Mozart e la scoperta del teatro
Idomeneo, opera sublime in cui regnano una profusione di idee e una potenza di emozioni che non si potevano attendere che dalla forza giovanile di un musicista del suo rango.
(Franz Niemetscheck, Mozart, Praga 1798)
Per comprendere Idomeneo, opera ineguale ma contenente alcune delle pagine musicalmente più ricche di tutto Mozart, bisogna anzitutto riferirsi all’epoca in cui esso venne composto. Mozart da tempo sognava di comporre musica per una grande opera seria e sentiva come un ostacolo insormontabile al suo pieno sviluppo la permanenza nella natia Salisburgo, città dalle prospettive anguste nella quale i compiti e i ruoli che gli venivano via via assegnati gli andavano ormai stretti. Si sentiva predestinato al cimento teatrale, pronto al confronto con la tradizione italiana, francese e soprattutto gluckiana che tanto ammirava; ma per comporre un’opera come lui l’intendeva occorreva che si presentasse un’occasione al di fuori di Salisburgo. E l’occasione, prestigiosissima, si realizzò nell’estate del 1780 quando gli giunse attraverso il conte Seeau, intendente teatrale del Principe Elettore Karl Theodor, la commissione di un lavoro per il Carnevale di Monaco dell’anno successivo. Monaco dunque, una capitale della musica che poteva vantare una storia illustre, che nel Nuovo Teatro di Corte disponeva di un luogo celebrato da molti successi nel campo dell’opera italiana, che gli avrebbe messo a disposizione un’orchestra favolosa – la famosa “”compagine di Mannheim”” diretta da Christian Cannabich, trasferita a Monaco in blocco – e una compagnia di canto non meno all’altezza. C’erano quindi tutte le premesse perché il sogno di Mozart finalmente si avverasse e prosperasse nelle migliori condizioni.
Il libretto, su un soggetto suggerito dal Principe stesso e già trattato in precedenza dal francese Antoine Danchet a Parigi nel 1712 per la musica di André Campra, fu affidato all’abate Gianbattista Varesco, cappellano di corte dell’arcivescovo di Salisburgo e poeta accademico poco esperto di teatro nonché incline a una certa magniloquenza. Vi si narravano vicende successive alla guerra di Troia. Idomeneo, re di Creta, durante il viaggio di ritorno è assalito in mare da una violenta tempesta. Il pericolo è mortale e Idomeneo, per aver salva la vita, offre in sacrificio a Nettuno, dio del mare, la prima persona che incontrerà giungendo sull’isola. Sbarcato a Creta, Idomeneo incontra per primo il proprio figlio Idamante. Lacerato dal conflitto fra la promessa al dio e il sacrificio del proprio figlio, il re sceglie di non adempiere al voto. Nettuno, offeso dal tradimento, invia sull’isola un terrificante mostro marino, portatore di morte e distruzione. Quando Idomeneo confessa l’atroce segreto, Idamante, che nel frattempo ha sconfitto il mostro, si offre spontaneamente quale vittima; a sua volta Ilia, figlia di Priamo, prigioniera di guerra e innamorata di Idamante, si offre in olocausto a Nettuno. La prova d’amore commuove il dio che impone a Idomeneo di abdicare in favore del figlio, che regnerà su Creta accanto alla sposa Ilia.
Il librettista di Mozart, oltre a tradurre il testo in italiano, sfrondò il numero dei personaggi, portò a tre i cinque atti della tragedia e soprattutto modificò il finale, che nell’originale si concludeva con la morte di Idamante. Il nucleo della vicenda rimase sì lo strazio di Idomeneo, costretto a tener fede al suo voto insano, ma alla storia mitologica si affiancarono umanissime e toccanti storie di affetti incrociati: l’amore della prigioniera Ilia per Idamante, figlio di Idomeneo, e la rivalità con la vendicativa Elettra, anch’ella innamorata di Idamante. Nonostante il modello della tragédie lyrique francese e la presenza di danze, marce guerriere e grandi cori, Varesco si attenne ai principi dell’opera italiana metastasiana, fondata sull’alternanza di recitativi e arie, ridusse considerevolmente lo sfondo mitologico-allegorico del dramma, impoverendone i risvolti fiabeschi, e dettò una conclusione di carattere celebrativo imperniata sul lieto fine: in altri termini, si mosse seguendo una strada convenzionale, ricorrendo ampiamente all’emporio melodrammatico tradizionale. Non era esattamente quello che Mozart, genio paziente e assai più avanti di lui nella concezione dell’opera, desiderava; ma il compositore sapeva che la musica avrebbe potuto correggere gli squilibri drammatici e le rigidezze del testo in favore di una maggiore omogeneità.
Insomma, toccava a lui intervenire per correggere le imperfezioni e riscrivere la storia.
La gestazione dell’Idomeneo si rivelò comunque alquanto complessa e sofferta. Alla riottosità del librettista nell’apportare al testo le continue modifiche desiderate da Mozart si aggiunsero le difficoltà create dai cantanti, tiranni tanto illustri quanto capricciosi nell’opera settecentesca. Se la primadonna Dorothea Wendling e la cognata Elisabeth Wendling, ottime voci e care amiche dei tempi di Mannheim, si dimostrarono subito pronte a recepire rispettivamente le delicatezze introspettive riservate al personaggio di Ilia e l’intensa passionalità di Elettra, Vincenzo dal Prato (Idamante) possedeva una voce di castrato ormai logora, usurata da mille battaglie e di scuola ormai sorpassata (forse anche in seguito a questa esperienza Mozart pensò di affidare nella ripresa dell’opera a Vienna del 1786 la parte a un tenore), mentre l’anziano Anton Raaff (il tenore tedesco protagonista quale Idomeneo, sessantasei anni compiuti) era un divo in declino, legato a una routine di vecchio stampo, suscettibile e vanitoso al punto da pretendere dal compositore un trattamento di riguardo per le sue arie e i suoi interventi nei concertati. Mozart incontrò insospettate difficoltà soprattutto nella stesura del terzo atto (“”La mia testa e le mie mani sono così piene del terzo atto che non mi meraviglierei se mi trasformassi io stesso in un terzo atto!””, 3 gennaio 1781) e ancor più nel famosissimo quartetto “”Andrò ramingo e solo””, uno dei più bei quadri d’insieme mai composti per il palcoscenico. “”Col quartetto ho avuto delle seccature – scriveva al padre Leopold il 27 dicembre 1780 -. E’ piaciuto a tutti quelli che l’hanno sentito al pianoforte; soltanto Raaff è del parere che non sarà d’alcun effetto. Ha detto: ‘Non c’è da spianar la voce, lo sento troppo stretto’ . Come se in un quartetto le parole non dovessero essere molto più pronunciate che cantate. Tal genere di cose lui non le comprende affatto. Allora gli ho risposto: `Carissimo! Se fossi convinto che in questo quartetto vi è una sola nota da cambiare, lo farei subito. Solo che di nessun altro momento dell’opera sono soddisfatto come di questo brano; e quando l’avrete sentito cantare una sola volta in concerto parlerete diversamente. Mi sono dato tutta la pena possibile per servirvi a dovere con le vostre due arie: lo stesso farò per la terza, e spero di riuscirci. Ma quando si parla di terzetti e quartetti, il compositore deve avere la mano libera””.
Mozart aveva iniziato a comporre l’Idomeneo in ottobre a Salisburgo e lo condusse a termine a Monaco, dove era giunto il 5 novembre (1780) per poterlo completare a contatto dei cantanti e dell’orchestra. Questa circostanza fece sì che egli intrattenesse un fitto epistolario con il padre, incaricato, data la sua diplomazia, di tenere i rapporti con il librettista di stanza a Salisburgo. Da questo carteggio è possibile seguire passo dopo passo la nascita dell’opera: è un viaggio affascinante e completo nella vulcanica officina del compositore, che ci ragguaglia su minimi fatti quotidiani, sui progressi della gestazione teatrale, sui comportamenti dei cantanti, fino a pregnanti riflessioni di estetica teatrale; il tutto tenuto sempre sul filo dell’ironia scherzosa e di una pensosa, concentrata serietà. Mozart riservò estrema attenzione all’impianto drammaturgico generale più che agli episodi isolati, ribadendo più volte la necessità di operare tagli nella partitura a vantaggio di un’economia superiore, anche in presenza di pezzi singolarmente belli. Un significativo esempio è nella lettera del 18 gennaio 1791: “”La prova del terzo atto si è svolta in modo splendido. Dicono che sia decisamente superiore ai primi due atti. Ma il libretto è troppo lungo, e di conseguenza anche la musica, come non ho mai smesso di ripetere; cosicché occorre tagliare l’aria di Idamante “”No, la morte io non pavento””: in ogni caso qui è fuori di posto. Chi ha ascoltato l’opera è dispiaciuto di questa soppressione e dell’eliminazione dell’ultima aria di Raaff. Ma occorre fare di necessità virtù””. Folgorante il paragone, che dimostra quanto Mozart guardasse agli esempi sommi del teatro di prosa per trarre insegnamento dalla forza delle parole: “”Se, in Amleto, il discorso dello spettro non fosse così lungo, l’effetto non potrebbe che essere migliore””.
Dopo numerosi rinvii e ritardi, il dramma per musica Idomeneo andò in scena il 29 gennaio 1781 al Residenztheater di Monaco ottenendo un buon successo. Oltre che all’Elettore, presente la sera del debutto, quest’opera così “”nuova e insolita”” piacque enormemente agli intenditori e ai musicisti, ma non conquistò emotivamente il grande pubblico dei profani, abituato a ben altre esibizioni (lo spettacolo, le cui scene erano opera del celebre architetto teatrale Lorenzo Quaglio, fu invece unanimemente apprezzato). Benché si dichiarasse non del tutto soddisfatto del risultato raggiunto a causa della ambiguità di fondo (avrebbe preferito che l’opera fosse impostata alla maniera francese, nello spirito dei modelli di Gluck), Mozart aveva osato molto e ne era pienamente consapevole. Seppure costrette nelle regole dell’opera seria tradizionale, le novità drammaturgiche e musicali erano tante e sotto molti aspetti rivoluzionarie. Anzitutto Mozart dette un rilievo straordinario agli strumenti a fiato, facendo dell’orchestra nel suo complesso l’elemento più importante della trama compositiva, sia negli accompagnamenti delle parti cantate sia in quelle non cantate: ne è esempio la grandiosa e patetica Ouverture in re maggiore, che si dissolve senza soluzione di continuità nella prima scena dell’opera. In secondo luogo trasformò i recitativi accompagnati in un vero, ininterrotto dialogo tra voci e strumenti, conferendo all’azione una tensione montante nel segno della continuità e sfociante in poderosi insiemi sovente sorretti dal coro, cui venne attribuita una forza speciale, penetrante. Soprattutto però riuscì a corredare un testo sfilacciato di una musica densa, luminosa, ricca, esuberante nell’invenzione e nell’espressione, la cui ambizione estetica andava ben al di là del consueto commento musicale a un soggetto celebrativo. Nonostante la sua non perfetta riuscita come progetto globale di teatro, non almeno al livello delle successive opere su libretti di Da Ponte, Idomeneo presenta puntate ardite, cime sfolgoranti di compiuta e assoluta bellezza, apici quali non sarebbero mai stati più toccati neppure dal più grande drammaturgo musicale che la storia abbia avuto prima di Wagner.
Ciò si può spiegare proprio con il posto occupato da Idomeneo nella sua carriera. Non per nulla Mozart non smise mai di amare quest’opera, che lo toccava anche sul piano personale. Aveva venticinque anni quando la compose ed essa significò per lui la prima, vera scoperta del grande teatro, del teatro inteso non soltanto come confronto con una fulgida, doviziosa tradizione ma anche come luogo di identificazione, di vita e di verità. Ed era stata la convinzione di potersi esprimere nel modo più compiuto proprio in questo ambito a spingerlo ineluttabilmente, quasi ossessivamente verso il teatro. Naturalmente non era la prima volta che scriveva un’opera seria: aveva già dato prova di sé nell’opera seria attraverso Lucio Silla e Il re pastore. Era però la prima volta che si trovava di fronte alla commissione di un grande teatro, a una grande orchestra e a cantanti di grido, di cui avrebbe presto imparato a riconoscere croci e delizie. Ed era la prima volta che si sentiva maturo per uscire dal suo guscio e pensare, creare finalmente in grande. Inevitabile che questa prova del fuoco avvenisse sotto il segno del rapporto problematico di acerbità-maturità, fase che poi Mozart avrebbe superato nella felicità della forma perfetta; essa era però anche nutrita da tutto l’entusiasmo, la vitalità, la determinazione, la spregiudicatezza, l’euforia tipiche della prima volta, quella nella quale, pur fra molti dubbi e autocritiche, si viene spalancando un mondo di sogno, a lungo desiderato e vagheggiato, per diventare realtà.
Di questi caratteri la partitura di Idomeneo è letteralmente intrisa e come tale va ascoltata in prospettiva.
Alla notevole varietà di elementi stilistici offerti dal testo e messi dalla musica in fertile contrasto, senza che ciò producesse buchi o fratture, si venne aggiungendo un altro tratto del tutto nuovo e personale, destinato a divenire il cardine del futuro teatro di Mozart: il realismo psicologico che investe non soltanto i singoli personaggi ma anche l’ordito generale della composizione. Si è già detto che il musicista superò gli ostacoli frapposti dalle convenzioni del genere metastasiano esigendo con naturalezza continuità e compattezza nella rappresentazione del dramma: continuità e compattezza non soltanto tra un pezzo e l’altro, e massimamente negli insiemi culminanti del terzetto del secondo atto e del già ricordato quartetto del terzo, nonché nei cori ora drammatici ora sospensivi, ma anche all’interno di una singola scena, facendo ampio ricorso al recitativo accompagnato e allo stile concertante per non interrompere l’azione. Di ciò beneficiarono in larga misura anche le arie, concepite in modo da stabilire uno stretto rapporto tra personaggio e situazione: di fatto, quello viene definito da questa. Ne è un esempio l’aria centrale di Idomeneo “”Fuor del mar ho un mar in seno””; nella quale il re vincolato a un terribile giuramento paragona il tumulto del proprio animo a quello di una violenta tempesta marina: dove la scrittura riesce a fissare mirabilmente, nelle catene di vocalizzi, l’immagine della burrasca come metafora del lacerante conflitto scatenatosi nell’animo del protagonista.
Altro elemento distintivo della partitura è la differenziazione dei personaggi, cui corrisponde una differenziazione di stili vocali e di atteggiamenti musicali. La regalità solenne, sofferta e malinconica di Idomeneo contrasta con la dolorosa solitudine di Idamante, la vittima sacrificale pronta ad affrontare nobilmente il proprio destino e animata da una impaziente, trepida e tuttavia dolce generosità. Austero e severo è il canto tenorile del confidente del re Arbace, modellato sullo stile dell’opera seria. Ma è soprattutto nei personaggi femminili che Mozart eccelle in finezza psicologica e plasticità di rappresentazione. La tenera Ilia, che per prima si presenta in scena con una commovente aria in sol minore, è forse il personaggio più riuscito dell’opera, certamente quello più amato e rifinito. Le sue arie, specialmente la mirabile “”Se il padre perdei”” nel secondo atto e l’affettuosa “”Zeffiretti lusinghieri”” all’inizio del terzo, si caratterizzano per un candore nostalgico che non esclude, tuttavia, forti sentimenti ricchi di implicazioni espressive e di valenze psicologiche: un’energia morale temprata dalle dure prove sopportate si intreccia nella declamazione e nella melodia, nel cangiare dei timbri, ai fremiti innocenti e passionali della fanciulla innamorata e pronta al sacrificio della vita. All’estremo opposto la rabbia tagliente di Elettra, la rivale smaniosa, enunciata da una vocalità “”martellata””, frantumata e incandescente, scandita dall’orchestra con nervosa varietà dinamica e timbrica: antecedenti neppur troppo lontani, le sue arie, dei tremendi, ultimativi furori della Regina della Notte nel Flauto magico.
Idomeneo anticipa molti aspetti dei capolavori futuri ma rimane un unicum che non avrebbe avuto, nella sua ineguaglianza, eguali: non si può rivivere due volte la stessa esperienza, rifare la stessa scoperta. Traboccante di originalità e invenzione, sperimentale, audace, fremente di contrasti e di opposti affetti, questa partitura è scolpita come un bassorilievo palpitante di chiaroscuri, emblema insieme della classicità e di un’ambiguità di segno addirittura preromantico. Tutto è in essa di altissimo livello, persino nei fitti, eleganti numeri di danza, nati controvoglia per assecondare il gusto della corte e rivelatisi figli adulti e maturi, svezzati dalle danze francesi di Gluck. Ma è là dove il testo offriva la possibilità di accendere i fuochi della psicologia umana rispecchiando gli stati d’animo che l’invenzione del compositore letteralmente esplode, sontuosamente e magistralmente: tanto nelle arie quanto nei cori portentosi, mai scissi dal caldo dell’azione. A Mozart, dopo Idomeneo, non restava che organizzare e completare il suo genio, compiendo quel che restava da compiere: fondare l’opera nazionale tedesca e realizzare una nuova idea di teatro musicale basata sulla fusione dei generi, in grado di rappresentare fino in fondo la vita nella sua immediatezza, molteplicità e polivalenza.
Ola Rudner / Orchestra Haydn di Bolzano e Trento, Coro del Teatro Sociale di Trento
Teatro Sociale di Rovigo, 189a Stagione Lirica 2004-2005, Stagione del Centenario