Anton Bruckner – Sinfonia n. 9 in re minore

A

La Nona Sinfonia di Bruckner

 

La Nona è l’ultima Sinfonia composta da Anton Bruckner: neppure a lui, che per tutta la vita scrisse quasi soltanto Sinfonie, fu consentito di oltrepassare la soglia fatale del numero nove, colonna d’Ercole fissata dal titano Beethoven. Essa rimase per di più incompiuta, mancante cioè del quarto movimento, sicché di un vero e proprio torso si tratta: un torso non meno che sublimemente monumentale, ma privo appunto di una conclusione che ne certifichi la compiutezza. La questione è stata ampiamente dibattuta, e lo è tuttora. L’opera non venne portata a termine per una circostanza accidentale, ossia la sopravvenuta morte dell’autore, o rimase incompiuta perché dopo il terzo tempo, sorta di struggente congedo dal mondo, questa Sinfonia non poteva essere compiuta o era addirittura, similmente a un’altra celebre Incompiuta (la Sinfonia in si minore di Franz Schubert), già segretamente compiuta in questa forma? Neppure la cronologia ci aiuta a districare il mistero. Bruckner compose i primi tre tempi della Nona tra il 1891 e il 1894, su abbozzi risalenti al 1887. Abbozzi per il Finale, la cui consistenza è largamente lacunosa se non approssimativa, sono databili dal 1894 al 1896, anno della morte. Teoricamente, anche considerando la lentezza con cui Bruckner componeva, non sarebbe mancato il tempo per dare una conclusione alla Sinfonia, ed è certo che l’autore vi pensasse. Di fatto, non lo fece, o non visse abbastanza a lungo per farlo.

Non è l’unico mistero che aleggia su questa partitura di uno spirito tanto apparentemente limpido quanto non avaro di enigmi. Per esempio la dedica, insieme candida e fervida, che l’accompagna, “”Dem lieben Gott””, ‘Al buon Dio””, che segue dappresso quella dell’Ottava Sinfonia all’imperatore Francesco Giuseppe, suo ottimo protettore in vita. Forse che Bruckner pensava di consegnare questo frutto maturo della sua arte, soprattutto se sentito come estremo, al protettore celeste, da lui credente venerato, nel segno di una trascendenza ultraterrena? È la tesi sostenuta dal nostro maggiore studioso bruckneriano Sergio Martinotti, il quale, rilevando nell’opera lo statuto di grandezza – un’altezza di pensiero non meno che di tono – afferma che Bruckner “”avvertì che la Nona Sinfonia sarebbe stata la sua ultima: perciò, nel segno dei modelli di Beethoven e di Schubert, la volle grande, a coronamento di tutta la sua carriera musicale, ove la lentezza compositiva, accentuata dal declino fisico, e la dedizione esclusiva a questo lavoro, riflettono chiaramente quella volontà determinata””: come se il “”buon Dio”” fosse diventato ora l’unico, vero interlocutore a cui rivolgersi. Nell’altezza di pensiero si riconosce l’orgoglio di un musicista passato attraverso le vicende della vita con innocente ottimismo, quasi indifferente alla storia e al tempo, e con una forte componente di libertà. Su questa scia, ma da una prospettiva più laica, un altro studioso del nostro,

Quirino Principe, rileva nell’atemporalità che si manifesta sempre più nella musica bruckneriana il tratto principale e luminoso della Nona Sinfonia: ma forse, egli aggiunge, “”il senso di attesa, assolutamente ininterrotto dalla prima all’ultima nota di questo monumento sinfonico, non è soltanto il mondano elemento di una sorta di romanzo o di poema in musica, con i suoi profumi notturni, i suoi slanci quasi erotici ancorché di candidissimo erotismo; è anche l’attesa dell’altrove e quindi (per Bruckner non c’era dubbio) dell’aldilà, sicché l’ascesa della Nona, nei suoi colori e nelle sue linee verticali, verso l’azzurro cupo di un cielo notturno, è un’ascesa inumidita di rugiada mistico-romantica, molto affine ai distillati di Wackenroder, Tieck e Novalis. […] Al di sopra di tutto, un senso di calmo e vellutato ordine, di liscia tranquillità che fluisce in grandi superfici cerulee””. Anche questa ipotesi, assai affascinante, anela a una certezza, ma non la possiede.

Certo è invece che l’arco sotteso alla Sinfonia è anche concettualmente di massime proporzioni e ambizioni, nonché basato su un materiale tematico omogeneo. Partendo da questo tutto viene dilatato fino all’estenuazione, in una dimensione quasi illimitata, sì da creare un flusso ininterrotto, incalzante e travolgente, attraversato da lampi metafisici nei passaggi di raccordo tra tema e tema. Alcuni stilemi tipici del sinfonismo bruckneriano, nell’armonia, nei rapporti intervallari, nelle figurazioni ritmiche, sono immessi in un contesto come poche altre volte arioso e aerato: accordi in posizione lata, con prevalenza ora di pedali ora di armonie “”vuote””, intervalli amplissimi a connotare i motivi di testa dei vari temi, costrutti ora plastici ora fluttuanti di moduli binari e ternari alternati con incisi ritmici pregnanti, sfondi di archi in tremolo a suggerire un’ambientazione atmosferica d’attesa, pittorica e chiaroscurale. Proprio nascendo dallo sfondo del misterioso tremolo degli archi, vera cifra d’autore, il primo tema sembra farsi strada e costruirsi pazientemente per progressiva espansione, tra segnali minacciosi ma radiosi (lo squillo dei quattro corni che sale e scende per ampi intervalli), lunghi effetti di pedale armonico, improvvise impennate di dinamica potente, quasi tellurica. Il secondo tema cantabile degli archi si dipana tranquillo e sereno, sale in alto sino a convergere in arabeschi dei legni e del corno, riapparire nel conseguente innervato di sapienza contrappuntistica e di energia strumentale, per poi spegnersi e ritrovare forza nel prosieguo del movimento toccando l’apice nell’epifania dei corali (legni soli, ottoni soli) cui il discorso periodicamente insieme tende e da cui si distacca. Il primo tempo si sviluppa così senza fretta attraverso ardite avventure armoniche, con forti contrasti di atmosfere tonali e colpi di scena, tra ascese e cadute, pause generali, ondate tempestose, parentesi delicate, culmini interrotti e subito riavviati da capo, elaborando il dissimile fino a farlo diventare identità, e perorare nella coda in crescendo un’apoteosi.

Questo primo movimento è in re minore, tonalità non solo della Nona di Beethoven ma anche delle ultime opere di Bach e di Mozart, congiunte in un crisma di sacralità e di eternità: “”Solenne””, oltre che “”Misterioso””, sono infatti le indicazioni che l’accompagnano. Il secondo tempo, lo Scherzo vivace, si apre anch’esso con impianto di chiave in re minore, ma si sviluppa in modo sorprendente in fa diesis maggiore (la forma è elementare: Scherzo A-B-A; Trio di segno contrastante, leggero; Scherzo da Capo). Questo scarto tra tonalità – quasi un abisso separa il sarcastico “”attacco”” di oboi e clarinetti e l’estinguersi sinistro degli accordi ribattuti in ritmo ternario dagli archi – è basato sulle figure saltellanti in pizzicato degli archi e sui ritmi martellanti a piena orchestra del tema dello Scherzo, sorta di tragico Ländler demoniaco. Essi non sono vanificati, ma semplicemente trasfigurati, dal carattere danzante del Trio (in tempo “”Schnell””, “”Presto””, più veloce anziché più lento come nella tradizione), che costituisce un ponte di immagini fantasmagoriche sospeso verso il rude, massiccio spessore della figurazione iniziale scandita in crescendo, contornata da fruscianti disegni rotatori dei violini e da cupi squilli di ottoni. In un contesto di musica celestiale, questo secondo movimento rappresenta la descrizione o suggestione o evocazione, al limite del grottesco, dell’elemento infernale, che Bruckner sembra voler affrontare e contrastare nel momento stesso in cui lo rappresenta, come in un macabro esorcismo: il diavolo si manifesta qui come l’altra faccia del “”buon Dio””.

Del tutto attesa, ma al tempo stesso trascesa, è la struttura del terzo movimento, un solenne Adagio (“”Feierlich””) in mi maggiore che, per lunghezza e intensità, ha tutti i tratti di un commiato dalla vita in lenta dissolvenza. Esso si apre con un grandioso, marcato gesto affidato ai primi violini dell’orchestra, costruito su un ampio intervallo di nona minore ascendente: Principe vi ravvisa analogie con 1’incipit del preludio del Tristano diWagner e un’anticipazione di quello dell’Adagio finale di un’altra Nona Sinfonia, quella di Gustav Mahler, dove l’intervallo ascendente è però di un’ottava. Al di là di questi riferimenti, ciò che conta è il senso di ascesa – un vero e proprio salto di livello svettante verso l’alto – che questo ampio gesto comunica, introducendo il panorama ascetico e purificato in cui l’intero movimento si snoda. L’elemento paesaggistico, di un paesaggio celeste nel quale le cose terrene scompaiono alla vista, si intreccia con la disposizione d’animo di un monologo interiore, dilatato a dismisura tra insistite progressioni ma disposto concentricamente attorno al pensiero della morte. In questo viaggio solitario alla ricerca di una catarsi si alternano raggi di luce splendente (il tema in la bemolle maggiore che segue alla lentissima introduzione, intonato da primi e secondi violini all’unisono sul controcanto delle viole), momenti di rarefatto silenzio cosmico su radi timbri isolati, grandi sonorità organistiche, scoppi tellurici di visioni apocalittiche rese da armonie fortemente dissonanti e incarnate da gloriose e quasi deliranti fanfare di ottoni: simboli cui i Corali di sole tube conferiscono, con il loro carattere innodico, il significato di un appello inesorabile. Poi tutto si avvia pacatamente e struggentemente alla fine, riecheggiando molteplici memorie tematiche, dal conclusivo disegno dei violini che richiama il tema del Graal parsifaliano ai corni che da ultimo citano il tema iniziale in arpeggio della Settima Sinfonia.

La Nona non si sottrasse al destino di altre Sinfonie di Bruckner. Scomparso l’autore, l’amico Ferdinand Löwe rimaneggiò profondamente e molto arbitrariamente la partitura dei tre tempi e presentò la Nona nella propria versione a Vienna l’ 11 febbraio 1903. Dovevano passare quasi trent’anni prima che la versione originale della Nona fosse conosciuta al pubblico. Il 2 aprile 1932 Siegmund von Hausegger eseguì a Monaco contemporaneamente le due versioni, quella discutibilissima di Löwe e quella originale di Bruckner, affinché il pubblico ne rilevasse le differenze e giudicasse. Da quando l’attività della Internationale Bruckner-Gesellschaft costituitasi a Vienna ha fornito la nuova edizione critica degli opera omnia di Bruckner, nessun ostacolo si frappone più alla restituzione, ormai ovviamente consolidata nelle esecuzioni, della lezione originale, approntata per la Nona da Leopold Nowak nel 1951. Resta aperto il problema del Finale, per il quale la tradizione vuole che Anton Bruckner prima di morire raccomandasse che dovesse essere rimpiazzato dall’esecuzione del suo Te Deum in calce ai tre movimenti compiuti. In tempi più recenti musicologi e studiosi hanno provato a venire a capo di questo problema cercando di ricostruire integralmente il Finale sulla base degli schizzi rimasti. Il più accreditato di questi tentativi si deve a due italiani, Nicola Samale e Giuseppe Mazzuca, che nel 1986 presentarono in prima mondiale il loro lavoro, incontrando un certo favore, ma non tale da farlo entrare stabilmente nel repertorio. Si tratta, come si è detto, di una questione irrisolvibile. Ha dunque ragione Nikolaus Harnoncourt quando afferma che ciò che possiamo al massimo ottenere è di far conoscere al pubblico il Finale nella sua reale lacunosità di documento, com’egli stesso ha fatto dirigendo i Wiener Philharmoniker prima in una lezione-concerto a Salisburgo nel 2002 e poi in una recentissima, pregevolissima incisione discografica, senza pretendere di completarlo: ciò che manca non va semplicemente eseguito. È forse questo il destino ultimo di una Sinfonia che reca in sé enigmaticamente il carattere di un sublime torso e di un’opera in sé compiuta: la sua indecifrabilità è segno augusto, eterno della sua forza.

Fabio Luisi / Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia
Accademia Nazionale di Santa Cecilia – Stagione di musica sinfonica 2003-2004

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