Berlino capolinea dell’Europa

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La prima, confusa impressione che si riceve visitando Berlino a tre anni dalla caduta del muro è quella di una città, anzi di una metropoli, al bivio: incerta se imboccare risolutamente la strada che addita (quanto in fondo?) una via di uscita in senso europeo o diventare, suo malgrado, quello che fu Vienna alla fine del secolo scorso, il “laboratorio di un’apocalisse”; con tutti i requisiti tecnologici e spettacolari del crepuscolo non di un secolo, ma di un intero millennio. L’immagine più emblematica, sinistramente affascinante, è quella che circonda il perimetro attraverso cui si snodava il muro, soprattutto nel segmento che unisce il Reichstag e la Porta di Brandeburgo con il Potsdamerplatz: un’immensa spianata ancora piena di cumuli di macerie, che sembra in attesa di un destino. Il nuovo centro della città è fissato all’intersezione del viale Unter den Linden con la Friedrichstrasse: sono luoghi ricchi di storia e di cultura, feriti profondamente da cinquant’anni di isolamento e ora investiti da un’ansia di rinnovamento quasi feroce. La nuova Berlino capitale di una nuova Germania economicamente e culturalmente ambiziosa cerca la sua identità partendo di lì, dal recupero di un’unità non solo territoriale.

Nessuna città europea offre oggi altrettanti stimoli, altrettanta varietà di proposte. Soprattutto in ambito musicale. E non si tratta solo di quantità. Tre teatri d’opera che coltivano il repertorio, aperti praticamente tutte le sere (la Deutsche Staatsoper Unter den Linden e la Komische Oper, ex “fiori all’occhiello” della Ddr, più la Deutsche Oper, sorta a ridosso del quartiere consumistico occidentale dopo la divisione: un edificio di avveniristica bruttezza, se paragonato con la classica eleganza, ora in via di restituzione al suo antico splendore, degli altri due); cinque orchestre sinfoniche con cicli regolari in abbonamento, tra le quali spiccano naturalmente i Berliner Philharmoniker e l’ex Rias Berlin, ora ribattezzata Radio Sinfonie Orchester: affidate rispettivamente, come direttori stabili, a Claudio Abbado e a Vladimir Ashkenazy. La sala della Philharmonie, riaperta dopo un anno di restauro, ospita non solo i concerti di queste, a rotazione, ma anche i complessi che provengono dall’estero, con cadenze frenetiche; le è d’aiuto, a poche centinaia di metri di distanza (e fa una certa impressione seguire a piedi il percorso, un tempo impedito), il magnifico Schauspielhaus, capolavoro di Schinkel, ormai stabilmente adibito alla musica: sede della Staatskapelle Berlin, dal passato glorioso, ora nelle mani di Daniel Barenboim, Generalmusikdirektor della Lindenoper. La quale, dopo aver festeggiato il 7 dicembre scorso con una grande festa i suoi due secoli e mezzo di vita (una meraviglia voluta da Federico il Grande, poi regno di Spontini, di Meyerbeer e del giovane Strauss, luogo di battesimo del Franco cacciatore di Weber, nonché del Wozzeck di Berg), aspira a diventare il modello di un teatro europeo tanto radicato nella storia tedesca quanto aperto alle esperienze del futuro. Già: ma quali esperienze?

«Berlino, essendone l’epicentro, vive in forma profondamente amplificata le trasformazioni della riunificazione tedesca. Ci vorranno anni prima che si raggiunga un ritmo naturale anche nell’attività musicale. Ora il rischio è duplice: c’è una concorrenza esasperata per la ridefinizione dei rispettivi compiti, il che coinvolge anche la distribuzione dei finanziamenti pubblici e la lotta per l’accaparramento di quelli privati; e c’è la tendenza, non meno pericolosa, a volersi distinguere comunque, per scalare la vetta e giungere primi, magari con operazioni d’effetto. La soluzione sta nel riannodare i fili col passato, con la tradizione, senza dimenticare che Berlino è oggi un ponte tra culture diverse che aspirano a ricongiungersi, non a separarsi». Per Barenboim, che così si esprime, la gradualità di questa riappropriazione della storia di Berlino città cosmopolita (non a caso ha voluto presentare all’inizio della sua prima stagione La sposa sorteggiata di Busoni, compositore di frontiera) è la premessa di un’espansione che qui si affermi in una dimensione anche internazionale della musica. «Sarà una pura coincidenza – continua Barenboim –

ma il fatto che a Berlino in questo momento si trovino a lavorare stabilmente personalità differenti come Abbado o Ashkenazy, o io stesso, nessuno dei quali è tedesco, è la dimostrazione che gli orizzonti sono aperti». Eppure queste presenze sono discusse, e non solo per questioni artistiche.

Götz Friedrich, per esempio, sovrintendente della Deutsche Oper, vanta crediti, peraltro dubbi, che oggi rischiano di cadere in prescrizione: «Non accetto un declassamento del mio teatro, che per anni è stata la voce di una città piagata e sofferente. Libertà è una parola che deve essere conquistata: non può essere appannaggio solo degli ultimi arrivati».

Il peso delle memorie si mescola in modo inquietante, fino a diventare esplosivo. Se la Komische Oper (tutte le opere vi sono date in lingua tedesca) continua a sciorinare il suo repertorio di plumbee e ottuse attualizzazioni di marcata linea ideologica (sempre sul versante della storia tedesca d’anteguerra: i misfatti degli ultimi cinquant’anni non contano), la Lindenoper e la Deutsche Oper, rivali sul piede di guerra, spostano l’asse del tutt’altro che rinnegato Musiktheater, o Regietheater, sul piano dell’astrazione simbolica, gareggiando in reticenza: come per sospendere il confronto con la realtà, disinnescandone il potenziale esplosivo. Si prende tempo, in attesa di cominciare a giudicare su nuove basi: per paura di sbagliare. Siamo molto indietro rispetto al teatro di prosa, che ha cominciato la revisione ponendosi interrogativi coraggiosi, dall’interno, senza rinnegare il passato. Berlino ne è oggi il cuore.

Molto sta cambiando in seno ai Berliner Philharmoniker. Abbado ha introdotto la novità di un primo ciclo organico di autori contemporanei (Ligeti, Nono, Rihm, Lutoslawski, Berio), distribuiti tra i cinque Concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven con Pollini. È stato un successo, di cui è però difficile valutare la portata.

La sera in cui è stato eseguito Il canto sospeso di Nono, il programma di sala conteneva un messaggio politico contro il razzismo e l’intolleranza del nostro tempo, firmato, oltre che da Abbado, dal nuovo sovrintendente – uno svizzero – e dai rappresentanti dei Berliner. Si sono letti, prima dell’esecuzione musicale, i testi dei condannati a morte della Resistenza europea, utilizzati da Nono. È stato un errore, generalmente rimarcato. Non c’era bisogno di rendere esplicito ciò che è già implicito nella musica. Anche questo è un sintomo del voler affermare un cambiamento, mascherando un disagio.

Il portavoce dei Berliner, Helge Grünewald, lo riassume in modo penetrante: «Prima a Berlino c’erano dei blocchi, si procedeva per compartimenti stagni. Ogni orchestra aveva il suo repertorio specifico, la sua identità. I Berliner si identificavano con Karajan, e Karajan coi Berliner: la certezza al quadrato, anche per il pubblico. Con Abbado le cose sono cambiate. Abbado ha portato le sue inquietudini, le sue passioni: non le ha imposte all’orchestra, le ha solo per così dire messe in circolo, attendendo una reazione. La reazione all’inizio è stata brusca, ora si sta assestando in una graduale trasformazione. In altre condizioni il pubblico sarebbe rimasto sconcertato; ma non oggi, quando a Berlino si sta vivendo un analogo cambiamento, ben più generale. Siamo diventati tutti più poveri, e questo ha provocato disagio; ma anche una grande voglia di capire quali saranno i prossimi passi, da compiere tutti insieme».

Berlino assomiglia a una grande vetrina, lussuosa e squallida, sfarzosa ed effimera, invitante e repellente. La città ridiventata metropoli espone se stessa, la sua storia, le sue tradizioni, le sue ferite, il suo orgoglio, la sua cultura infranta e ricomposta.

Ma nell’esposizione si riflette anche l’Europa che sta per nascere, che forse è nata già morta; mai così vicina, mai così lontana come appare dietro i vetri luccicanti dell’illusione: qui nella luce, aurorale e crepuscolare, dell’infinito possibile.

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