Feruccio Busoni, l’uomo europeo

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Nella Sonata di fantasmi August Strindberg, riprendendo un detto popolare della sua terra, attribuiva ai nati di domenica un sesto senso, o una seconda vista: la capacità di vedere quello che gli altri non vedono. Ferruccio Busoni vide la luce una domenica, che fu una domenica di Pasqua, ossia di Resurrezione: ma era il 1 ° aprile (del 1866), giorno che secondo un’altra tradizione popolare porta con sé le burle. In un certo senso, il suo destino di grande inattuale fu segnato fin dalla nascita da queste strane coincidenze.

«Ma come compositore Ella dovrebbe prendersi uno pseudonimo. In generale non si ammette che una persona sia capace di far bene più di una cosa; e quando La ho sentita suonare, mi son detto:

“ è impossibile che possa scrivere musica: non c’è abbastanza posto in una singola vita  per eccellere in più di una attività”». Chi scrisse queste parole fu un commediografo più disincantato, George Bernard Shaw, famoso, fra l’altro, per le sue battute.

Il destinatario era naturalmente Busoni, che Shaw aveva sentito suonare a Londra nell autunno del 1919, in una delle ultime apparizioni pubbliche come pianista: Busoni, che aveva allora quasi cinquantaquattro anni, se la prese a male.

Credeva di potersi considerare, ormai, soprattutto un compositore.

Tutta la vita e la carriera artistica di Busoni possono essere viste sotto il segno di una serie di dicotomie: non soltanto visionario-illusionista, pianista-compositore, ma anche italiano di nascita e tedesco di cultura, pensatore ora proiettato nel futuro ora saldamente attaccato al passato, teorizzatore audace di forme di musica e custode intransigente della classicità. In realtà queste dicotomie erano soltanto apparenti. Busoni fu un artista per il quale non esistevano steccati né all’ interno né ai di fuori della musica, un creatore e allo stesso tempo un ricreatore, che incarnò lo spirito del tempo nella varietà delle sue problematiche e realizzò, in anticipo sulla sua epoca delle utopie più serie: l’idea che la musica fosse, se non universale, almeno europea, ossia frutto di una cultura non settaria e di una identità non parziale.

La poetica di Busoni affonda le sue radici, non soltanto cronologicamente, nella sua attività di pianista. Busoni fu considerato unanimemente un principe del pianoforte e divenne, per la forza della sua tecnica e per la seduzione della sua personalità, un mito, che non si affievolì ma anzi si accrebbe via via che il suo stile pianistico si allontanò dall’immagine stereotipata del virtuoso ottocentesco. La concezione che Busonii aveva dell’interpretazione musicale era di un’ estrema libertà dalle costrizioni letterali del testo e aspirava a estrarre attraverso una ricreazione continua la sostanza della composizione dalle sue virtualità latenti; e in questo senso andavano anche i suoi lavori di revisione e di riappropriazione della musica del passato, circoscritti da Bach, l’alfa, e Iiszt, l’omega della composizione pianistica. Busoni non rinunciò mai al principio secondo il quale una musica destinata a essere eseguita sul pianoforte dovesse suonare appunto pianisticamente, ossia sfruttare tutte le possibilità offerte dal moderno pianoforte in fatto di realizzazione e di comunicazione. E ciò non riguardava solo la musica del passato: il suo tentativo di tradurre in una «interpretazione da concetto» il secondo dei Tre pezzi op. 11 di Arnold Schönberg rispondeva al bisogno di sciogliere su maggiori superfici e piani una scrittura pianistica volutamente ostica e concentrata al            massimo. Anche nei suoi tardi lavori pianistici la progressiva depurazione, privazione e riduzione dello stile compositivo all’essenziale si basò sulla reciproca convergenza di idea virtuale e tecnica reale.

Nella prassi concertistica e nelle scelte a essa sottese si trovano molte delle premesse di Busoni compositore. Anzitutto nell’opera del trascrittore, che dell’interprete e del reivisore è il naturale prolungamento. La cosiddetta Edizione Bach-Busoni, che allinea rielaborazioni, trascrizioni, studi e composizioni pianistiche originali di Busoni da Bach, fra cui la celeberrima Ciaccona, costituisce la vera e propria summa di un lavoro che abbraccia quasi l’intera sua vita e si intreccia con le tappe della sua evoluzione nell’ambito della creazione. Il 1910 rappresentò un anno di svolta: con la Berceuse élégiaque per orchestra e la Sonatina seconda per pianoforte Busoni mise definitivamente a fuoco ciò che si doveva intendere per nuovo e necessario allargamento del linguaggio e delle forme tradizionali, come organica e graduale continuazione nel presente e verso il futuro; con l’Abbozzo di una nuova estetica della musica chiarì anche in senso teorico i cardini della sua poetica.

L’Abbozzo è un testo capitale dell’estetica del Novecento, prefigurandone concretamente alcuni sviluppi: la rottura delle simmetrie formali, la prospettiva dell’atematismo assoluto all’interno di un nuovo concetto di melodia e di polifonia, l’uso di nuove scale con l’impiego dei terzi e sesti di tono, l’ampliamento e il perfezionamento degli strumenti musicali, fino alla profezia degli apparecchi elettronici. Partito da una visione lucidamente pessimistica (la musica è in grado di cogliere solo una minima parte dell’universo vibrante, ogni notazione è già trascrizione di un’idea astratta: di fatto gli uomini non possono creare, ma solo elaborare quanto già esiste sulla terra), Busoni giunse a proporre tutta una serie di affrancamenti e di arricchimenti, una rivoluzione permanente da condurre nel seno stesso dei mezzi espressivi. Il suo appello non si rivolse a privilegiare questa o quella tendenza, deprecandone anzi ogni intenzione settaria, ma a considerarsi parte attiva di un movimento che, nella continuità assoluta con la storia, si impegnasse a sviluppare ogni acquisizione, indirizzandola incessantemente verso il nuovo. Il termine di questo processo è la conquista di una «nuova classicità» intesa come compiutezza, in duplice senso: come perfezione e come compimento, conclusione di tentativi precedenti. Osservato da questa prospettiva, non c’è contraddizione fra il potenziamento dei mezzi, senza limiti tra vecchio e nuovo, e il fine ultimo a cui essi debbono tendere: la massima semplicità, punto d’incontro e di convergenza di elementi eterogenei e molteplici, ridotti all’essenza. E del tutto conseguente a questo processo è anche il predominio della costruzione e dell’ordine architettonico, fattori di razionalità e di individuazione stilistica, rispetto al timbro, al colore, al soggettivismo, alla sensualità: nasce da questo presupposto la consapevole e caratteristica opacità della musica di Busoni, quella voluta mancanza di colori troppo accesi in un perpetuo e velato trascolorare verso la luce o verso le ombre.

Più ancora che nelle composizioni strumentali, spesso studi preparatori, fu nel teatro che Busoni lasciò una traccia originale. Tutte le sue considerazioni sulle possibilità dell’opera lirica tendevano a contemperare l’esigenza di un «ritorno all’antico», di cui Mozart rimaneva modello e guida, con i compiti specifici di una musica teatrale modernamente intesa, programmaticamente antiwagneriana nella forma e antimelodrammatica nei contenuti: ossia scevra di impegni veristici e di espressioni passionali, nonché di melodie infinite. Quello di Busoni è un teatro di atmosfere più che di azione, dove il recupero dei modelli del passato e la loro integrazione in prospettive musicali moderne, create ex novo, avviene attraverso la forte incidenza dell’elemento soprannaturale e fantastico, mistico e magico, nella sospensione evocativa di una dinamica teatrale bloccata, antidrammatica: come nella Sposa sorteggiata, ispirata alla fantasia di Hoffmann, o nel Doktor Faust, ripensamento dell’antico spettacolo di marionette, prima e dopo Goethe. Ma è anche un teatro di limpidezza cristallina in Arlecchino, che evoca capricciosamente lo spirito dell’antica commedia dell’arte, o in Turandot, ricamata sulla fiaba di Carlo Gozzi in modo da accettare la dimensione ludica della favola perseguendo scopi uguali e contrari: spettacolari e divertenti, educativi e beffardi, con una musica olimpicamente lontana da ogni dramma, deliberatamente astratta nella sua vitalistica e inarrestabile mobilità armonica, montata su una impalcatura di ironia surreale e allo stesso tempo sapientemente equilibrata e differenziata in quadri staccati, in forme chiuse e autosufficienti.

Ciò che sul piano speculativo Busoni lucidamente vide, o semplicemente intravide, si pose sempre in stretto rapporto con la sua vocazione di compositore e di ricreatore: su questo punto non vi fu alcun dissidio. Era nella natura stessa delle cose l’impossibilità di giungere fino in fondo a un cammino infinito, rispetto al quale l’opera di un creatore altro non era che l’anello di una catena sospesa tra passato e futuro. L’ultima opera rimasta inconclusa alla morte di Busoni (1924), Doktor Faust, il suo capolavoro, anzi l’opera di tutta una vita, acquista dalla sua stessa incompiutezza un valore simbolico e paradigmatico: Faust, prima di morire, raccoglie tutte le sue forze e, compiendo l’ultima opera di magia, dona la sua vita a chi verrà dopo di lui, perché risorga purificata in un nuovo inizio circolare.

Busoni mise a disposizione delle generazioni venture non solo le proprie facoltà di creatore, più rilevanti che alcuni le tengano, ma anche la tensione verso una ricerca inappagata e sempre inquieta, mai negativa, di alto profilo morale e artistico. Visionario o utopista che fosse, faceva tremendamente sul serio anche quando scherzava. Non era un pesce d’aprile ma un uomo di cultura. E questa è la ragione principale, oggi, della sua inattualità.

Amadeus a. XII, n. 2 (123), Febbraio 2000

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