La malattia nervosa che affliggeva Hugo Wolf (di cui ricorre il centenario della morte) era di natura assai problematica. Un complesso di inferiorità schiacciante, del tutto immotivato e distruttivo, si univa a una mania di persecuzione devastante e ossessionante, a produrre una miscela esplosiva che lo avrebbe portato a una morte prematura, dopo una vita infelice chiusa nella follia e percorsa dai lampi intermittenti del genio.
Non vale naturalmente chiedersi che cosa avrebbe potuto produrre Wolf a contatto con le punte più avanzate della musica moderna primonovecentesca, e ancor più quale profitto avrebbe tratto dal connubio con la poesia novissima di Hofmannsthal, Rilke, Hesse, Trakl, Kraus, alla quale sembrava come nessuno predestinato. È tuttavia una domanda che tiene conto di un dato oggettivo: l’inattualità di Wolf, da lui sentita come una croce, era in gran parte dovuta alla fondamentale estraneità alla sua epoca, un’epoca terminale se non di decadenza, e a un senso di non appartenenza ai suoi destini, ai suoi valori e alle sue manifestazioni. In altri termini, Wolf era una figura intimamente sbilanciata tra un’ascendenza classica e una proiezione aurorale, ed esser vissuto, aver operato in condizioni quasi disperate di epigonismo fu per lui più di una condanna.
Poco o nulla ci dice esser stato egli un contemporaneo, per un viaggio tuttavia assai più breve, di Anton Bruckner, Gustav Mahler e Richard Strauss, oltre che un esponente della Vienna fin-de-siècle. Un raffronto più esteriore lo avvicina a Schubert, con il quale condivise, oltre a una malattia sifilitica contratta da ragazzo, la passione indomita per il Lied, mondo dell’irrealtà e del sogno, mezzo per ricreare nel piccolo pezzo isolato, ma intrecciato di molteplici, infinite relazioni, un’alternativa poetico-musicale alle miserie e ai condizionamenti della vita. Anche in questa scelta che dava un senso alla missione dell’arte vi era un tratto ossessivo e compulsivo di carattere nevrotico se non schizofrenico, temperato però, e in misura perfino maggiore, da un ideale assoluto per la bellezza classica, per l’autenticità del tono popolare, per le radici del canto come espressione di vita: crudelmente ironica, talora, o sinistramente umoristica talaltra, ma sempre dolorosamente vera. Il corpus liederistico di Wolf è non soltanto un baluardo eretto in difesa dell’integrità dell’arte resa fertile dalla parola, è anche un monumento perenne di vitalità e di sperimentazione, di stile unico, inconfondibile.
È con lui che il Lied appone il suo sigillo come genere e forma suprema della musica occidentale, senza venir snaturato nella sua originaria unità intatta e intangibile. La dilatazione del Lied a mezzo di implicazione sinfonica, come in Mahler, gli è estranea, anche se Wolf non manca di tessere relazioni musicali che vanno oltre l’immagine del testo e trovano nel pianoforte – si pensi ai preludi e ai postludi – una cassa di risonanza di più vasto respiro: in ciò riallacciandosi con forti segnali individuali all’esempio di Schumann e di Brahms. Vi è poi un altro aspetto da sottolineare, in apparente contrasto con il quadro generale della sua personalità: ed è il fatto che in questo rappresentante quasi unico del Lied come strumento di espressione della propria affranta natura ogni pezzo, perfino nei cicli più tradizionali e “schematici” dell’Italienisches e dello Spanisches Liederbuch, sia un aureo capolavoro perfettamente rifinito e individuato, l’anello di una catena che non svilisce mai il metallo prezioso in cui è fuso. La sfera creativa si identificava per Wolf con il Lied, ed era certo che a ciò lo spingesse la sua vocazione. Al di fuori di questa, egli produsse altre opere significative – un lavoro teatrale, musica da camera, pezzi sinfonici – ma senza raggiungere mai la stessa identità, la stessa compiuta adeguazione di intenzioni e risultati.
Resta l’enigma dell’evidente dissociazione tra un uomo infelicissimo, scosso da fantasmi terrificanti e una produzione che, pur conoscendo gli abissi più oscuri e le cadute nella più desolata delle disperazioni, mantiene sempre un alto livello di controllo stilistico e di consapevole aspirazione alla comunicazione. L’arte di Wolf pare provenire da una reazione fortissima alla rassegnazione – “Entbehren sollst du, sollst entbehren”, rinunciare tu devi, rinunciare, il motto faustiano apposto in epigrafe al Quartetto in re minore – elevata a misura di una ricomposizione del mondo e delle sue pulsioni inconsce nella quale ogni sofferenza si distende e da ultimo si annulla. Senza indulgere nel pathos, ma senza dimenticare nulla delle ragioni profonde, incancellabili, che l’avevano originata.