Arthur Honegger, un mosaico fra progresso e conservazione

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Cento anni fa, il 10 marzo del 1892, nasceva Arthur Honegger (morto nel 1955). Inquadrarne la figura nella musica del nostro secolo, di cui egli incarnò molti aspetti emblematici senza aderire mai del tutto a una tendenza, a un filone dominante, neanche di quel gruppo d’avanguardia, i “Sei”, a cui pur appartenne, non è semplice. In ogni secolo ci sono compositori che costituiscono una sorta di tessuto connettivo attorno alle grandi linee maestre del progresso o della conservazione, guardando ora all’una ora all’altra, ma senza assolutizzarne i programmi o condividerne fino in fondo i proclami. Solo col tempo queste figure emergono sempre più dallo sfondo e acquistano una fisionomia con contorni precisi: come se la loro messa a fuoco dipendesse da una naturale decantazione delle passioni. È il caso di Honegger.

Honegger fu nel suo tempo il più tedesco dei musicisti francesi, il più arcaico dei moderni, il più speculativo degli antispeculativi. Di lui non esistono opere che possano fungere da sintesi di una personalità, darci la parte per il tutto. Semmai ognuna aggiunge un tassello per la ricostruzione del mosaico. E non c’è nella produzione di Honegger una chiave di lettura univoca, per continuità o contrasto, per affinità o differenza: in ognuna delle sue opere si manifesta un atteggiamento di  fronte alla creazione che potremmo chiamare il rifiuto del condizionamento storico. Honegger ha composto moltissimo, spaziando attraverso i generi e le epoche. In alcuni casi ha preso di mira la condizione contemporanea traducendola in musica in una contemplazione oggettiva, quasi distanziata: componimenti che fecero epoca, come Pacific 231 o Rugby, non nascevano affatto dal fascino del modernismo bensì dalla passione che egli nutriva per la tecnica e il gioco, perseguendo un’idea astratta e del tutto positiva della logica del comporre. Il suo interesse andava semmai al modo in cui il linguaggio potesse determinare in forma compiuta e comunicabile la costruzione musicale, e dunque investiva in primo luogo una questione inventiva e realizzativa. Ciò riguardava anche le opere d’ispirazione religiosa o sacra, come Roi David o Judith, o il grande affresco della Jeanne d’Arc au bûcher, il suo capolavoro: opere che niente hanno a che fare con la realtà storica, o che la reinventano in un personalissimo percorso poetico e sonoro. Solo superficialmente questo stile può essere definito trasformismo o eclettismo; al contrario, si trattava di un’idea ben precisa dell’identità della musica: una riflessione e un’espressione della eterna condizione umana.

Honegger fu in contatto con tutte le maggiori personalità della sua epoca, non soltanto della musica, ma anche della letteratura, delle arti, della filosofia. Scrisse musica per film (memorabile almeno la sua partecipazione al colosso Napoléon di Abel Gance), opere radiofoniche e sarebbe stato certamente attratto dalla televisione. Ma senza mai considerare questi mezzi come un connotato privilegiato dell’attualità: essi erano semplicemente una base su cui conformare la sua idea di musica. Che partiva da un retroterra classico e accumulava su di esso le conquiste che si erano sovrapposte nel tempo, considerandole arricchimenti e materiale da costruzione. Il suo artigianato era di qualità rara, perché fatto di pezzi unici, inconfondibili. Molti dei quali, fino alle ultime Sinfonie, testimoniano che il nostro secolo non è vissuto solo sulla frattura col passato, ma anche sulla valorizzazione di un patrimonio di gusto e cultura.

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