Il battesimo discografico di Riccardo Muti con l’Orchestra Filarmonica della Scala è il frutto di un lavoro di anni, che suggella nel migliore dei modi la crescita costante e sicura di un complesso capace di suonare non solo bene ma anche con grande consapevolezza stilistica.
Le prove maiuscole fornite dall’orchestra sotto la direzione di Muti (e con la sua preparazione) nei numerosi concerti a Milano e in tournée trovano conferma in un disco di assoluto rilievo, importante anche per la scelta delle musiche, non appartenenti al consueto repertorio sinfonico ma degne di attenzione, non foss’altro perché sfatano la logora leggenda di una arretratezza dei musicisti italiani nei confronti della cultura strumentale e sinfonica europea.
Si può contestare che Ferruccio Busoni appartenga complessivamente alla musica italiana, ma non che le musiche per la Turandot non nascano dal desiderio di stabilire una continuità tra esperienze diverse, e abbiano una chiara impronta internazionale. Tanto quanto la Paganiniana op. 65 di Alfredo Casella e i tre pezzi di Giuseppe Martucci – Notturno op. 70 n. 1, Novelletta op. 82, Giga op. 61 n. 3 – recuperano quel senso di dignità del comporre che è proprio di una cultura tutt’altro che provinciale o limitata nei suoi interessi e nelle sue possibilità.
Ed è proprio questa qualità che Muti sembra voler sottolineare con coraggio e con orgoglio in quest’impresa discografica destinata, c’è da crederlo, a cogliere strameritati successi anche se non soprattutto all’estero.
La brillantezza e la trasparenza con cui l’orchestra rende la partitura di Casella sono miracoli di equilibrio e di proporzione, ma sembrano avvenire nel modo più naturale e spontaneo, senza alcun intento dimostrativo. Il peso sonoro degli archi, di una mirabile varietà e gamma di sfumature, si distribuisce nei quattro movimenti con dosaggio perfetto, dialogando con i legni e gli ottoni in una gara di domande e risposte che continuamente tengono desto l’interesse del discorso. Che, pur non essendo particolarmente profondo, ha una immediatezza e genuinità di espressioni di impagabile grazia, e dà il senso di un’avventura novecentesca saldamente ancorata al culto del passato.
I pezzi di Martucci sono cammei sui quali il tempo sembra aver depositato una leggera patina di antichità, che li rende anche più preziosi e affascinanti. Muti ne dà una versione cesellata nei particolari, timbricamente sfaccettata, teneramente affettuosa ma mai oleografica, recuperando il senso di un intimismo fatto di abbandoni malinconici e di liriche effusioni. Notevole, da parte dell’orchestra, la capacità di introspezione del suono, l’omogeneità fra le sezioni in una ombreggiatura del colore quasi impressionistica, con tendenza a temperare la vivacità in calma e diffusa atmosfera. Nell’impaginazione del disco, questo intermezzo tiene il posto di un tempo lento ripiegato su se stesso.
La Turandot Suite op. 41 di Busoni è uno dei cavalli di battaglia di Muti, fin dai tempi della sua gioventù. Se ne ricordano numerose esecuzioni dal vivo, ma nessuna arriva alla luminosità di questa. Muti sembra aver accentuato il tratto più moderno della scrittura di Busoni, senza perdere di vista il gioco screziato delle allusioni, la tinta esotica dei materiali e la nettezza classica dei contorni. Un vertice di virtuosismo e di sensibilità interpretativa.
Casella, Paganiniana op. 65; Martucci, Notturno op. 70 n. 1, Novelletta op. 82, Giga op. 61 n. 3; Busoni, Turandot Suite op. 41; Orchestra Filarmonica della Scala, dir Muti. Sony 53280 (1 cd).