Bergman, artigiano di genio

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«Da quanti anni ci conosciamo? Venticinque? E ha ancora voglia di venire fin quassù a vedere questo vecchio dinosauro?». Ingmar Bergman non è, come si potrebbe pensare basandosi sulla fama del personaggio e sui suoi film, un uomo scontroso, ombroso, cupo. Al contrario, ama la battuta, si diverte a provocare, e fa squillare spesso quella sua sonora risata anch’essa famosa che costituisce un enigma nell’enigma: tic liberatorio o ritornello senza parole di uno scetticismo infinito? Naturalmente questo accade solo con quelli di cui si fida: e basta un lampo dei suoi occhi, aguzzi e penetranti da far paura, per farti capire se sei tra gli ammessi. Non gli sono mai piaciuti quelli che hanno ricamato sul suo pessimismo. «Da bambino avevo un grande talento comico. Questo talento è stato umiliato, mortificato, soffocato dalla famiglia, dalla religione, dalle convenzioni sociali. Ma», ricorda, «una delle gioie più intense della mia vita è stata alla proiezione con la quale veniva presentata la mia prima commedia (il film Lezione d’amore, del 1953), quando ho sentito che il pubblico in sala rideva: rideva di una cosa che avevo fatto io!».

D’altronde, ha sempre sostenuto che l’istinto, nella vita come nell’arte, sia l’unico mezzo di conoscenza di cui fidarsi: certo anche un modo di abbreviare, nella concitazione di molteplici urgenze, i tempi delle risoluzioni, neutralizzando il corro circuito delle emozioni. Con il passare degli anni Bergman ha sentito sempre più il bisogno di raccontarsi. Finita l’epoca dei grandi film (con Fanmy e Alexander, già nel 1982), per farlo ha scelto altre strade, vecchie e nuove per lui, come il teatro e il romanzo: acconsentendo che altri traducessero i suoi racconti in immagini al cinema, prima Bille August con la storia della sua famiglia (Con le migliori intenzioni), poi Liv Ullmann, colei che è stata per qualche anno anche la sua compagna, con le vicende della sua stessa vita (Conversazioni private, L’infedele): film che hanno continuato a parlarci in forma indiretta del mondo poetico e spirituale di Bergman.

 

SEMPRE IN FORMA. Oggi Bergman si avvia a compiere 84 anni ed è un prodigio di vitalità e di dinamismo. Più che un dinosauro, un camaleonte. Veste la sua divisa di sempre, camicie svedesi a scacchi e giubbotti invariabilmente beige, ma ha aggiunto un tocco giovanilistico che a prima vista stona con l’immagine del mostro sacro: scarpe da ginnastica bianche da atleta. «Sono comode», dice accorgendosi che le guardo con curiosità, «ci cammino bene». Si è ripreso a meraviglia dall’operazione all’anca che per molti mesi lo aveva costretto ad accompagnarsi con un bastone: ora il passo è agile, svelto, quasi alato. Sul viso magro e affilato si è fatto crescere una barbetta ispida, birichina e inquietante, con un pizzetto vagamente mefistofelico. Parla con piacere un tedesco elegante, quasi forbito, affinato negli otto anni nei quali, esiliatosi volontariamente dalla Svezia per un’accusa di evasione fiscale poi dimostratasi infondata, si era rifugiato a Monaco di Baviera, continuando a fare teatro e film. Ricorda quel periodo con insofferenza: solo dopo ha capito quanto gli mancassero la sua terra, la sua lingua, le sue abitudini.

E’ polemico con l’attuale situazione svedese («La cultura non è considerata, si tagliano con disinvoltura fondi e idee, i giovani autori sono costretti a seguire i modelli americani»), ma sa che non potrebbe fare a meno dell’ambiente che si è scelto.

Oggi vive la maggior parte del suo tempo isolato nell’isola di Farö (non si può capire Bergman senza conoscere cosa significhi quest’isoletta sperduta nel mar Baltico), dove possiede un’intera tenuta con tanto di sala dì proiezione privata e di ipotetico set e dove lavora, circondato dalle sue ossessioni, fantasmi, demoni e altri esseri senza nome e senza dimora che invariabilmente tornano a visitarlo fra le tre e le cinque del mattino: «Ma da quando, anziché cercare di fuggirli, ho imparato a conviverci – dice – le cose vanno decisamente meglio». Stoccolma è invece meta di periodi più brevi per lo più legati agli impegni al Teatro Reale Drammatico, il mitico Dramaten, in cui da quarant’anni il regista Bergman continua a produrre spettacoli memorabili.

L’occasione cli questo incontro è data appunto dal nuovo allestimento degli Spettri dì Ibsen al Dramaten. Per la prima volta in sessant’anni di carriera teatrale Bergman ha voluto tradurre personalmente il testo e rielaborarlo in una sorta di specularità con i suoi spettacoli precedenti, il Sogno e la Sonata di fantasmi di Strindberg: come se dovesse costituire un compendio non soltanto dei temi che da sempre lo attraggono, «bergmaniani» per eccellenza, ma anche di uno stile teatrale sempre più prosciugato ed essenziale, fatto quasi esclusivamente di parola e di atmosfera. L’eccezionalità dell’evento è accresciuta dal fatto che Bergman ha dichiarato di considerarlo il suo congedo dal teatro, tappa estrema dì una ricerca che da Ibsen e Strindberg conduce direttamente a lui come autore. Non farà più teatro, dunque? Naturalmente questa non è una domanda da porgli; anche perché Bergman parla del suo lavoro con una passione che non sembra conoscere la parola addio. «Sì, ho tradotto io stesso Ibsen perché mi sembrava che le traduzioni esistenti non rendessero la modernità del testo, la sua essenzialità che ruota attorno a un dramma familiare di proporzioni gigantesche. Il nucleo familiare ferito e disgregato, segnato da illusioni, sogni, ricordi, speranze e inadeguatezze dolorose, è la sostanza centrale del dramma: il resto è solo cornice d’epoca. Attorno si dispongono temi secondari, che ho cercato di mettere in luce con la mia rielaborazione: il moralismo clericale, l’amarezza, la paura, il cinismo, la menzogna come mezzo di sopravvivenza, la meravigliosa tenerezza di istanti che sospendono il tempo e lo spazio in un sogno di riconciliazione, la malattia come rivelazione, la riposta alla domanda della morte. Ibsen ha toccato tutti questi temi con spietata, talvolta comica crudeltà, tendendo la mano a Strindberg: questo dramma è la sua Sonata di fantasmi. Per questo ho usato alcune citazioni non soltanto dalla Sonata di fantasmi ma anche dal Pellicano, per completare il pensiero di Ibsen. E questa la grande costellazione del dramma familiare Gengangare, commedia e tragedia insieme. E a proposito del titolo: ciò che in altre lingue si traduce abitualmente Gespenster, o Ghost (Spettri appunto), nell’originale significa più precisamente “”coloro che ritornano””: non solo i fantasmi dell’immaginazione, ma anche parti reali di noi stessi e degli altri che ci circondano e che ora riemergono e ora si inabissano».

 

OGGI IN SCENA. Il moto pendolare nella gabbia dell’eterno ritorno trova in Bergman anzitutto una definizione scenica. Accompagnata dalle note tenui, misteriose e spettrali, di un brano per pianoforte di Arvo Pärt (Per Alina, suonato dalla ex moglie di Bergman, Käbi Laretei: anche lei un fantasma di famiglia?), la messa in scena si basa su pochi arredi, tutti provenienti da precedenti allestimenti di Bergman: «La pendola laggiù è comparsa in Racconto d’inverno, e la statua in Sonata di fantasmi. Quel divano l’ho usato in Casa di bambola, e le sedie nell’ultima edizione del Sogno. Li conosco come le mie tasche e lì saluto come se fossero vecchi amici. Mi dà un senso di sicurezza il fatto che ci siano e che si lascino usare da una messa in scena all’altra». I movimenti di una piattaforma girevole, che offre prospettive di taglio cinematografico, sono nel mutare delle situazioni l’unico elemento dinamico di un ambiente chiuso e statico, dì color verde marcio, soffocante nella sua stessa ordinata concentrazione: una penombra dell’anima delimitata da tendaggi scuri, che non lasciano intravedere vie d’uscita. E’ in questa economia, e solo lì, che per Bergman si ricrea il mondo del teatro: «Tavolo, sedie, divano, quinte, palcoscenico, luci, attori in abiti di tutti i giorni, voci, gesti, visi, silenzio. Magia. Tutto rappresenta, niente è». Il peso della rappresentazione ricade così tutto sugli attori, che sono anch’essi vecchie conoscenze della famiglia Bergman, se non addirittura, come Jan e Jonas Malmsјö (rispettivamente il pastore Manders e Osvald Alving), padre e figlio nella realtà: su tutti un nome, quello ben noto di Pernilla August nel ruolo della signora Alving, ennesima incarnazione suprema dell’universo femminile bergmaniano. Ci si stropiccia gli occhi non solo per l’emozione, ma anche per la bravura di queste figure di attori capaci di passare in un battito di ciglia dalla recitazione della tragedia più cupa all’ironia esilarante della commedia.

 

ULTIMA SCENA. Se Ibsen diviene un po’ Strindberg, alla fine tutti e due si riconoscono in Bergman in quella scena conclusiva che è una delle più celebri di tutta la storia del teatro, e non solo per la battuta, infantile e metafisica insieme, pronunciata da Osvald ormai impazzito: «Mamma, dammi il sole». Nel testo di Ibsen la madre atterrita rimane muta di fronte alla richiesta del figlio di dargli la morte con la morfina, irrigidita e incapace di una decisione mentre egli, sempre più immobile, ripete allucinato «Il sole, il sole». Drastica è invece la soluzione di Bergman. Dopo un ultimo abbraccio che ricompone anche figurativamente l’immagine religiosa della pietà, mentre Osvald si toglie gli abiti e striscia ai suoi piedi nudo come un verme, la signora Alving con atto risolutivo gli mette in bocca le pillole mortali e lo aiuta a mandarle giù con gli ultimi sorsi di una coppa di champagne: accenno blasfemo al rito sacro della comunione o ritorno alla condizione primaria di un mostruoso allattamento? Poco prima la signora Alving aveva opposto alla richiesta del figlio di aiutarlo a morire una ovvia constatazione: «Come potrei, io che ti ho dato la vita?». Al che Osvald le aveva risposto: «Non te l’ho chiesta. E che sorta di vita è quella che mi hai dato? Non so che farmene. Riprenditela. Se hai per me un cuore di madre come puoi vedermi soffrire quest’angoscia senza fine?».

Il sole che si materializza come un enorme grumo di sangue rosso vivo sul fondo della scena mentre la madre spezza il nodo insolubile è dunque per Bergman la morte stessa, invocata dal figlio ormai incosciente e offertagli come un dono d’amore dalla madre. Gli ultimi istanti della rappresentazione sono di una tensione quasi insostenibile: abbandonando Osvald ai suoi rantoli, la signora Alving avanza sola sul proscenio e fissa la sala con un’espressione ambigua, insieme dolorosa e inebetita. E la stessa posizione in cui l’avevamo trovata all’inizio, all’apertura del sipario nel primo atto, con la stessa espressione interrogativa, di sperdimento onirico. Forse tutto è stato solo un orribile sogno.

Vorrei chiedere a Bergman se non sia stata questa scena finale, portata a un’intensità teatrale per lui stesso (e per gli attori) estrema, a spingerlo a rappresentare proprio ora questo dramma di Ibsen. Ma preferisco evitare (l’uomo è tuttavia imprevedibile, e non vorrei incappare in uno dei suoi proverbiali scatti d’ira contro le domande indiscrete dei giornalisti, razza aborrita), e perciò la butto sul generale. In fondo, azzardo semplificando, si tratta di un caso di eutanasia; e proprio lui, Bergman, si è di recente espresso pubblicamente in un’intervista su questo tema, che ha avuto anche da noi risonanze speciali, molto attuali (gli racconto, tanto per prendere tempo, l’uscita di un grand’uomo come Indro Montanelli, e le polemiche che ha suscitato). Insomma, qual è il rapporto di Bergman con la morte, che è stato un motivo centrale dì tutta la sua creazione? Risponde dopo un lungo silenzio.

«Mio padre era prete. Quando era vecchio e malato, gli chiesi che cosa provasse di fronte alla morte. Lui rispose: ne ho un po’ paura. Quando si è giovani, nel pieno dell’attività, la fine appare lontana e si pensa: avanti, questa è la nostra unica vita, un “”prima”” e soprattutto un “”dopo”” non esistono. Questo pensiero può arrivare a dare un grande senso di sollievo. L’ossessione della morte può diventare un gioco, o anche un pericoloso esorcismo: la morte è un orrore senza soluzione, non perché dia dolore ma perché è piena di brutti sogni da cuì non cì sì può svegliare. Poi, all’improvviso, si smette di fare film, si cominciano a contare le messe in scena all’indietro, le persone care che non ci sono più, riaffiorano i ricordi e i fantasmi. Demoni, angeli, Dio che non risponde, i morti che non sono morti, i vivi che si muovono come spettri. E la prospettiva cambia. La vecchiaia è una brutta malattia, ma può essere combattuta fino a che il corpo e la mente mantengono un livello minimo di collaborazione e di decenza. Oltrepassato quel limite, non c’è più ragione di vivere. In tal caso io rivendico il mio diritto a scegliere il momento in cui porre fine alla mia vita. Il problema è il modo con il quale assicurarmi l’esercizio cli questo diritto. Un modo sicuro e indolore. Un aiuto consapevole. Non si tratta di un problema sociale, ma unicamente individuale».

Il paradosso della madre che sopprime il proprio figli è dunque soltanto apparente. «Se vogliamo è un fatto contro natura. Ma Osvald non è soltanto un giovane malato terminale, è un essere psicologicamente incapace di continuare a vivere. Non ha più nulla da chiedere alla vita. Chiede soltanto che la madre lo aiuti a morire. E terribile, terribilmente doloroso, ma la signora Alving compie alla fine questo gesto di pietà, ed esso suggella un dramma interiore, sospeso, di portata più generale. So benissimo che la tesi della malattia ereditaria è scientificamente superata, almeno rispetto a come la poteva intendere Ibsen alla sua epoca. Ma qui non si tratta di questo. E’ un mistero, un quesito esistenziale, un simbolo che risale alla notte dei tempi, almeno all’epoca della antica tragedia greca, quando si credeva che le colpe dei padri ricadono sui figli. Mi chiedo: qualcuno dei miei figli ha ereditato le mie sensazioni? Si possono ereditare sensazioni, impressioni, conoscenze?».

 

CIAK, SI GIRA. Mi guardo bene, sebbene la tentazione sia forte, di dire a Bergman che nel suo caso lo spauracchio dell’ultimo crocicchio appare ancora lontano. Non si muore a metà dell’ultimo atto, come dice un personaggio di un altro dramma di Ibsen a lui caro, Peer Gynt. Se davvero questa degli Spettri sarà la sua ultima regia teatrale, ecco che si annuncia un clamoroso ritorno, che ha il sapore di una sfida: in settembre Bergman tornerà a dirigere un film con i suoi attori preferiti, Erland Josephson e Liv Ullmann. La sceneggiatura è già pronta, il film si intitolerà Anna (il nome di una compagna delle scuole medie, la sua prima fidanzata, poi morta suicida) e lo produrrà la televisione svedese. Qualcuno ha scritto che sarà il seguito di Scene da un matrimonio, il suo film di maggiore successo internazionale. Altra sonora risata. «E’ una sciocchezza, la verità è che mentre traducevo il testo di Ibsen mi sono apparsì i fantasmi di Johann e Marianne (i protagonisti di Scene da un matrimonio), che mi hanno chiesto imperiosamente di conoscere il loro destino. Che cosa è accaduto loro nel frattempo? Non ho potuto tirarmi indietro. Ho cominciato a scrivere la sceneggiatura e a poco a poco si sono aggiunti altri fantasmi, altre apparizioni che si mescolavano con i “”ritornanti”” di Ibsen. Ho iniziato, quasi senza volere, un altro viaggio nei sogni e nei ricordi, fino alle radici dell’infanzia».

Infanzia, parola che per Bergman ha un suono magico: il ciclo della vita che collega, come nel dramma di Ibsen, inizio e fine. Nella sua autobiografia intitolata Lanterna magica (del 1987!) Bergman ha scritto: «Ci sono immagini mobili, con suono e luce, che non vengono mai tolte dal proiettore dell’anima ma continuano a scorrere ininterrottamente per tutta la vita con immutata, obiettiva chiarezza. E solo la comprensione di se stessi che avanza continuamente e spietatamente verso il profondo, verso la verità». Bergman ci ha messo costantemente a parte di questo processo: il segreto della sua grandezza d’artista, di fabbricante d’immagini, sta anche in questo impulso che costringe a guardarsi dentro senza finzioni, con gli occhi stupefatti di un bambino e l’esperienza matura di un vecchio saggio. Adesso che è diventato, dopo essere stato un autore amato e osannato nel mondo, anche un’icona nazionale, l’attributo di genio non gli viene lesinato neppure dai critici del suo Paese, con i quali non ha mai avuto rapporti sereni. Ingmar Bergman aggrotta le sopracciglia. «Io non sono un genio, sono un artigiano. Con il tempo sono diventato un artigiano maledettamente abile ed esperto, che sa di fare buoni articoli, generi di prima necessità. Roba di cui la gente normale ha bisogno nella vita di tutti i giorni per stare un po’ meglio e dimenticare la melma in cui vive. Per poter piangere un po’ e ridere un po’ e magari rabbrividire un tantino. E questo è tutto».

diario, a. VII, n. 13

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