Brahms l’enigmatico

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Nessun apparato critico riguardante Brahms può prescindere dall’articolo Vie nuove, scritto da Robert Schumann nel 1853 per la sua rivista Neue Zeitschrift für Musik: «Ed è venuto questo giovine sangue, alla culla del quale hanno vegliato Grazie ed Eroi. Si chiama JOHANNES BRAHMS […] Trasparivano dalla sua persona tutti quei segni che ci annunciano: ecco un eletto! Quando si mise al pianoforte cominciò a scoprirci regioni meravigliose: noi venimmo attirati in un circolo sempre più magico. Aggiungete a questo un modo di suonare quanto mai geniale, che fa del pianoforte un’ orchestra dalle voci ora lamentose ora esultanti di gioia. Erano sonate, o piuttosto delle sinfonie velate – canzoni, la cui poesia si potrebbe comprendere senza saper le parole, benché una profonda melodia di canto le attraversi tutte – singoli pezzi per pianoforte, in parte d’una natura demoniaca ma dalla forma più leggiadra, poi sonate per violino e pianoforte – quartetti per archi – e tutto così diverso che ogni cosa pareva sgorgare da altre sorgenti. Poi sembrava ch’egli, passando come un fiume scrosciante, riunisse tutte queste sorgenti in una cascata che, coronata da un calmo arcobaleno, veniva accompagnata nel precipitare del suo corso da svolazzanti farfalle e da canti di usignoli». Brahms reagì alla sua maniera: «Gli elogi che Lei mi ha tributato pubblicamente», scrisse a Schumann, «hanno probabilmente aumentato in modo straordinario le aspettative del pubblico nei confronti della mia opera, così che io in certo qual modo non so come possa render loro giustizia. Penso di non pubblicare alcuno dei miei Trii […] Le parrà naturale che io cerchi con tutte le mie forze di farla sfigurare il meno possibile».

Brahms, l’insondabile. C’era in lui un lato da enfant terrible, in rapporto diretto sia con la sua riservatezza sia con il suo piacere per la mistificazione e la mascheratura. Una certa rudezza nordica, una certa asprezza e malagrazia dovettero urtare gli ambienti raffinati della società viennese. Uno che lo conosceva bene, e che intrattenne con lui una lunga corrispondenza, il chirurgo viennese Theodor Billroth, scrisse al riguardo: «Brahms resta per me un enigma pieno di punti interrogativi, che io non arrivo a risolvere. Sono incapace di scoprire il punto di congiunzione tra la sua profonda gravità, la sua grande tenerezza e la maleducazione nel suo modo di comportarsi nella società più seria. Il piacere di ferire, quella specie di piacere maligno a provocare dei risentimenti in altri, gli è connaturato quasi come una necessità. Si tratta senza dubbio di un resto di acredine, eredità degli anni della sua gioventù, del periodo in cui alcune opere sue, scritte col sangue, erano oggetto di riso per il pubblico. Ma, continuando in questo modo, riesce difficile volergli sempre bene!».

Brahms era restio ad aprirsi e   scoprirsi, anche sulle proprie creazioni. Le sue lettere, pur piene di dettagli e di particolari, sono un capolavoro di reticenza e dissimulazione, ma sottintendono anche un forte desiderio di contatto e, alternando ipocondria e dubbi continui, svelano slanci inattesi di generosità. Scrisse nel 1872 a Clara Schumann, la sua «musa», per la quale aveva una devozione immensa: «Passo sempre le feste in grande solitudine, tutto solo o con pochi cari amici nella mia stanza e molto tranquillamente – giacché i miei sono morti o sono lontani. Come mi fa bene allora sentire con voluttà quanto l’animo umano possa essere colmo d’amore. La verità è che io dipendo dal mondo esterno; la baraonda in cui si vive – non mi fa ridere e non partecipo alla menzogna – ma è come se il meglio di noi si appartasse e solo metà della persona procedesse ancora come in sogno». E ancora, nel 1888: «Nuoto nell’oro, senza che me ne accorga in nessun modo o che me ne venga qualche piacere. Non posso, non voglio e non mi piace fare una vita diversa; sarebbe inutile dare ai miei più di quanto dia loro e, quando il cuore me lo detta, posso aiutare qualcun altro e far del bene come mi pare e piace senza accorgermene. In quanto a quel che sarà dopo la mia morte, non ho alcun obbligo né desideri speciali». Non gli mancarono peraltro amici e sostenitori fedeli, tra i quali il grande violinista Joseph Joachim e l’influente critico viennese Eduard Hanslick, che condivise con lui l’avversione al partito wagneriano dei «musicisti dell’avvenire». Brahms, l’enigmatico. Nietzsche lo bollò in uno scritto famoso con una definizione destinata a pesare nella pubblicistica: «Egli ha la malinconia dell’impotenza; non crea dalla pienezza, ma ne è assetato». Schönberg rivendicò invece in lui il segno del grande progressivo.

Brahms fu un sommo esponente tanto della musica vocale quanto di quella strumentale, nella quale seppe innervare la matrice classica di sostanza romantica. Paolo Landormy ne inquadra così i confini: «Nella musica da camera Brahms introdurrà lo spirito del Lied e il suo romanticismo, come avevano già fatto Schubert e Schumann, ma con la differenza che mentre i due musicisti, pur conservando alcuni procedimenti del metodo classico, non ne penetravano più lo spirito, Brahms al contrario ne ha colto meravigliosamente il principio fecondo. […] Le sonate di Brahms, almeno in ciò che hanno di più perfetto e di più personale, presentano dunque un doppio aspetto: da una parte i temi, ispirati alla canzone popolare, saranno molto semplici, saranno ingenui, quasi sempre, teneramente malinconici, come è in generale il Lied tedesco; dall’altra l’architettura delle opere alle quali questi temi danno luogo sarà estremamente sottile e sapiente. Da questo contrasto fra la materia e la forma delle sonate di Brahms – e, in modo più generale, delle sue più importanti composizioni strumentali – risulterà il loro sapore particolare, la loro vera oriinalità».

I Trii furono oggetto di acuminata attenzione da parte di Clara Schumann, che li tenne praticamente a battesimo. Ecco alcuni giudizi. Sul Trio op. 87: «E’ stato un vero ristoro musicale questo Trio! Vorrei avere qui gli strumenti, mentre non ho che un misero pianoforte su cui l’effetto si può solo immaginare! Ecco un altro magnifico lavoro! Come m’incanta, e come sono ansiosa di sentirlo per bene! Mi piace ogni tempo; che splendido lo sviluppo, come vi si sfoglia un motivo dall’altro, una figura dall’altra! Che incanto lo Scherzo, e l’Andante con il grazioso tema a ottave parallele di tono popolare! Come è vivo l’ultimo tempo e interessante nelle sue ingegnose combinazioni!». Sull’op. 101: «Che lavoro meraviglioso e toccante! Assolutamente geniale per passione, forza di idee, grazia e poesia! Finora nessun alto lavoro di Johannes mi ha tanto trascinato; e che soavità nel secondo tempo [in realtà il terzo], mirabilmente poetico! Stasera sono felice come non lo ero da tempo». Sull’op. 40: «Non hanno capito questo lavoro così ispirato e interessante, benché il primo tempo trabocchi di insinuanti melodie e l’ultimo, di vitale freschezza, parta sparato come da una pistola. Anche l’Adagio è splendido, però arduo da capire al primo ascolto». Infine una confessione di Brahms sullo stato d’animo in cui vide la luce l’ultimo Trio con clarinetto, op. 114: «Pensavo che per tutta la vita ero stato abbastanza diligente, che avevo raggiunto abbastanza, che avevo una vecchiaia senza guai e che ora potevo goderla tranquillamente. E questo mi appagava tanto, che d’improvviso ebbi un ritorno di fiamma».

Amadeus a. XV, n. 3 (160), Marzo 2003

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