’è ombra di premeditazione quando succede, è nella natura imperscrutabile delle cose. E non conta che in ballo ci siano cachet favolosi e sale esaurite da mesi. Anche perché può accadere esattamente il contrario, ossia che accetti di programmare un concerto a poche settimane di distanza se ci sono le condizioni giuste e un amico, o un gruppo di amici, da aiutare o accontentare; in tal caso può suonare anche per compensi puramente simbolici, e nei luoghi più defilati: come ultimamente a Lugano, dove è nato un progetto legato al suo nome, con e per i giovani. Su tutto prevale il piacere di fare musica insieme, un’idea di felice complicità. Martha Argerich è lontanissima dal modello del pianista intellettuale; è semmai un caso sensazionale di emotività trascesa in consapevolezza intuitiva: c’è in tutti i suoi atti un ragionamento d’affetti che non è affidato alla casualità. E questo si percepisce anche quando suona, collegando fantasticamente il frammento alla totalità.
Cogliere il punto centrale di questo mistero significa forse capire il fenomeno Martha Argerich. La bellezza che si sprigiona dalla sua figura, la tecnica favolosa di cui è in possesso, la spontaneità del suo fare musica, ispirato e scapricciato, sono soltanto la superficie di un’anima che non mette in mostra queste doti per farsene bella, ma le indirizza verso un senso poetico di interiorità intimamente vissuta. Se compito dell’arte è porre domande senza dare risposte definitive, Martha fornisce risposte ad altre domande, all’infinito, determinando però quel momento magico nel quale sentiamo che una risposta esiste ed è bellissimo sentirsela dare compiutamente. Di questo paradosso Martha Argerich è la dimostrazione vivente. Un’incarnazione della metafora artistica dell'””eterno femminino”” che goethianamente trae verso l’alto, o più semplicemente la pianista predestinata che non volle farsi regina, per rimanere una donna normale, ma non qualsiasi.

Schumann tra amici

Schumann è uno degli autori che meglio si adattano al talento di  Martha Argerich. Il tipico phantasieren romantico di questo autore nelle sue diverse espressioni trova in lei un’interprete congeniale per estro, slancio, sensibilità alle sfumature, varietà di attacco del suono: un suono sempre splendente, ma al tempo stesso quando occorre ombroso e introverso. Se ne ha dimostrazione in queste registrazioni, tutte effettuate dal vivo e dunque capaci di riprodurre quella immediatezza e quella naturalezza che contraddistinguono il pianismo della Argerich. I partner sono tutti musicisti abituati a collaborare con lei da lungo tempo, con i quali l’affiatamento è perfetto e i risultati non meno che straordinari. In prima fila va posto il Quintetto con pianoforte op. 44, uno dei cavalli di battaglia della Argerich, che sembra guidarne lo sviluppo con il piglio di un direttore d’orchestra. Il pianoforte rimane però sempre nel giusto rilievo, in un’idea di musica da camera che è fatta di scambi continui di idee e proposte, di dialogo fitto e drammatico, di distensioni liriche che esaltano il lato più intimo e delicato della poetica schumanniana. Si ascolti il brio scattante, fulminante, dell’attacco dell’Allegro brillante iniziale, la meravigliosa atmosfera di notturno incanto, con striature tragiche, del secondo movimento “”In modo di una marcia””, reso quasi con intonazione funebre ma non disperata, la vivacità dello Scherzo, la baldanza del Finale. Il tutto concorre a fare di questa incisione una delle vette nella resa esecutivo-strumentale e poetica di questo pezzo.
Non meno a suo agio la Argerich si trova negli altri brani, che pur non raggiungendo l’altezza del Quintetto sono ognuna pagine di spiccato valore. La qualità principale della Argerich come musicista da camera sta nell’intuito con cui sa cogliere l’equilibrio sonoro tra il suo e gli altri strumenti, nella capacità di ascoltare quello che gli altri stanno facendo e di sintonizzarvisi senza perdere nulla della sua splendida autonomia. Riconosciamo la presenza svettante della Argerich in ogni inciso, ma al tempo stesso la sentiamo mettersi al servizio di un’idea superiore del fare musica insieme che è anche discrezione e rinuncia al protagonismo a tutti i costi. Naturalmente l’eccellenza dei suoi collaboratori, soprattutto l’irruente foga strumentale del violoncellista Mischa Maisky, aiuta a trovare la giusta rispondenza tra l’effervescente fantasia della pianista e il resto della compagine, comunicando un calore e una gioia di suonare che vengono addirittura prima dei pur rilevanti esiti sul piano strettamente interpretativo. Quel che ne risulta globalmente è uno Schumann restituito in tutte le sue sfaccettature, dal più profondo anelito all’infinito ai ripiegamenti in una sorta di pace interiore che può assumere anche i tratti di una consolazione e di una fuga nell’idillio borghese. E queste esecuzioni divengono così non soltanto una felice occasione per un ascolto di per sé eloquente ma anche una lezione di stile e di comprensione.
                              
 

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