Enciclopedia einaudi

E

Il Novecento. Dalla «generazione dell’80» a oggi

  1. Il primo novecento.

I.I. La funzione della «generazione dell’80».

All’aprirsi del Novecento, il panorama musicale italiano presenta una so-stanziale continuità con quello stabilito sul finire del secolo precedente con gli operisti della «Giovane scuola». Come epoca individuale della storia della musica il Novecento in Italia comincia di fatto un po’ piú tardi, con l’affacciarsi alla ribalta della cosiddetta «generazione dell’80»: un gruppo di musicisti accomunati non soltanto da una vicinanza anagrafica – in quanto nati attorno al 1880 – ma anche dal medesimo obiettivo di elevare la musica italiana sul piano culturale, rinnovarla e aprirla alla civiltà europea.

E’ indubbio che musicisti come Ottorino Respighi (1879-1936), Ildebrando Pizzetti (188o-1968), Gian Francesco Malipiero (1882-1973), Alfredo Casella (1883-1947) – e ad essi potremmo aggiungere critici quali Fausto Torrefranca e Giannotto Bastianelli, nati nell’83 – partissero da esigenze comuni, anche di natura generazionale, e intendessero affrontare una situazione di fondo nella quale erano compresi problemi non soltanto musicali ma anche in senso lato culturali. In altri termini, la ricerca di un rinnovamento e di un’identità nazionale che di pari passo potessero far avanzare la vita musicale italiana allineandola sulle posizioni di quella europea, travalicava le forme e i linguaggi specifici e si addentrava nel confronto con gli altri ambiti dell’organizzazione culturale e della conoscenza artistica, storica e soprattutto letteraria: da essi anzi traendo i primi stimoli, le giustificazioni e i supporti fondamentali (1).

Alcune premesse, sviluppate poi in principi ideologici, delineano questo cambiamento di rotta nel passaggio da Ottocento a Novecento. Anzitutto l’atteggiamento critico, che a tutta questa generazione è comune, nei confronti del melodramma ottocentesco – piú in generale, dell’Ottocento in quanto secolo dominato dal gusto dell’opera -, estremizzato nel rifiuto del verismo e del naturalismo, sua «appendice» in tempi e abiti moderni; secondariamente, la riacquisizione e la rivalutazione del patrimonio musicale antico – cioè preottocentesco – e la rivendicazione (anche in senso apertamente nazionalistico) del primato e della grandezza dell’Italia nel campo della musica strumentale. La convinzione che la nuova musica italiana dovesse ricostruire la propria identità tanto sullo studio e sull’insegnamento degli antichi maestri quanto sull’elaborazione di nuove condizioni ed esigenze artistiche, saldava questo recupero del passato con l’esplorazione di nuovi, originali terreni formali e linguistici e si collegava idealmente alle istanze di riscossa della cultura nazionale.

Si colloca in questa fase anche una tendenza a indagare in profondità le fonti del materiale musicale antico che, se non si può dire ancora scientifica-mente musicologica, pure getta le basi di una svolta nella cultura musicale italiana, e non solo in quella musicale. Innescata dal lavoro appartato di pionieri della vecchia generazione quali Oscar Chilesotti e Luigi Torchi, quest’esigenza deflagra nel primo decennio del secolo con la forza di una rivelazione, accomunando musicologi e compositori militanti, studiosi d’estetica e letterati(2); per attestarsi poi, pur con innumerevoli gradi intermedi, su due posizioni nettamente contrastanti: l’una presto soccombente, dei «positivisti» riuniti nell’Associazione dei musicologi italiani (3), l’altra, ben piú ricca di successi, sostenuta con particolare veemenza dal giovane Torrefranca, che privilegia, in consonanza con lo spirito del tempo, la componente cultural-letteraria ed estetica come guida storico-critica alla scelta e alla sintesi rivitalizzante di epoche ed autori. In tutti questi casi, e pur fra contraddizioni e incertezze sia metodologiche sia pratiche, la musica sembra avviarsi a conquistare un posto organico nell’ambito piú vasto del dibattito intellettuale e culturale delle avanguardie e a inserirsi cosí in un processo di apertura verso le piú recenti conquiste europee; senza perciò rinnegare, ma anzi riaffermandolo polemicamente, il valore preminente di una orgogliosa, riformata coscienza nazionale.

1.2. Il dibattito culturale sulle riviste fiorentine e il futurismo.

Nel periodo che precede la prima guerra mondiale alle riviste fiorentine tocca il compito di superare le divisioni fra letteratura e musica spostandone i problemi al di là delle coordinate ottocentesche del melodramma, sul piano della cultura, della vita nazionale e del costume sociale. Anche per trovare un luogo d’incontro di esperienze e metodi intellettuali diversi, a collaborare alle riviste fiorentine sono chiamati, tra gli altri, Torrefranca e Bastianelli, mentre Ildebrando Pizzetti assume fin dal 1909 la carica di critico musicale della «Voce»: ed è l’inizio di un’attività critica che, estendendosi assai oltre la semplice recensione, interesserà ben presto molti protagonisti della vita musicale italiana occupandoli anche al di fuori del loro specifico ambito professionale e artistico. Anzi, piú che sul piano concreto della creazione musicale, i punti di contatto e gli obiettivi comuni emergeranno su quello di un rinnovamento delle poetiche, in prospettive capaci di raccogliere la classe intellettuale attorno a un programma di svecchiamento delle istituzioni e di spiritualistica rigenerazione morale.

Lo spiritualismo di Torrefranca è nutrito di evidenti ambizioni estetiche e letterarie. La vita musicale dello Spirito (1910) è un tentativo di definire l’essenza dell’arte partendo dalla musica, la cui condizione appare all’autore correlata a quella di tutte le arti ma globalmente piú intrinseca alla «aristocraticità dello Spirito» (4); di conseguenza, Torrefranca disprezza la «mediocrità spirituale» degli operisti contemporanei e nello «scandaloso» Giacomo Puccini e l’opera internazionale (1912) attacca frontalmente il piú acclamato di costoro, addebitandogli una strumentalizzazione cinica delle risorse piú disparate del modernismo internazionale (5). E’ chiaro che in questa crociata, coerente con la parallela rivendicazione del glorioso passato strumentale italiano, Torrefranca si sente uomo di cultura erudito ed emancipato, superiore alla «volgarità e insincerità artistica» dominante: in altri termini, anche un letterato.

Letterato per formazione e frequentazioni, compositore per vocazione, o forse per velleità, il fiorentino Bastianelli in quello stesso 1912 con La crisi musicale europea estende la polemica al panorama internazionale. La sua tesi secondo la quale tutta la musica contemporanea sia da valutare sotto il concetto di decadentismo sottolinea l’intento di servirsi di criteri presi a prestito dalla critica letteraria (6). Si manifestano in lui, scrittore ellittico e fantasioso, atteggiamenti «scapigliati» ed estetizzanti che celano però un’ansia intellettuale particolarmente inquieta, presente con discontinuità di risultati anche nell’opera compositiva: eppure la sua figura, giusto per questo dualismo irrisolto, appare quasi emblematica della complessa realtà delle avanguardie primonovecentesche.

Se in questo campo Bastianelli rappresenta la punta piú avanzata, Pizzetti si trova invece in seconda fila. Assai meno incline agli stati d’animo dell’avanguardia (di fatto manterrà un rapporto di continuità con la tradizione ottocentesca), Pizzetti ha della musica una concezione etico-religiosa profondamente segnata però d’impronte dannunziane. Tutta la sua attività di scrittore è influenzata dal modello dannunziano – un D’Annunzio visto però negli aspetti meno estremisticamente «letterari» – e scorre parallela all’uso dei testi di lui – sin dal 1905 con La nave – per i propri «drammi lirici». L’umanesimo spiritualista di Pizzetti si traduce in un raffinato arcaismo (anche musicale) che si ripercuote nei moduli espressivi, aulici e paludati da un decoro austero, con cui viene posto in musica il testo. Anche per Pizzetti, ripetendo la celebre espressione di Debussy, la musica interviene là dove si arresta la poesia: rivelazione, e per di piú continua, della «misteriosa profondità delle anime» e traduzione dei sentimenti evocati dal dramma (7). Il declamato di Pizzetti, che scioglie nel canto l’aspirazione a una prosa che sia continuativamente anche poesia, si rapporta alla forma verbale come un’intonazione ora enfatica ora oggettiva delle immagini via via suggerite, evitando qualsiasi tipo di concisione e di condensazione lirica per evidenziare piuttosto la forza espressiva di un dramma insieme lirico e di azione. Marginale è l’interesse per la struttura formale e perfino per la caratterizzazione della parola o della frase in senso propriamente musicale: è infatti un’aura di irrazionale mistero, quasi uno stupore verso le risonanze anche letterarie che il testo può suggerire nel commento musicale, a costituire l’essenza del linguaggio pizzettiano. Non sorprende quindi che in D’Annunzio Pizzetti abbia trovato una varietà e ricchezza di quegli elementi poetici che quasi di per se stessi si prestavano a essere tradotti in musica: e la lunga fedeltà a D’Annunzio (Pizzetti vi sarebbe ritornato dopo Fedra La Pisanella ancora nel 1954 con La figlia di Jorio) significava il riconoscimento sottinteso di un magistero che Pizzetti avrebbe stentato a ricreare nella disadorna linearità dei drammi da lui stesso sceneggiati e verseggiati.

L’esplosione del futurismo offre alla cultura musicale italiana un ulteriore impegnativo referente. Già dal manifesto del 1909 il futurismo ambisce a qualificarsi con propositi unitari e totalizzanti, allargati a ogni espressione dell’avanguardia. La musica non tarda a interpretare la propria parte, con il Manifesto dei musicisti futuristi firmato da Francesco Balilla Pratella (1880-1955) nel 1910 e seguito marzo 1911 dal programma di attuazione pratica, il Manifesto tecnico della musica futurista. Prescindendo dalle provocazioni di Pratella, la convergenza fra musica e letteratura è esplicitamente ribadita anche da altri: se Marinetti propugna l’introduzione del rumore in letteratura, Luigi Russolo (1885-1947) arriva ad immaginare nell’Arte dei rumori la creazione di meccanismi capaci di riprodurre un vasto spettro di possibilità rumoristiche (gl’«intonarumori») calcolate sull’oggettiva astrattezza delle infinite frammentazioni sintattiche, verbali e foniche, di un testo (8).

All’atto pratico, questa convergenza non ebbe risultati di considerevole peso artistico. La sperimentazione musicale sulle «parole in libertà» di Mari-netti, volta cioè a stabilire sull’onda dell’«immaginazione senza fili» un nesso fra nucleo verbale disarticolato e sua esteriorizzazione fonica sino al rumore, si arrestò poco oltre i limiti dell’onomatopea o tutt’al piú della metafora, senza trovare comunque nella «portentosa» invenzione di Russolo spazi significativi. Ciò è imputabile anzitutto alla difficoltà, quasi insormontabile, di sottrarre il linguaggio musicale dalla logica di un sistema assumendone soltanto il parametro del suono; a maggior ragione in corrispondenza con un processo parallelo di disarticolazione e scomposizione della parola. Se il futurismo musicale italiano contribuí a esercitare una funzione di rinnovamento sui sistemi dell’espressione e della comunicazione, ciò avvenne in modo piú proficuo nell’abbinamento di musica e teatro, con il concorso delle altre arti accanto alla letteratura. Ciò nonostante, esso sparse semi e intuizioni che saranno fondamentali in tutto lo sperimentalismo musicale novecentesco, sia mantenendo viva la tensione verso l’eccentrico e l’originale, sia favorendo per spontanea dialettica le stesse reazioni classicistiche o neoclassiche, che non potranno non tenerne conto.

1.3. I musicisti di fronte alla letteratura: l’incontro di antico e di moderno.

Il concetto di letteratura, per i musicisti italiani, è dunque sinonimo di cultura tout court. La problematica musicale primonovecentesca non si limita ad assumere modelli letterari elettivi ma accoglie un mito della letteratura come forma paradigmatica della cultura, e vi si conforma nel tono. Ciò si rispecchia tanto nelle figure individuali quanto nei sodalizi che si creano su precise scelte di campo, come quelli di Pizzetti con Giuseppe De Robertis o di Malipiero con Massimo Bontempelli. Sul modello dei letterati nascono e si sviluppano circoli e istituzioni musicali. Dal dibattito orchestrato sulle riviste fiorentine, per esempio, si dirama tutta una serie di iniziative e di esigenze culturali che porteranno alla creazione di riviste specificamente musicali: a Firenze «La Nuova Musica» (1910-18), d’ispirazione vociana, e poi «La Critica Musicale» (1918-23); a Parma «La Rinascita Musicale» (1909-12), rassegna della Associazione dei musicologi italiani e della Federazione dei regi istituti musicali; a Napoli «Symphonia» (1910-11); a Torino «La Riforma Musicale» (1913-1918); a Roma «Orfeo» (1910-19) e poi «Ars Nova» (1916-19), organo della Società italiana di musica moderna voluta da Casella. Tutto ciò ha un significato preciso: la rivista musicale d’impegno e di militanza si emancipa fino a raggiungere un grado di dignità sia culturale sia letteraria che ne consente l’esistenza autonoma. Questa dignità è assicurata non soltanto dal supporto di letterati e di uomini di cultura sensibili alla musica, ma anche dalla consapevolezza intellettuale e dalla padronanza linguistica dei musicisti in quanto tali. E in questo momento che nascono, anche in ambito musicale, il saggio, il frammento critico, sia specialistico sia nutrito di riferimenti estetici, mosso da prese di posizione ideologiche, da osservazioni sul gusto e sul costume, da divagazioni letterarie; cosicché sempre piú il musicista si sentirà spinto a scrivere di musica, non dissimulando ambizioni (sovente piuttosto velleità) letterarie e stilistiche.

Questa tendenza si rispecchia in un fenomeno di rilevante importanza, tipico del teatro musicale novecentesco: il compositore che diviene librettista di se stesso, cioè autore dei testi delle proprie opere. Anche se spesso, piú che di soggetti originali, si tratta di rielaborazioni che assolvono funzioni eminentemente drammaturgiche e musicali (il ritorno alle forme chiuse dell’opera antica, o all’opposto la continuità del dramma musicale), è chiaro che il compositore sente di possedere le qualità letterarie e culturali per affrontare direttamente e da solo i problemi del testo, il cui carattere, oltretutto, non è piú quello del «semplice» libretto d’opera tradizionale. L’esempio di Wagner è senza dubbio il modello che spinge in questa direzione: dopo Wagner, non è piú pensabile il libretto d’opera tradizionale, proprio in nome di una nuova dignità del compositore. L’eredità wagneriana esercita la sua influenza anche su coloro che la rifiutano, scegliendo, in Italia, altre strade.

Ma questo non è il solo sintomo dell’affrancamento dei musicisti. Sulle riviste, dicevamo, si discutono temi istituzionali e questioni organizzative, oltre che problemi estetici e artistici: la carenza delle biblioteche, il disordine degli archivi, l’abbandono dei fondi musicali, la mancanza di cattedre universitarie, la dispersione del patrimonio popolare: in poche parole, tutto lo stato subalterno, se non servile, della musica in seno alla cultura. In quel regno il musicista ambisce ora a entrare a pieni diritti, da pari a pari, in nome dell’arte, che sarà tutta italiana e grande, e della collettività.

Neanche la cesura segnata dalla grande guerra nella vita politica e sociale italiana arresta questo processo. Alcune direttive manifestatesi nel dibattito d’anteguerra vengono consolidate, e rettificate alcune posizioni di radicalismo intransigente in una visione piú aperta alle esperienze europee: nella certezza che ormai, dopo la fase della rivendicazione, l’Italia musicale debba progredire senza provincialismi e complessi di inferiorità. E in quest’epoca che avviene il salto di qualità nella produzione dei musicisti della generazione dell’80, Casella e Malipiero in testa.

Parte da questo momento anche l’infittirsi della produzione vocale non strettamente teatrale, nella quale il connubio fra poesia e musica è perciò piú diretto. La lirica da camera e da concerto, la composizione vocale-strumentale di piccole o grandi dimensioni, attirano l’interesse creativo dei musicisti: e dalla scelta dei testi, dal trattamento compositivo, si origina un capitolo importante dei rapporti fra letteratura e musica nel Novecento.

La distinzione fra produzione «d’arte» e produzione di consumo nel repertorio di liriche e di romanze s’impone proprio in quest’epoca, mantenendosi poi a lungo con chiare implicazioni d’ordine estetico. Apparentemente ciò che distingue le liriche di Pizzetti e Respighi dalle romanze «da salotto» di Tosti o Denza è tanto il tono delle scelte letterarie quanto l’impegno compositivo: mentre le prime cercano una reale fusione di musica e poesia in una composizione elaborata, le altre si accontentano dei facili tesori della melodia e del sentimentalismo popolare. Al divertimento e all’evasione della musica facile, d’uso e d’intrattenimento «leggero», si oppone la serietà di una musica impegnata, raffinata, pensata. In realtà, in questa separazione va visto anche un effetto della situazione storica in cui parte della musica italiana, premendo per conquistarsi un rango culturale pari a quello della letteratura, cercava di rimuovere l’eredità melodrammatica inseguendo un presunto ideale elevato dell’arte: anche a costo di precludersi una comprensione e una circolazione piú vasta. Il fascismo accentuerà questa dicotomia coltivando accanto alla musica di massa e di propaganda ad uso e consumo del popolo un’arte di facciata e di élite, riservata a pochi intenditori.

Casella stesso ha indicato l’inizio «ufficiale» del suo stile maturo con le Tre canzoni trecentesche op. 36 per voce e pianoforte, del 1923; sono dello stesso anno La sera fiesolana e le Quattro favole romanesche, sempre per voce e pianoforte. Dopo la fase giovanile influenzata dal soggiorno a Parigi e quella accesamente modernista e sperimentale degli anni di guerra, Casella si volge al recupero di moduli espressivi plasmati sulla melodia e sulla tonalità, per ricostruire uno stile moderno e insieme piú tradizionale, italiano ma di carattere dimostrativamente internazionale: capace cioè di dare all’Europa un’immagine adeguata del valore della nuova cultura musicale italiana. E scatta qui il confronto con la letteratura italiana, che Casella non aveva mai affrontato prima d’allora ove si eccettuino Notte di maggio op. 20 e i Due canti op. 21 del 1913, fuggevole tributo al revival classicistico di Giosue Carducci. Ma quale letteratura? La scelta dei testi è estremamente significativa. Nel momento della rifondazione di un nuovo stile, Casella si indirizza dapprima a un remoto momento storico della poesia italiana, poi a D’Annunzio, infine a Trilussa: l’inizio di una nuova fase della musica moderna si lega cosí simbolicamente agli anonimi poeti della prima letteratura italiana, trovando nella presunta verginità di quel mondo arcaico i presupposti del rinnovamento musicale moderno; per spostarsi poi alla letteratura moderna, nel versante colto e aristocratico di D’Annunzio e in quello dialettale e popolaresco di Trilussa, riconoscendovi agganci altrettanto formativi. Recupero del passato e consapevolezza del presente sono per Casella facce complementari di una stessa identità, in cui musica e letteratura si guardano e si sorreggono a vicenda.

Nel 1924 Casella compone un lavoro tratto da Luigi Pirandello, La Giara. Questa nuova irruzione di un autore contemporaneo nella sua produzione sortisce in questo caso effetti ancora piú incisivi: La Giara di Casella è una commedia coreografica nella quale gli spunti pirandelliani sono illustrati con dovizia di colori e sfogata felicità melodica, a ricreare con abbondante impiego di materiale folclorico i plastici rilievi di una vita sana e piena di ottimismo. Si potrebbe parlare qui addirittura di letteratura come emblema vitale, se la problematica musicale non facesse premio sulle suggestioni letterarie e sugli itinerari drammatici di cui pure voracemente si nutre.

L’incontro di antico e di moderno è alla base anche dell’attività di Gian Francesco Malipíero. L’ambiente determinante per il formarsi della sua personalità è Venezia, luogo di memorie, di affetti e di distinti richiami culturali: la Venezia del passato rivive in lui nelle trascrizioni moderne di musica vocale e strumentale, negli studi sulla nascita del melodramma e soprattutto su Monteverdi, costituendo un modello di civiltà a cui Malipiero guarda con nostalgia ma senza ripiegamenti estetizzanti. E nel teatro che avviene la fusione di antico e di moderno in senso scopertamente attuale e innovativo del linguaggio e delle forme: quello di Malipiero è un teatro antirealistico, allusivo e fantastico, antidrammatico nella misura in cui scioglie la musica dalla dipendenza dall’azione ed allinea situazioni bloccate, condensate attorno a nuclei lirici contrastanti ed espressi in forma di canzone.

 

Per questo tipo di teatro, che si estende dalla trilogia L’Orfeide (La morte delle maschere, 1922; Le sette canzoni, 1919; Orfeo ovvero l’ottava canzone, 1920) al Torneo notturno (1929) passando attraverso la fase veneziana delle Tre commedie goldoniane (1919-22) e del Mistero di Venezia (1925-28), il Malipiero librettista di se stesso opta per il collage di testi poetici italiani in stile antico, raccolti da fonti disparate9, o per l’antologizzazione dialettale di segno goldoniano: e ciò al fine di creare situazioni poetiche prive di legami in-terni e di sviluppi, e tuttavia funzionali, nella loro arcana distanza che sottintende condizioni esistenziali immutabili, a inedite combinazioni musicali e drammatiche, sbalzate con forte pregnanza figurativa e architettonica. La frequenza di espressioni verbali coperte di una spessa patina arcaizzante, il rilievo plastico dato alla parola con l’invenzione di bizzarre metafore lessicali e sintattiche, producono, in coerente simbiosi con il linguaggio musicale, effetti di tagliente liricità, fra illuminazioni e ottenebramenti osservati con superiore distacco, come nella Canzone del Tempo del Torneo notturno:

Chi ha tempo e tempo aspetta il tempo perde, il tempo fugge come d’arco strale: dunque per fin che sei nel tempo verde accogli il tempo che pentir non vale. Il tempo fugge e mai non si rinverde e mena al fin le tue bellezze frale; adunque cogli del tuo tempo il fiore prima che manchi il giovanil valore”.

Malipiero è forse il primo musicista italiano moderno ad avvertire il pro-cesso di alienazione della cultura contemporanea e a farsene testimone con un’operazione di lucida consapevolezza intellettuale. Il culto dell’antico, nelle sue fantomatiche evocazioni accompagnate da una musica aspra e spigolosa, denuncia l’impotenza della cultura moderna a nascondere la crisi di valori incombente e a realizzarsi come progetto stabile e unitario di segno positivo. Significativamente, quando Malipiero si rivolge a un autore contemporaneo come Pirandello per toccare temi piú attuali, anticonformistici, e affrontare una visione tragica e grottesca della vita e del destino umano (La favola del figlio cambiato, 1934), trova censure e chiusure inappellabili da parte del regime: la sua musica diviene intollerabile”. E un segno, questo, che la convergenza contemporanea di musica e letteratura si fa pericolosa quando le forze si fon-dono davvero ed escono da schemi prefissati. Ricacciata nel suo limbo, la musica dovrà attendere ancora a lungo prima di uscire allo scoperto sul terreno della contemporaneità.

Per questo tipo di teatro, che si estende dalla trilogia L’Orfeide (La morte delle maschere, 1922; Le sette canzoni, 1919; Orfeo ovvero l’ottava canzone, 1920) al Torneo notturno (1929) passando attraverso la fase veneziana delle Tre commedie goldoniane (1919-22) e del Mistero di Venezia (1925-28), il Malipiero librettista di se stesso opta per il collage di testi poetici italiani in stile antico, raccolti da fonti disparate (9), o per l’antologizzazione dialettale di segno goldoniano: e ciò al fine di creare situazioni poetiche prive di legami interni e di sviluppi, e tuttavia funzionali, nella loro arcana distanza che sottintende condizioni esistenziali immutabili, a inedite combinazioni musicali e drammatiche, sbalzate con forte pregnanza figurativa e architettonica. La frequenza di espressioni verbali coperte di una spessa patina arcaizzante, il rilievo plastico dato alla parola con l’invenzione di bizzarre metafore lessicali e sintattiche, producono, in coerente simbiosi con il linguaggio musicale, effetti di tagliente liricità, fra illuminazioni e ottenebramenti osservati con superiore distacco, come nella Canzone del Tempo del Torneo notturno:

Chi ha tempo e tempo aspetta il tempo perde, il tempo fugge come d’arco strale: dunque per fin che sei nel tempo verde accogli il tempo che pentir non vale. Il tempo fugge e mai non si rinverde e mena al fin le tue bellezze frale; adunque cogli del tuo tempo il fiore prima che manchi il giovanil valore”.

Malipiero è forse il primo musicista italiano moderno ad avvertire il processo di alienazione della cultura contemporanea e a farsene testimone con un’operazione di lucida consapevolezza intellettuale. Il culto dell’antico, nelle sue fantomatiche evocazioni accompagnate da una musica aspra e spigolosa, denuncia l’impotenza della cultura moderna a nascondere la crisi di valori incombente e a realizzarsi come progetto stabile e unitario di segno positivo. Significativamente, quando Malipiero si rivolge a un autore contemporaneo come Pirandello per toccare temi piú attuali, anticonformistici, e affrontare una visione tragica e grottesca della vita e del destino umano (La favola del figlio cambiato, 1934), trova censure e chiusure inappellabili da parte del regime: la sua musica diviene intollerabile”. E un segno, questo, che la convergenza contemporanea di musica e letteratura si fa pericolosa quando le forze si fondono davvero ed escono da schemi prefissati. Ricacciata nel suo limbo, la musica dovrà attendere ancora a lungo prima di uscire allo scoperto sul terreno della contemporaneità.

I.4. Gabriele D’Annunzio, vate mancato della nuova musica.

Anche per quanto riguarda i rapporti con la musica, l’influsso di D’Annunzio e del dannunzianesimo è un capitolo fondamentale nella storia della cultura italiana del Novecento. E’ facile immaginare quali turbamenti pagine come quelle del Trionfo della morte e ancor piú del Fuoco dovessero provocare sui musicisti, perfino su coloro che non erano in grado di decifrarle del tutto. La celebrazione della musica che D’Annunzio vi officiava, con solenni toni sacerdotali e avvampanti impennate descrittive, significava l’emancipazione del-la musica da ogni ruolo subalterno nel concerto delle arti e la sua elevazione a mezzo di conoscenza dei processi piú profondi e latenti della psiche. Non solo: la piú evidente dimostrazione dei legami indissolubili e strettissimi fra poesia e musica era scorta proprio nella musicalità della lingua di D’Annunzio, per l’accostamento fra il piú elevato esercizio letterario e il piú spinto virtuosismo sonoro, capace di imporsi all’attenzione quasi come un valore assoluto special-mente nell’opera in versi. Non per caso D’Annunzio, proprio in questo torno di anni, tornava a esaltare l’unità delle arti presso i Greci – unità religiosa e sociale non meno che estetica -, l’aristocratica raffinatezza dei madrigalisti del Cinque-Seicento – letterati non meno che musicisti -, l’audacia rivoluzionaria del programma drammatico-musicale totale di Wagner, che gli Italiani avrebbero dovuto riprendere e irrobustire di sangue latino. Queste sollecitazioni, amplificate dall’autorità indiscussa di chi le proponeva, chiamavano in causa i musicisti facendoli sentire indispensabili al piano di rifondazione della cultura e dell’arte italiana.

Ben oltre i riti esclusivi del Vittoriale, mal conciliabili con l’apodittica esaltazione della musica a istituzione religiosa e sociale per l’educazione e il divertimento delle masse – ma non erano certo i musicisti a poter cogliere l’ambiguità del proclama -, l’opera di fiancheggiamento svolta da D’Annunzio si rivela nella partecipazione alla realizzazione di alcune iniziative che guidarono anche ideologicamente la rinascita della cultura musicale italiana: dalla collana «I Classici della Musica Italiana», ch’egli patrocinò e diresse dal ’19 accanto ai maggiori rappresentanti della musica italiana del tempo 12, alla fondazione nel ’23 della Corporazione delle nuove musiche, che sarebbe diventata la sezione italiana della Società internazionale per la musica contemporanea, ossia il principale centro di collegamento, pur fra alterne vicende, fra le esperienze italiane e quelle europee. Sia il culto nazionalistico del passato sia l’impegno nel presente avevano dunque in D’Annunzio un punto di riferimento.

In realtà, però, D’Annunzio soddisfaceva soltanto una parte delle aspirazioni delle nuove generazioni. E come autore poteva offrire un modello condizionato dalla stessa ricchezza della sua fiorita immaginazione poetica: un modello oltretutto limitato da una ricezione che privilegiava gli aspetti estetizzanti e sofisticati, decadenti e manieristici, su quelli piú squisitamente letterari. Non sorprende dunque che gli incontri di D’Annunzio con l’opera rimanessero, tutto sommato, un’appendice del teatro musicale ottocentesco, con la sola eccezione della collaborazione di Pizzetti. Per esempio, in Parisina (1913) Mascagni esteriorizza la tragedia dannunziana e si immedesima nelle situazioni d’un estremismo visionario e sfogato rendendone partecipe un linguaggio musicale ancora legato ai grandi gesti melodrammatici, alle pose veristiche: «Qui, – scrive Gavazzeni, – è l’italiano tipico che deriva dal D’Annunzio gli stimoli vitalistici, asociali e amorali, e ne cava modello erotizzante, piacere della bella materia» (13). Piú composto e distanziato, nella Francesca da Rimini (1914), l’approccio di Zandonai; la cui musica sembra piuttosto voler contemplare e sfumare i contorni della tragedia per cogliere la pregnanza dei simboli e il languore dei personaggi. Si viene a creare un alone che avvolge di estenuato struggimento la stessa declamazione vocale e la fa slittare in sospensioni, indugi e repentini slanci riverberati dal commento orchestrale, quasi proiezione delle suggestioni poetiche.

Nell’un caso come nell’altro, l’interpretazione di D’Annunzio seppur parziale è sostanzialmente adeguata, e completa un quadro storico e di costume chiaramente primonovecentesco. Ma al di fuori di questi confini ben pochi margini sussistevano per una musica che proprio in quegli anni ambiva a una nuova, autonoma purezza, a dimensioni circoscritte, meno monumentali, e a una concisione linguistica ben altrimenti significativa. Piú ancora il teatro era rivolto a scelte antitetiche agli sviluppi del melodramma del secondo Ottocento, e anche drammaturgicamente í musicisti aspiravano a rifondarlo ex novo, sia col recupero delle forme chiuse del Settecento rese musicalmente indipendenti e «moderne», sia nel rapporto con la lingua poetica del testo. A queste tendenze lo stile letterario di D’Annunzio, nei suoi aspetti piú ridondanti e imaginifici, era essenzialmente estraneo; mentre d’altro canto il D’Annunzio piú limpido e controllato delle liriche lasciava spazi troppo esigui, o viceversa troppo vasti, comunque predeterminati, all’invenzione dei musicisti che cercassero un loro ritmo, una loro melodia, un loro suono, un linguaggio proprio: a maggior ragione in mancanza di una civiltà liederistica capace di offrirsi come modello alla interpretazione musicale della poesia. Eccezion fatta per il solito Pizzetti, la cui sintonia mentale e intellettuale con D’Annunzio s’impone decisamente e tocca il vertice nella lirica I pastori(1908), le pagine dannunziane di Respighi, Casella, Malipiero e quant’altri ci appaiono sperimentali e in-concluse, e curiosamente meno congeniali e compenetrate rispetto all’escursione dannunziana (Rondò da La Chimera) del tardoromantico Max Reger (Wenn lichter Mondenschein (Come sorga la luna), n. 6 dei 6 Lieder op. 35).

Né troppo diverso è il caso del teatro. Ferruccio Busoni, che già nel 1911 aveva pensato di rivolgersi a D’Annunzio per una «grande opera italiana» moderna (14) – moderna nel senso che tenesse conto tanto delle esigenze e delle ambizioni dei musicisti quanto dei loro problemi artistici – aveva chiuso la questione in modo lapidario: molte parole e pochi fatti. Alla stessa conclusione erano giunti, per vie opposte, Puccini, declinando la collaborazione con D’Annunzio, e Respighi, intimorito da un confronto per lui troppo impegnativo (di fatto, egli finirà per servirsi di un perfido imitatore di D’Annunzio come Claudio Guastalla). Non su quella linea avrebbe potuto progredire la nuova musica italiana. Paradossalmente, la seria importanza che D’Annunzio aveva dato alla musica e ai musicisti, auspicando la rinascita di un’arte musicale italiana, gli si rivolgeva ora contro: egli era stato il vate della nuova musica, ma un vate mancato.

NOTE



(1) Il ruolo fondamentale assunto da alcuni protagonisti della generazione degli anni ’80 anche nelle altre arti e piú in generale nella cultura primonovecentesca è sottolineato da A. ASOR ROSA, La cultura, in R. ROMANO e c. VINANTI (a cura di), Storia d’Italia, IV/z. Dall’unità a oggi, Torino 1975, in particolare alle pp. 1147 sgg.; da cui sono però stranamente esclusi proprio i musicisti. Che si tratti di un fatto generazionale comune è comunque indicato, e le considerazioni di Asor Rosa sulla situazione culturale di quegli anni possono essere estese anche al campo della musica.

2 Cfr. F. NICOLODI, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, Firenze 1982, particolarmente i capitoli II (Per una ricognizione della musica antica) e III (Restauri in stile moderno).

(3) Cfr. G. GASPERINI, L’Associazione dei musicologi italiani, in «Rivista musicale italiana», XVIII (1911), particolarmente alla p. 638, dove Gasperini reclama anzitutto di «procedere alla ricerca, alla ricognizione e alla catalogazione di tutta la musica antica, teorica e pratica, manoscritta e stampata, esistente nelle Biblioteche e negli Archivi pubblici e privati d’Italia, per servire di base ad una grande edizione critica delle opere complete dei nostri migliori autori».

(4) F. TORREFRANCA, La vita musicale dello Spirito, Torino 1910, p. 25.

(5) Cfr. ID., Giacomo Puccini e l’opera internazionale, Torino 1912.

(6) Cfr. G. BASTIANELLI, La crisi musicale europea, Pistoia 1912.

(7) I. PIZZETTI, Ariane et Barbebleue, in «Rivista musicale italiana», XV (1908), p. 87.

(8) Cfr. L. RUSSOLO, L’arte dei rumori, Milano 1916, pp. 75-81.

(9) Cfr. R. DALMONTE, Le fonti letterarie del teatro malipieriano («L’Orfeide»), e G. LIVIO, I testi e le forme del teatro malipieriano, entrambi in L. PESTALOZZA (a cura di), G. F. Malipiero e le nuove forme della musica europeaAtti del Convegno tenutosi a Reggio Emilia il5-7 ottobre 1982, numero monografico di «Quaderni di Musica/Realtà», III (1984).

(10) G. F. MALIPIERO, Torneo notturno, libretto, Milano 1950, p. 8.

(11) Cfr. F. NICOLODI, Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole 1984, pp. 222 sgg.

(12) La collana «I Classici della Musica Italiana», raccolta nazionale delle musiche italiane pubbli cata a Milano dall’Istituto editoriale italiano, comprendeva trentasei volumetti ognuno dedicato a ur musicista. D’Annunzio redasse la prefazione motivando anche ideologicamente il progetto: «Offriamo agli Italiani un florilegio di vecchie musiche… non per tornare all’antico ma per riconoscerlo e per vendicarlo contro un lungo secolo di oscuramento e di errore» (Prefazione al catalogo generale della raccolta, Milano 1918).

(13) G. GAVAZZENI, La musica di Mascagni, oggi, in M. MORINI (a cura di), Pietro Mascagni, Milano 1964, I, P. 35.

(14) Per i rapporti fra Busoni e D’Annunzio cfr. S. SABLICH, Busoni, Torino 1982, pp. 206-8

2. Aspetti del rapporto letteratura/musica fra le due guerre.

2.1. Il ruolo della musica e l’organizzazione delle istituzioni nel ventennio fascista.

Dopo il consolidamento della dittatura fascista, gli ultimi anni ’20 vedono condotta a termine quella riorganizzazione delle istituzioni e degli apparati burocratico-amministrativi che, nelle intenzioni del regime, avrebbe dovuto stabilizzare le premesse di una «rivoluzione culturale» (1). Nel campo della musica, si verifica una situazione sotto certi aspetti anomala. Il trattamento di riguardo accordato da Mussolini ai musicisti, quasi nessuno dei quali resta insensibile alle lusinghe del dittatore, ne condiziona in modo talvolta pesante gli atteggiamenti e le scelte operative, anche là dove non vi sia adesione completa alla celebrazione della mitologia fascista attraverso la propaganda della cultura ufficiale; ma proprio in nome della specifica asemanticità del linguaggio musicale, consente iniziative che almeno all’inizio mantengono un carattere d’indipendenza. Ne sono esempio negli anni ’20 i festival della Società internazionale per la musica contemporanea che Casella fa ospitare in Italia (a Venezia nel ’25 e a Siena nel ’28), sulla cui spinta nascerà nel 1930 il Festival internazionale di musica di Venezia (2); e, su tutt’altro piano, la creazione del Maggio musicale fiorentino (3) nel 1933, con l’impronta data dai suoi fondatori, Guido M. Gatti (1892-1973) e Vittorio Gui (1885-1975).

L’obiettivo che il festival fiorentino si prefigge è la piena restituzione del fatto musicale al campo della cultura. Accanto ad allestimenti di opere spesso rivoluzionari per angolazioni critiche e scelte artistiche, per i quali si scritturano i maggiori registi del teatro di prosa e dove bozzetti e figurini recano la firma di «pittori di cavalletto», il Maggio accoglie spettacoli di prosa destinati a restare leggendari (nel ’37 Si avrà la prima assoluta dei Giganti della montagna di Pirandello) e non trascura la produzione contemporanea, per qualificar-si come manifestazione interdisciplinare di cultura. Pur denunciando talvolta i limiti imposti dalla situazione politica, esso sarà un modello ammirato dovunque e imitato, un vero fiore all’occhiello dell’organizzazione fascista.

Sarebbe tuttavia improprio dedurne che durante il ventennio la musica abbia esercitato un ruolo di catalizzatore culturale particolarmente significativo. Basterebbe a smentirlo la collocazione delle discipline musicali nella riforma scolastica di Giovanni Gentile. I regolamenti definitivi per l’istruzione musicale sono del 1930-31, giungendo non a caso buoni ultimi: nel ribadire la netta separazione fra insegnamento umanistico-letterario e tecnico-scientifico, il legislatore esclude l’istruzione musicale dalle materie comuni dei corsi primari e secondari e la relega in appositi istituti (i conservatori) come luogo di formazione essenzialmente tecnico-professionale. Il titolo di cultura generale richiesto per l’ammissione è la quinta elementare; lo studio delle materie letterarie (italiano, storia e geografia) si arresta al terzo anno del corso inferiore (in pratica, alla terza media), piú un corso complementare comune di due anni di storia ed estetica musicale, i cui programmi rispecchiano indirizzi prevalentemente nazionalistici ed autarchici e, per i cantanti e i compositori, un corso annuale denominato «Letteratura poetica e drammatica», centrato sulla glorificazione delle tradizioni italiane (4). Questa disposizione conferma e anzi pietrifica un solco profondo tra musica e cultura già al livello della formazione di base, le cui conseguenze negative saranno molteplici e durevoli: da un lato l’ignoranza nei «laici» delle nozioni elementari del linguaggio musicale, e quindi da parte dei letterati un approccio alla musica di tipo impressionistico e poetico, dall’esterno, ossia per intuizioni, associazioni e suggestioni; dall’altro le scarse conoscenze da parte dei musicisti delle discipline storiche, filosofiche e letterarie, perfino in questioni essenziali come la metrica, la linguistica e l’estetica, e dunque una certa improvvisazione nell’affrontare il rapporto con il testo (5). A dieci anni di distanza, il monito di Malipiero per una riforma dei conservatori atta a «formare dei musicisti capaci di estendere la loro comprensione anche oltre la musica» (6), era rimasto lettera morta.

Proprio mentre gli esponenti della generazione dell’8o si combattono aspramente sugli opposti versanti della «tradizione» e della «modernità» (nel ’32 l’uscita del manifesto dei musicisti tradizionalisti renderà netta la frattura), salgono alla ribalta i protagonisti della generazione di mezzo, quella dei Dallapiccola, Petrassi e Salviucci. Nel momento stesso della maturazione, questi compositori vivono una profonda crisi di transizione: avvertono i sintomi di un mutamento linguistico, ma sono tagliati fuori da ciò che avviene nella cultura europea, da cui giungono solo pallidi segnali (e ciò spiega il ritardo con cui la dodecafonia (7) fu conosciuta in Italia). Si spiega anche cosí il riflusso verso l’antico e la difficile coesistenza con l’eredità dei padri: le forme preclassiche, l’armonia modale, la rivalutazione del gregoriano e, prima ancora, della romanità, disseminate in vari stili che si misurano con la tendenza neoclassica per trovare lo sbocco verso l’attualità di una modernità moderatamente avanzata. Unica via di uscita da questa impasse, il ripiegamento solitario nella propria sfera privata: la ricerca isolata e affascinante di una poetica, di una identità nel presente, in attesa di poter parlare a tutti gli effetti la lingua di una nuova contemporaneità.

2.2. Le correnti letterarie e la musica.

Problematico risulta definire i rapporti fra letteratura e musica durante questo periodo. Da un lato si accentua quell’interscambio musica-cultura di cui si erano colte le premesse prima della guerra, e di conseguenza si rinsalda quella catena di rapporti che lega il pensiero sulla musica alla letteratura, alla poesia e alla prosa d’arte; dall’altro lato è difficile fissare i nessi di questo scambio se non nel comune denominatore di un clima culturale non omogeneo, con forti sbalzi di temperatura. «Se per siffatta rete di rapporti, – scrive Gavazzeni, – non va azzardata la precisione di una “poetica”, se va eluso il pericolo di una teorizzazione; ci si può indugiare, di volta in volta, al desiderio di una “poetica”, al suo apparire sporadico ed embrionale nei luoghi vivi dove l’idea della musica si configura nel sentimento e nel linguaggio dello scrittore» (8). I letterati che guardano alla musica come fenomeno che affonda le sue radici nel linguaggio della prosa e della poesia proprio in quanto suggestione sonora fertile di occasioni ricchissime, o che se ne interessano come fatto di cultura, scelgono in realtà strade assai diverse, la cui confluenza ideale può semmai essere indicata nel modo di considerare la musica campo indefinito e sconfinato, inattingibile dalla poesia. Cosí, in molti casi, il senso e il sentimento della parola ambiscono a proporre una sfera decantata, autonoma e immateriale, nella quale la «parola poetica» volteggia capricciosamente mimando la inebriante mobilità dei suoni.

Significativamente, gli sconfinamenti novecentisti dalla letteratura alle altre arti di Massimo Bontempelli si aprono con il riferimento alla musica. «Dovete ammettere, – scriveva nel maggio 1931, – che similmente debba accadere allo scrittore di sentirsi arrivato a un limite ove la parola è posseduta da una convenzione troppo tirannica, ove alla visione ancora interiore occorre un mezzo d’espressione meno simbolico e insieme piú esatto; allora è, che la parola si sfa e nello stesso atto si ricompone in suono: il prosatore va al pianoforte e compone un preludio» (9). L’eclettismo di Bontempelli – come su altro piano l’inquieto trasformismo di un Alberto Savinio – è risposta alla disintegrazione morale dell’individuo, desiderio di cogliere, strappare quasi, il senso unitario e globale delle varie arti attraverso l’abilità della scrittura, l’abolizione dei confini: e là sorge, in feconda mutuazione, l’idea di musica. Piú concretamente, la sintassi di Bontempelli può trovare riscontro in certa improvvisazione fantastica e pseudo-ermetica di Malipiero, per esempio del Malipiero quartettistico.

Sembra evidente d’altro canto che questa idea di musica punti a travalicare tanto lo stadio meramente fonetico e «musicale» del rapporto fra parola e suono quanto l’ambito di stretta letteratura (o meglio letterarietà) dell’estetismo decadentista. Quello a cui mira è invece una sorta di inveramento del sentimento destato dalla musica nel linguaggio poetico; sicché la musica diviene modello della massima ambizione morale e inventiva. In altri termini, l’analogia della letteratura con la musica non soltanto rende sempre piú fiorita l’immaginazione plastica e visiva ma s’investe anche d’un senso umano profondo e vibrante, commosso e coinvolgente, della ricerca di risonanze liriche o di latenti forze espressive: e non basta solo il virtuosismo della parola o il fremito delle suggestioni a realizzare questo sospeso incantamento. Si spiega anche cosí la molteplicità che gli scrittori attribuirono alla loro idea di musica come fonte di emozione e di stile: dalla lunga fedeltà all’opera di un Riccardo Bacchelli, del tutto omogenea alla sua coscienza letteraria e civile, sino alle decise aperture europee di un Emilio Cecchi o di un Giacomo Debenedetti, capaci di scoprire intrecci finissimi sul versante della produzione francese (il saggio di Debenedetti del ’27, Proust e la musica, è una vera pietra miliare), inglese e persino americana (10). In questa temperie culturale aperta alla sprovincializzazione, la letteratura riceve nell’operazione degli scrittori energici stimoli destinati ad allargarne le risorse, stabilendo una sorta di cifra nella semantica della parola, cel verso, della prosa; onde si guarda al pianeta sterminato delle suggestioni sonore per arricchire consapevolmente i vocaboli e le immagini di una nuova sensibilità poetica.

Che ciò valga piú per i letterati-scrittori che per i musicisti-compositori, è inevitabile qualora si consideri il diverso carattere proprio di ciascuna arte sul piano operativo. Quanto piú le nuove correnti poetiche si affermano individualmente e privatamente, tanto più difficile appare l’aggancio con la musica. Il caso piú emblematico è quello dell’ermetismo, del tutto immusicabile proprio in ragione della interna, aspra musicalità della sua autonomia poetica. Per qualche tempo, dunque, i compositori continueranno a battere percorsi piú tradizionali, pronti tuttavia, non appena lo snodo poetico lasci intuire una possibilità di melos, ad aprire la ricerca preminente sul linguaggio e sulle forme musicali alle istanze moderne dei «lirici nuovi», come avverrà in Giorgio Federico Ghedini (1892-1965) e in Mario Castelnuovo-Tedesco (1895-1968).

La produzione vocale di Ghedini negli anni ’20 e ’30 ha frequenze molto indicative per quanto riguarda la letteratura. Abbiamo un filone mistico-spirituale (le liriche su testi della poesia religiosa del Duecento, in testa Jacopone da Todi e san Francesco d’Assisi), uno popolareggiante ma permeato di umanesimo raffinato (antichi testi napoletani, Giustinian, Boiardo), uno classico (liriche greche). Soltanto dopo la guerra Ghedini si rivolgerà alla letteratura contemporanea trovandovi affinità poetiche e spirituali, come nel Concerto dell’albatro (1945), ispirato dalla traduzione di Cesare Pavese del Moby Dick di Melville. Maggior eclettismo si riscontra nella curiosa congerie degli accostamenti culturali e letterari di Castelnuovo-Tedesco, che spaziano da Machiavelli (La Mandragola) a Francesco Redi (Bacco in Toscana), da Wilde (The Importance of Being Earnest) a Pirandello (musiche di scena per I giganti della montagna); e, nel campo piú propriamente vocale, vedono sfilare in ininterrotta sequenza García Lorca, Shelley, san Francesco, Tagore, Leopardi (L’infinito, nientemeno), Dante e Petrarca dei sonetti, Proust e soprattutto Shakespeare, con tutti i songs contenuti nei drammi e nelle commedie.

Anche qui, fa premio la condizione soggettiva, ferma restando la natura oggettiva dei linguaggi specifici. E non altrimenti accade quando scrittori e poeti vestono i panni del critico musicale, trovandosi alle prese con problemi tecnici e interpretativi a loro estranei. Imbarazzante, se non fosse bilanciato dall’autoironia, sarebbe il caso di Montale, la cui attività di critico musicale rivela gusti ed umori capricciosamente angusti – quasi caratteristici dell’appassionato d’opera e del dilettante -, del tutto impari alla sensibilità e alla finezza del poeta e del prosatore (11).

2.3. La critica musicale come fenomeno letterario.

Uno degli aspetti piú rilevanti di questo periodo è il fiorire di una critica musicale imbevuta di letteratura. Non è eccessivo affermare che l’aggancio di tendenze contemporanee, piuttosto labile nel rapporto intercompositivo fra musica e poesia, si attui in modo assai piú fertile proprio su questo terreno. La critica musicale italiana, che ai primi del Novecento sembrava voler imboccare la via della ricerca specialistica a sfondo musicologico, inverte sempre piú direzione sotto il peso dell’estetica crociana, che ne influenza non soltanto la metodologia ma anche il gusto e il costume. L’idealismo estetico crociano, infatti, cancellando le differenze tecniche fra arte e arte e stimolando lo studioso a cercare il nucleo poetico originario oltre le forme, i generi, gli stessi eventi biografici, offriva la possibilità di inserire il discorso musicale in una prospettiva meno erudita e piú umanistica, dal respiro apparentemente piú profondo. Si generalizzava cosí anche in ambito musicale la tendenza ad affrontare il problema critico dal versante estetico e letterario, innalzando il tono dello stile, ricercato e fiorito al fine di riprodurre per immagini e metafore liriche il contenuto contemplato dentro le forme musicali. Il modello di questo stile sarà appunto quello degli scrittori e dei letterati dell’immediato passato e del presente, a loro volta attratti dalla musica come possibile stimolo all’esercizio letterario, quando non, come si è visto, per farne tema esplicitamente poetico, narrativo, descrittivo o esemplificativo.

Se sulle pagine delle riviste letterarie e dei quotidiani la critica musicale acquista spazi sempre piú qualificati, mettendo a confronto le opinioni e le scelte ideologiche senza impedire di fatto anche la libera formazione di nuovi talenti – basti per tutti il nome di Massimo Mila e il suo impegno nell’ambito del «Baretti» gobettiano -, è nelle riviste specializzate che l’attenzione si sposta gradatamente sui problemi specifici della musica, accentuando la tendenza all’interdisciplinarità da un lato, all’apertura verso l’Europa contemporanea dall’altro. All’opera promotrice offerta dal «Pianoforte» di Guido M. Gatti, fa seguito a partire dal 1928 «La rassegna musicale», rivolta soprattutto a illuminare nei suoi aspetti estetici l’attività musicale contemporanea e ad allargare l’indagine ai rapporti con le altre arti e gli altri movimenti spirituali. Fondata e diretta da Guido M. Gatti, «La rassegna musicale» continuò le sue pubblicazioni fino al 1943. Al nucleo centrale dei crociani – Alfredo Parente, Guido Pannain, Luigi Ronga – vennero affiancandosi via via studiosi di varia estrazione come Alberto Mantelli, Fedele D’Amico, Ferdinando Ballo, Gianandrea Gavazzeni, fino a Massimo Mila, seguace dell’idealismo crociano ma assai aperto alle esperienze musicali moderne. Piú saltuarie ma non meno significative furono le collaborazioni di Luigi Dallapiccola e Luigi Rognoni, indirizzate verso il mondo tedesco; mentre fra gli studiosi di altre discipline spiccano i nomi di Francesco Flora, Rudolf Arnheim, Leone Ginzburg e Giorgio De Chirico.

Si tratti di semplici recensioni o di saggi storici piú ampi, lo scrivere di musica punta a configurarsi come disciplina professionalmente circoscritta, sensibile alle sollecitazioni esterne ma nello stesso tempo attenta ad approfondire le caratteristiche proprie dell’oggetto d’indagine e a definire gli strumenti critici e interpretativi. Da questo punto di vista la cura stilistica della scrittura non corrisponde tanto a un puro compiacimento letterario, quanto all’esigenza della massima precisione: per entrare in profondità nella materia e porre in evidenza i fattori essenziali (poetici o anche morali) dell’opera d’arte musicale. Si avrà per questa via anche la rivalutazione non piú polemica ma critica del passato musicale italiano, in primo luogo del melodramma ottocentesco, che nuove condizioni e nuove esigenze prospettano in una luce diversa; talvolta persino con perentori ribaltamenti di giudizio: si pensi solo alla riscoperta del primo Verdi, anche nella provocatoria proposta di Bruno Barilli (Il paese del melodramma, 1930) e alla intera «Verdi-Renaissance», che ha in Mila il suo alfiere (Il melodramma di Verdi, 1933). Quello di Barilli è un caso estremo, ma non isolato, in cui l’invenzione stilistica e concettuale piú ardita ed estrosa viene messa al servizio di una polemica marcatamente antimodernista, creando cosí una vistosa scissione fra tema e svolgimento. In ciò, nella fantasmagorica divagazione attorno a un tema musicale continuamente eluso, sta la tipicità di Barilli: caso estremo che reca in sé le cifre di certa cultura letteraria italiana fra le due guerre.

Quanto questi atteggiamenti, disomogenei e contraddittori fin che si vuole, siano debitori di un clima letterario instabile epperò vitale, lo mostrano da ultimo proprio quei personaggi eccentrici e difficilmente collocabili – letterati o musicisti – che fecero della critica musicale un’occupazione secondaria ma tutt’altro che occasionale o evasiva: dall’anticonformista Bruno Barilli all’aristocratico Giorgio Vigolo, formatosi sulla «Voce» di De Robertis; o, dall’altra parte, Gianandrea Gavazzeni, la cui. prosa si nutre delle linfe letterarie del novecentismo per auscultare il proprio stesso suono, nelle sue asprezze e frantumazioni: quasi a voler ricostruire un’immaginaria partitura inestricabilmente intessuta di suono e parola, di letteratura e musica. Con le sue ellissi e le sue elisioni, ma anche con le sue tensioni e le sue aspirazioni, questa Italia letteraria e musicale del ventennio fascista, insieme provinciale e ansiosa di uscire dai suoi confini, rappresenta un’ultima fase di unità culturale prima della dispersione e del superamento dei nazionalismi in una nuova dimensione internazionale, mondiale.

2.4. «Non è píú l’epoca dei musicisti ignoranti».

 

Luigi Dallapiccola (1904-75) era figlio di un professore di lingue classiche, preside di liceo a Pisino d’Istria. Quando il ragazzo comunicò ai genitori la decisione di diventare musicista, il padre non si oppose, ponendo però una condizione: che completasse gli studi liceali e superasse l’esame di maturità. «Non è piú l’epoca dei musicisti ignoranti», aggiunse per esortare il figlio a prepararsi a un cambiamento di cui egli intuiva la necessità (12). E questa era l’opinione di un uomo di solida cultura umanistica non particolarmente avvezzo di musica.

La carriera di Dallapiccola è la prova lampante della conquista di una dignità culturale del musicista che oltrepassa le barriere dell’esercizio professionale e artistico specifico per entrare a pieno diritto nella sfera dell’impegno intellettuale e morale esemplare: una conquista ardua e assai piú difficile di quanto il semplice, affettuoso monito paterno potesse lasciar prevedere. Ma, alla resa dei conti, Dallapiccola emerse legando la sua formazione umanistica alle esperienze vissute accanto ai sodalizi e ai movimenti letterari della Firenze d’anteguerra: dalla frequentazione di casa Ojetti agli incontri defilati, ma non effimeri sul piano della crescita intellettuale, con Gadda e Montale, Contini e De Robertis (suo insegnante di letteratura al Conservatorio fiorentino), Landolfi e Pancrazi; fino a stringere rapporti stretti e piú congeniali con Arturo Loria e Alessandro Bonsanti, pronubi di una militanza critica che, dalle pagine di «Letteratura» e del «Mondo» negli anni successivi alla Liberazione, sarebbe poi scorsa parallela alla sempre piú chiara affermazione del compositore.

E’ proprio nell’incontro con la letteratura che la produzione di Dallapiccola, elettivamente, quasi costituzionalmente vocale, sviluppa i suoi caratteri artistici e musicali. Nella sua parabola c’è una coerenza ininterrotta, fatta di svolgimenti e di ritorni ciclici su nodi poetici cruciali, su testi e contenuti scandagliati in profondità. Anche la fase giovanile, segnata dal contatto con la poesia popolare e dialettale di Biagio Marin e dall’inevitabile tappa su D’Annunzio (La canzone del Quarnaro, inedita), ha una ragione precisa, per cosí dire propedeutica: Dallapiccola presta ascolto alle voci della sua terra natale e fissa in essa le sue radici prima di allontanarsene verso orizzonti piú vasti. E lo fa sperimentando la sua abilità compositiva senza indulgere a compiacimenti angustamente provinciali ma anticipando quasi il recupero critico, in prospettiva moderna, dell’identità dialettale della letteratura di confine.

Affiora subito un filone destinato a non esaurirsi mai nella produzione vocale di Dallapiccola, quello della poesia religiosa medievale: Jacopone da Todi, Brunetto Latini; ma anche gli anonimi laudari dugenteschi, sant’Agostino, i poeti latini della tarda romanità e del medioevo cristiano. Testi impervi e talvolta tutt’altro che consueti, che Dallapiccola va a scovare nelle biblioteche servendosi anche del consiglio dei filologi, cercando con acribia le consonanze con le proprie corde di compositore. Non v’è, neanche qui, compiacimento estetizzante o amore per l’inedito fine a se stesso, e nemmeno generico ripiegamento verso quella pietas religiosa che pure informa l’umanesimo di Dallapiccola, bensí recupero cosciente di voci sotterranee, riportate alla luce nella loro forza espressiva intatta oltre la polvere dei secoli e saldate in un processo osmotico fra antico e moderno che, crescendo la padronanza stilistica, sempre piú libera le individualità linguistiche e formali. Il fondamento umanistico e letterario, esteso intellettualmente ed espressivamente, diviene cosí presupposto della creazione personale. E significativamente questa ricerca si espande a filoni consanguinei di altre epoche e di altre culture, acquisite solo in parte dalla coscienza dell’Italia contemporanea: il Kalevala nella traduzione di Paolo Emilio Pavolini, La chanson de Roland nella versione di Pascoli e poi nell’originale, la poesia spagnola dei Machado, Mendes e Jiménez, quella di Joyce mediata da Eugenio Montale, sino ai grandi «classici» tedeschi Goethe e Heine. All’apice di questo processo, la conoscenza delle grandi opere di Joyce e di Proust confermerà, in mancanza di trattati e di partiture da studiare, le oscure premonizioni e le intuizioni isolate sulla natura della musica dodecafonica: a dimostrazione, scriverà Dallapiccola, che, in fondo, «il problema attuale delle arti è uno solo» (13).

Quello di Dallapiccola è un cammino solitario che, ove non corrispondesse a una altrettanto isolata evoluzione compositiva (verso la dodecafonia, e poi entro la nuova logica seriale, rintracciabile anche nella poesia e nel romanzo moderno), sbloccherebbe resistenze e barriere ataviche nel provincialismo culturale italiano. Ma proprio nella sistematica compenetrazione di campi diversi e nella conseguente elevazione del tono culturale, Dallapiccola rimane un modello a sé stante, anche nel modo di porsi, da musicista non piú «ignorante», di fronte alle sollecitazioni letterarie.

Opere di svolta come i Sei cori di Michelangelo Buonarroti il Giovane (1933-36) e le Liriche greche (1942-45) chiariscono l’atteggiamento di Dallapiccola nei confronti del testo poetico. Nei Cori di Michelangelo, assecondando il carattere spettacolarmente colorito del testo, il raffinato parallelismo fra musica e parola si realizza mediante scaltre raffigurazioni che riproducono, illustrano o evocano il significato visivo di singoli vocaboli o frasi; creando estese connessioni con gli artifici piú sofisticati del linguaggio contrappuntistico, corrispondenze formali con la struttura metrica della poesia: sicché l’unità ciclica dei cori appare, con le sue reminiscenze e i suoi giri concentrici, l’estrinsecazione delle virtualità già contenute nell’articolazione poetica. Nelle Liriche greche Dallapiccola sperimenta per la prima volta le possibilità della composizione dodecafonica; e lo fa traendo spunto dalla «cantabilità» classicamente misurata dei lirici greci per spingersi verso un’interpretazione anzitutto melodica della serie e delle sue forme. In questo caso, fattore decisivo e determinante dell’aggancio fra civiltà antica e moderna è la personalità del traduttore: Salvatore Quasimodo, ossia un esponente della poesia novissima e contemporanea dell’ermetismo. Il ripensamento poetico di Quasimodo, essenziale e sfrondato di ogni residuo retorico e archeologico, suggerisce a Dallapiccola l’idea di un ripensamento musicale parimenti «attuale». E evidente il processo tutt’altro che arcaizzante o nostalgico, men che mai con implicazioni neoclassiche, messo in moto dalla «catena dei ripensamenti»: l’«equilibrio sovrano» (14) che emana dai lirici greci, reso nuovamente originale da Quasimodo, impone sí il riconoscimento dei valori altissimi della poesia pura, rifugio dello spirito e conforto ai dolorosi squilibri del presente; ma è soprattutto incentivo al chiarificarsi dell’espressione, alla ricerca di una trasposizione del fatto poetico in un equivalente melodico radicato nelle esperienze dell’arte del Novecento. Dallapiccola vuol proporre un linguaggio universale: e ciò per lui non può realizzarsi che per mezzo della tecnica seriale dodecafonica, sistema che consente di ottenere l’unità del pensiero compositivo e nello stesso tempo di costruire il discorso musicale con parametri esattamente definiti, anche ai fini dell’espressione – che rimane comunque un fatto interiore – e della comunicazione.

In Dallapiccola l’intreccio fra musica e letteratura, cosí inestricabile e fertile, testimonia l’esigenza di un accostamento basato non soltanto su motivi ideali – per cosí dire contenutistici o soggettivi – ma anche concretamente compositivi e creativi, determinati cioè dalla capacità di penetrare un testo, scomporlo nei suoi elementi costitutivi e manipolarlo dall’interno con sufficiente padronanza tecnica e stilistica. Questa qualità e questa sensibilità, conseguenze di un vero amore per la letteratura e per le lingue, Dallapiccola le possedeva in modo sistematico. Goffredo Petrassi (1904), coetaneo di Dallapiccola, ci offre invece l’esempio di un approccio alla letteratura di segno affatto opposto, assai meno sistematico e piú empirico, espressivo tuttavia di sotterranee affinità tematiche, fino a rispecchiare, verso la fine del fascismo, le ansie di una generazione intera. Sorvolando sui lavori vocali giovanili ispirati, sulla scia del gusto intimistico proprio del tempo, a poeti come Gozzano e Cardarelli, coglieremo nella folgorante apparizione del Coro di morti (1941) la soluzione di un problema critico del rapporto letteratura/musica, resa ancora piú drastica dalla audace scelta del testo: il coro del Dialogo di Federico Ruysch e le sue mummie nelle Operette morali. A scavare in Leopardi, Petrassi è spinto certo da profonde ragioni interiori, umane ed elettive prima ancora che letterarie; ma la scelta poetica determina nel programma compositivo una serie di conseguenze tali da favorire l’affermazione piú piena della capacità simbolica, autonoma e individuale, del linguaggio sonoro. Anziché imporsi di tradurre in musica l’incorporeo e sfuggente verso leopardiano, Petrassi ne travasa le suggestioni, le allucinate e atroci atmosfere funebri, al mezzo strumentale, spremendo l’essenza timbrica da un organico che di quel testo è quasi il corrispettivo sonoro: tre pianoforti, ottoni, contrabbassi e percussione. Rinuncia poi al rilievo del personaggio di Ruysch per dare al coro una funzione assoluta, incontrastata e lapidaria: donde un canto proiettato nella memoria delle cose immodificabili, registrato con massiccia compattezza fonica e privato anche delle risorse piú consuete della varietà timbrica e dell’elaborazione contrappuntistica. Ne consegue che l’interpretazione del testo non si fonda sulla dialettica fra parola e musica ma sulla rifrazione speculare di entità contrapposte, che si sorreggono a vicenda scambiandosi i ruoli: e alla componente strumentale spetta di farsi carico di quella tensione espressiva che è relativa-mente sottratta al canto. Con questo ribaltamento Petrassi compie una scelta stilistica, intuendo la possibilità di un legame più mediato e riflesso tra i due elementi.

Anche Petrassi incontrò i lirici greci nella versione di Quasimodo, a riprova di quanto questa traduzione contribuisse a segnare una fase della cultura italiana. Ma piú che nella compita, quasi trattenuta intonazione di queste pagine, la vocalità di Petrassi si riconosce con rinnovata acutezza nella spigolatura poetica di brevi, fulminee rivelazioni (come nelle Tre liriche per baritono e pianoforte del 1944: ancora Leopardi, Foscolo e quel Keepsake montaliano che rappresenta la massima convergenza fra poesia e musica «pure», gioco dell’intelligenza scaricato d’ogni intento psicologico o significativo, e per ciò stesso iperespressivo). Qui, e assai di piú quando Petrassi accende la sua fantasia al fuoco epico di Ariosto e di Cervantes (i balletti La follia di Orlando e Ritratto di Don Chisciotte), la funzione della letteratura è quella di innescare un meccanismo associativo che sempre piú tende a distanziarsi dal modello per inoltrarsi nei territori di un astrattismo musicale in sé e solo per sé esistente.

Possiamo da ultimo ravvisare nell’opera di Petrassi due tendenze destinate a farsi dominanti nei musicisti delle generazioni seguenti, che rappresentano un uso ancora diverso della letteratura in musica. La prima, alquanto accentuata anche in Dallapiccola, dai Canti di prigionia (1938-41) all’opera Il prigioniero (1944-48) fino ai Canti di liberazione (1951-55), è quella dell’impegno e della protesta come testimonianza di un ordine di valori cui non è possibile rinunciare e rivendicazione di un ruolo civile dell’arte: sia esso effetto di un momento di tensione religiosa o di sottesi principi morali. In Petrassi possiamo scorgere questo momento in lavori quali Noche oscura(1950-51), Propos d’Alain (1960), Beatitudines (1968), testimonianza per Martin Luther King. L’altra invece, piú tipica di Petrassi, privilegia l’estro inventivo di tipo eminentemente strumentale e si serve della parola come occasione per scintillanti variazioni sillabiche, fonetiche ed onomatopeiche, in senso leggermente ironico, evasivo ed intellettualistico (si pensi solo ai Nonsense per coro a cappella del 1952, sui testi di Edward Lear tradotti da Carlo Izzo). Se nel primo caso l’ansia comunicativa ed espressiva fa premio sull’elaborazione compositiva costituendone il carattere, nel secondo caso il riferimento letterario diviene un pretesto depotenziato di valore semantico e strumentalizzato allo scopo di favorire la manipolazione sonora e la sperimentazione linguistica (in duplice senso, sulla parola e sui suoni).

Pur nella loro diversità, sia Dallapiccola sia Petrassi appartengono a una generazione che, proprio in quanto approfondisce il significato di precise scelte culturali e letterarie, eleva il tono dell’impegno nella musica italiana contemporanea e si nega all’ascolto superficiale, al consumo ordinario. Se la loro musica appare difficile, talvolta ostica, lo è in quanto abbonda di riferimenti e di implicazioni culturali in una mediazione intellettuale centrata sulla ricerca linguistica, sulla creazione di nuove forme adeguate alla situazione dell’espressione artistica contemporanea. E in quanto tale impone anche un nuovo modello di ascolto. Ciò nonostante, nel rapporto con la letteratura, per quanto sofisticato e mediato esso possa talvolta apparire, sopravvive qualcosa di classico, di definitivo: la convinzione che mettere in musica un testo equivalga a compiere una scelta culturale e morale, che per essere motivata e funzionare artisticamente deve nascere da ragioni interne di espressione, da necessità interiori ed eloquenti realizzate dalla combinazione tra parola e musica. A Dallapiccola, secondo il quale la comprensibilità del testo è valore imprescindibile dalla sua messa in musica, fa eco Petrassi, ribadendo che ogni testo deve avere una giustificazione, un suo perché (15). In questa rinnovata alleanza fra letteratura e musica, ambedue esprimono una concezione umanistica dell’arte come fatto di cultura universale, resistente alla separazione e alla dissoluzione dei linguaggi.

NOTE

(1) Un’ampia documentazione e trattazione di questi problemi si trova in F. NICOLODI, Musica e musicisti cit.

(2) Cfr. ID., Su alcuni aspetti dei festivals tra le due guerre, nel volume da lei curato, Musica italiana del primo Novecento. «La generazione dell’80». Atti del Convegno svoltosi a Firenze il 9-11 maggio 1980, Firenze 1981, pp. 141-79.

(3) Cfr. L. PINZAUTI, Il Maggio musicale fiorentino (dalla priam alla trentesima edizione), Firenze 1967.

(4) È possibile farsi un’idea della preparazione scolastica dei futuri compositori da questi capitoli del programma: «I. Prosa e poesia: Differenze – Concetto generale del ritmo – Origini comuni del ritmo poetico e del ritmo musicale – Elementi del ritmo (Piede, Kòlon, Periodo, Strofa). 2. Il ritmo e l’idea melodica: Ritmi musicali tetici, acefali, in bilico, sincopati, ecc. 3. Il ritmo nella poesia italiana: Correlazione tra le serie ritmiche della poesia e quella [sic] della musica – Versi e strofe – Forme varie». Per il resto il programma non tocca alcun argomento delle letterature straniere. Per contro è prescritta «la conoscenza di qualcuna delle piú salienti e significative pagine della letteratura fascista».

(5) Ciò varrà non soltanto per i compositori ma anche per i critici musicali e i musicologi, costituzionalmente privati della consuetudine a servirsi degli strumenti analitici e interpretativi delle moderne discipline letterarie, e a confrontarsi con esse. Almeno nell’ambito della formazione scolastica.

(6) Cfr. G. F. MALIPIERO, I Conservatori, in «Il pianoforte», II (1921), 12, pp. 357-58: «Difatti tutti gli allievi dovrebbero assistere a un corso di storia dell’arte e della letteratura, reso piú vivo frequentando i teatri di prosa (quando ne vale la pena), le gallerie, i musei, le conferenze, sempre sotto la guida di artisti intelligenti che dovrebbero professare l’insegnamento non come degli stipendiati, ma quali apostoli di una grande idea».

(7) Cfr. R. VLAD, Storia della dodecafonia, Milano 1958. Sullo stato della conoscenza in questi anni dei musicisti della «Scuola di Vienna» cfr. anche L. DALLAPICCOLA, Sulla strada della dodecafonia (1951), in Parole e musica, a cura di F. Nicolodi, Milano 1980, pp. 448-61.

(8) G. GAVAZZENI, Il sentimento della musica negli «Scrittori inglesi e americani» di Cecchi, in Il suono èstanco, Bergamo 1950, p. 376.

(9) M. BONTEMPELLI, L’avventura novecentista (1938), a cura e con introduzione di R. Jacobbí, Firenze 1974, p. 297.

(10) Cfr. G. DEBENEDETTI, Proust e la musica, in «La rassegna musicale», I (1928), pp. 47-59; su Cecchi e la musica, cfr. il saggio di G. GAVAZZENI, Il sentimento della musica cit., pp. 375-88.

(11) Cfr. E. MONTALE, Prime alla Scala, a cura di G. Lavezzi, Milano 1981.

(12) L. DALLAPICCOLA, Genesi dei «Canti di prigionia» e del «Prigioniero» (i953), in Parole e musica cit., p. 405.

(13) ID., Sulla strada della dodecafonia cit., p. 455.

(14) ID., A proposito delle «Due liriche di Anacreonte» (1961), in Parole e musica cit., p. 441.

(15) Cfr. ID., Prime composizioni corali (1963), ibid., p. 378; e, per Petrassi, L. LOMBARDI, Conversazioni con Petrassi, Milano 198o, p. 67.

  1. Dal secondo dopoguerra a oggi.

3.1. Le nuove avanguardie.

Nel secondo dopoguerra, la riapertura delle frontiere, il ristabilimento dei contatti internazionali e il sempre piú netto profilarsi di un nuovo rapporto fra musica e realtà contemporanea consentono alla generazione di Dallapiccola e Petrassi il pieno svolgimento di una parabola artistica già sostanzialmente definita. Invece i giovani nati a cavallo fra gli anni ’20 e ’30 si trovano proiettati di colpo in una dimensione non piú soltanto italiana o europea ma mondiale, ricca di fermenti e di scoperte, nella quale il concetto di «nuova musica» è strettamente legato al ripudio delle forme storiche della comunicazione linguistica e alla negazione della continuità con il passato, in favore di un programma e di un’arte d’avanguardia. Si tratta di nomi come Bruno Maderna (1920-73), Luciano Berio (1925), Luigi Nono (1924), Sylvano Bussotti (1931).

Lo sperimentalismo è il connotato fondamentale di questa fase. Messi da parte i linguaggi tradizionali, rimosso alla radice l’obbligo dell’unità del linguaggio (e ciò spiega le scarse o poco rilevanti adesioni alla dodecafonia ortodossa), altri punti di riferimento guidano i musicisti nell’esplorazione delle esperienze piú recenti (la composizione seriale) o delle nuove conquiste (la musica elettronica): alla ricerca, pur nella specificità dei ruoli, di una congruenza fra arti e correnti di pensiero che concorrono a formare il quadro socio-culturale dell’età contemporanea. E basterà solo accennare all’importanza di orientamenti di pensiero, assimilati anche dalla musica, come la sociologia da un lato e lo strutturalismo dall’altro, che incidono sul modo stesso di porsi di fronte all’evento creativo e riproduttivo (1).

Questa situazione, nella quale coesistono in modo singolare attivismo frenetico ed esasperato individualismo, ansia di ricerca e negazione scettica della comunicazione, ha pesanti conseguenze sul piano dei linguaggi, della composizione, del rapporto arte/pubblico: questa crisi segna una netta inversione di tendenza anche nelle relazioni fra musica e letteratura. Se un Dallapiccola poteva ancora musicare una lauda del Duecento sentendo di impegnarsi in un’operazione attuale, ciò non sarà piú possibile per le neoavanguardie; soprattutto in Italia, dove la completa rottura con il passato, e specialmente con l’idealismo crociano, esprimerà l’esigenza di ripensare ex novo le basi di una nuova cultura storicamente contemporanea.

3.2. Crisi e rifondazione dei linguaggi.

Muta dunque radicalmente non soltanto l’approccio alla letteratura (che sarà tendenzialmente letteratura contemporanea, che cioè tratta o partecipa di una situazione di crisi) ma anche il comportamento soggettivo del musicista, sempre meno interessato alla compenetrazione di testo e musica sul piano dell’espressione, della comunicazione e della comprensibilità semantica. In quanto negazione di ogni sintassi discorsiva, il principio seriale apparirà allora l’unica via percorribile per recuperare ad altri livelli una capacità costruttiva non condizionata da modelli precostituiti.

È possibile riscontrare in questo campo due tendenze fondamentali. La prima, di carattere «oggettivo», scompone il testo per ricavarne materiale linguistico elementare e lo centrifuga elidendo i nessi sintattici tradizionali: al canone antico della comprensibilità del testo e della sua giustificazione per mezzo della musica subentrano la disarticolazione semantica e la ricomposizione sperimentale, strutturalmente reinventata con formule indipendenti. La seconda, di carattere «soggettivo», Si serve del testo per farne un veicolo di messaggi occulti e stratificati, sia nel nome di uno strenuo solipsismo negativo sia in quello, apparentemente opposto, di un drammatico impegno esistenziale o politico, pregno di lapidari segni poetici, o gestuali, realistici o allusivi.

Prima che nella musica italiana si affermino queste due tendenze, si assiste a una fase di passaggio ancora condizionata da furori iconoclasti e soprattutto dall’assimilazione di esperienze di provenienza internazionale, nella rarefatta atmosfera delle nuove condizioni in cui circolano le idee e le ricerche. Troveremo cosí i compositori italiani (da Maderna a Bussotti) affiancati in uno stesso impegno accanto ai loro colleghi stranieri (Boulez e Stockhausen, Cage e Messiaen), sempre piú attivamente cooperanti a prendere le distanze da forme idiomatiche e nazionali per ricucire un tessuto linguistico collettivo: utopicamente depurato per di piú da ogni ingerenza soggettiva, da ogni riflesso esterno. E significativo che in questa fase si assista a una caduta vertiginosa del ruolo trainante della letteratura nei confronti della musica, e particolarmente nei nostri musicisti a una vera e propria idiosincrasia per la lingua italiana, per la parola nota come valore che in sé richiama un contenuto e un senso. Sempre piú i nostri compositori si rivolgeranno cosí alle lingue e alle letterature straniere, cercando in esse una maggiore libertà di manipolazione.

Del resto fenomeni come il culto di Webern, il serialismo integrale e il puntillismo da un lato, l’alea, la «musica concreta» e la musica elettronica dall’altro – aspetti complementari di una avanguardia che è nello stesso tempo ricerca e stato d’animo – sembrano escludere, ognuno dal proprio punto di vista e con motivazioni diverse, un durevole rapporto dialettico con le altre arti e con la letteratura in particolare. Spostandosi ogni volta l’interesse dei compositori verso il loro specifico ambito di lavoro, il pretesto letterario verrà inglobato nel processo di manipolazione fonica strutturalmente calcolata ed estremamente differenziata, ma decisa a dissociarsi da ogni memoria o automatismo espressivo pregresso: in sé e solo per sé determinata.

Esponente di questa tendenza è Luciano Berio. Fin dai primi esperimenti elettronici Berio individua nella deformazione di un evento sonoro, mediante la rotazione di molteplici prospettive, il modus operandifondamentale. In un articolo intitolato Poesia e musica, che illustra il suo lavoro ThemaOmaggio a Joyce (1958), cosí descrive il procedimento usato: «Ho condotto l’esperimento tentando un graduale sviluppo musicale dei soli elementi verbali proposti da una voce femminile che legge un testo poetico. Coi mezzi della musica elettronica è evidentemente possibile spingere assai lontano l’integrazione e la continuità tra diverse strutture sonore ed è possibile tanto risalire da un fenomeno all’ipotesi e alla conferma di un’idea – cioè di una forma – quanto il contrario. Nel caso particolare di questa esperienza il fenomeno è la lettura registrata dell’inizio dell’XI capitolo dell’Ulysses di J. Joyce: il capitolo delle Sirene»(2). In questa nuova concezione del rapporto fra parola e musica, accanto alla capacità di combinare ed elaborare i suoni del compositore, entrano in gioco manipolazioni sulla percezione e sul modo di ascolto, sulla struttura linguistica e verbale, sull’integrazione fra i parametri sonori, secondo modelli analogici costantemente variati. Lungo questa strada Berio procederà con eclettismo, cercando l’incontro con la letteratura non tanto nella appropriazione di singoli testi quanto nella collaborazione di forze intellettuali capaci di inserirsi creativamente nel suo progetto compositivo e di arricchirlo cammin facendo. Fra questi stretti collaboratori si troveranno non a caso nomi di punta della nostra letteratura, dapprima protagonisti di esperienze come quelle del «Gruppo 63» in cui Berio stesso è coinvolto attivamente (Umberto Eco, Edoardo Sanguineti), quindi massimamente con Italo Calvino.

Il virtuosismo artigianale di Berio – che ha nel collage la sua cifra – sottintende evidentemente l’ipotesi che la musica contemporanea non possa eludere il confronto con le condizioni reali del suo presente e le premesse tecnologiche del suo futuro. L’idea che l’informa – il progetto di un comune lavoro di ricerca interdisciplinare – costituisce un atteggiamento «positivo» nei confronti del nuovo e del non convenzionale, che guarda con disincanto alla meta di una rifondazione dei linguaggi con finalità di comunicazione intersoggettiva. Forse inevitabilmente, questa rifondazione parte dal presupposto che nell’epoca attuale arte significhi soprattutto rielaborare e riprodurre ai fini di una comunicazione di massa, al di fuori dal concetto tradizionale di creazione.

3.3. Impegno e disimpegno.

Sul duplice piano dell’uso strumentale della voce – quasi smembrata dal testo che la contiene – e dell’impegno politico-sociale opera Luigi Nono. Nono è il compositore italiano che piú risente della lezione vocale di Dallapiccola e di Maderna: da quest’ultimo deriva una spiccata sensibilità per il suono e per le tensioni emotive che scaturiscono da precise situazioni poetiche, saldandosi con le piú moderne tecniche compositive, non esclusa quella elettronica. Diversamente da Maderna, chiuso in un solipsismo tanto ombroso quanto vigile e curioso, Nono tenta di circoscrivere un ambito «letterario» umanamente e socialmente impegnato: se le lettere dei condannati a morte della Resistenza europea gli suggeriscono un capolavoro come Il canto sospeso (1956), dove la denuncia civile e politica diviene premessa di un lirismo sí commosso ma rigorosamente controllato sul piano compositivo, il frequente confronto con i testi di Pavese testimonia fedeltà ideale a certi temi poetici che si prestano a essere interpretati nella severa essenzialità della scrittura seriale, mantenendo tuttavia un profondo significato umano. Soprattutto emerge qui per individualità una tecnica corale che rimarrà tipica di Nono, basata sull’applicazione della polifonia puntillistica al testo verbale: le parole e le sillabe, spezzate e polverizzate, vengono suddivise fra le diverse voci e trattate alla stregua di eventi timbrici isolati; dal loro intreccio scaturisce però un valore semantico che, se è avulso da quello originario, pure lo richiama e lo rievoca a intermittenza attraverso una forte carica espressiva.

Questa fase, che giunge fino ai primi anni ’60, rappresenta un momento particolarmente felice nella carriera di Nono. L’equilibrio si spezzerà quando il compositore opterà per un assunto piú decisamente politico, ricorrendo a collage di testi e situazioni drammatiche di marcato peso ideologico. Quel che sembra allora venire meno è proprio la correlazione fra premesse ideologiche e impiego di strutture musicali differenziate e sempre piú complesse: si genera cosí una distanza anche stilistica fra l’intensa frantumazione del testo, volta a rendere incandescenti le facoltà tecnico-compositive, e i contenuti del messaggio politico, che richiedono chiara comprensibilità e si risolvono di conseguenza o in didascalica semplicità o in retorica celebrativa (per esempio le enfatiche citazioni di canti rivoluzionari in Al gran sole carico d’amore, 1975).

L’utopia di una musica impegnata politicamente non sembra dunque uscire, se non come testimonianza privata di un’adesione soggettiva, dalla tradizionale dicotomia tra forma in sé e contenuto extramusicale, mancando ineluttabilmente l’integrazione con i mezzi linguistici chiamati a realizzarla. Paradossalmente, ci si trova ricacciati nello stesso vicolo cieco dove si radicalizza la crisi della musica «disimpegnata», che viene irrigidita da un’esasperazione formalistica sempre piú accentuata. In questa situazione, resta sempre piú aperta la divaricazione fra musica d’arte e di consumo, resa anche piú problematica dal ritorno di ambizioni poetiche in tutto un filone di musica cosiddetta di consumo (si pensi all’esperienza dei cantautori) e dagli atteggiamenti neoromantici e neoveristi, ora provocatori ora ingenuamente nostalgici, propri di alcune tendenze del riflusso postmodernista.

3.4. Verso un nuovo progetto comune.

 

Gli anni ‘6o e ’70 presentano del resto una riflessione e una stasi rispetto all’animata proliferazione di ricerche del dopoguerra. Esaurita la funzione delle nuove avanguardie, estratte le risorse latenti nei nuovi linguaggi e verificate le possibilità di sfruttamento delle nuove tecniche, a quell’unità di intenti che aveva contraddistinto il rinnovamento della musica europea subentra una frammentazione delle singole posizioni che conduce a un isolamento via via piú marcato. La sempre maggiore identificazione del fatto musicale con la ricerca linguistica, il razionalismo ascetico e l’astinenza espressiva da un lato, l’apertura all’impegno extramusicale e al mercato dall’altro, insieme con le sofisticate strutture compositive offerte dalla moderna tecnologia e amplificate, sovente imposte, dai mezzi di comunicazione di massa, apportano continui mutamenti, che tendono a disperdersi nella varietà delle manifestazioni. Al fondo, si punta semmai a riproporre l’idea di un progetto totalizzante che accomuni musica e letteratura, spettacolo e immagine, gesto e pensiero. Ma rinasce anche, quasi per estremo contrasto, una predilezione per la nuda essenzialità della voce umana che determina le scelte stilistiche e le stratifica sulla base degli stimoli dati dalla frequentazione letteraria. E il caso di Sylvano Bussotti, che riversa nel progetto universale e «aperto» del Bussottioperaballet (dal 1976) seduzioni culturali e passioni poetiche d’ogni provenienza, archetipi letterari e privatissime autocitazioni, ardite sperimentazioni sonore e preziosi simbolismi grafici, deliri decadenti e folgoranti abbandoni all’espressione piú elementare e immediata. Di questo grande «teatro totale» allegorico, responsabile unico è l’autore, insieme musicista, poeta, regista, coreografo, scenografo, costumista e interprete: fusione moderna, e non certo dissimulata, dell’uomo totale del Rinascimento e del superuomo.

La strada dell’ipersoggettivismo, talvolta del narcisismo intellettuale, che si assume in proprio responsabilità e oggetti facendone strumento di esperienza esistenziale non meno che di testimonianza artistica, riunisce cosí le prerogative della totalità della creazione. Ma questa è soltanto una delle molte strade che portano all’elaborazione di un nuovo progetto comune. Le competenze specifiche e le ansie collettive si tendono la mano e si sostengono nello stringersi sempre piú necessario delle esperienze e delle collaborazioni fra musicisti e letterati. Quella estremamente avanzata di Berio con Calvino (La vera storia, 1982; Un re in ascolto, 1984) mira a indagare i rapporti tra creazione e percezione, per dimostrare la possibilità di una molteplice lettura – e dunque di significati molteplici – dei segni prima enunciati e poi sottoposti a riflessione. Quella di Nono con Massimo Cacciari, invece, è tutta tesa a recuperare il mistero dell’atto compositivo originario, del suono che si individua uscendo dal magma della babele linguistica: ma anche il sottotitolo della loro ultima e riassuntiva opera, Prometeo, «tragedia dell’ascolto» (1984-85), sembra riaffermare il valore primario di una tematica alla quale è legata la ricerca di identità di gran parte della musica contemporanea.

NOTE

(1) Accanto al testo fondamentale della sociologia musicale, TH. W. ADORNO, Einleitung in die Musiksoziologie. Zwölf theoretische Vorlesungen, 1962 (trad. it. Introduzione alla sociologia della musica, Torino 1971), cfr., per una panoramica piú vasta e riassuntiva, A. SERRAVEZZA (a cura di), La sociologia della musica, Torino 1980. Per quanto attiene la semiologia della musica, il testo base è quello di J.-J. NATTIEZ, Fondements d’une sémiologie de la musique, Paris 1975; cfr. anche G. STEFANI, Introduzione alla semiotica della musica, Palermo 1976.

(2) L. BERIO, Poesia e musica, in «Incontri musicali», III (1959), p. 7.

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