Fidelio

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Enfin abbiamo capito. Può darsi che fosse colpa nostra, ma per la verità nessuno ci aveva ancora aiutato a fare chiarezza sulla questione, men che mai ciò che avevamo letto in precedenza al proposito. C’è voluta l’esperienza diretta dal vivo in teatro – ed è in fondo bello che sia stato così: al Teatro Comunale di Bologna, inaugurazione della stagione – per sciogliere i nodi intrecciati attorno a un totem come il Fidelio di Beethoven. L’unica opera di Beethoven, si è sempre detto, anzi un unicum senza discendenza. Punto di arrivo di un lavoro decennale, scandito in tre tappe: 1805, 1806, 1814. Ma le cose non stanno effettivamente così, almeno per quanto riguarda i due termini estremi. L’Ur-Fidelio portato in scena a Bologna, per la prima volta in Italia e per quanto ci riguarda la prima volta in assoluto (depistanti si rivelarono al confronto gli ascolti in forma di concerto a cui avevamo finora assistito), pur presentato con il titolo inesatto di Leonore che appare solo nella versione del 1806, è la dimostrazione che Beethoven ha sì scritto un’opera in piena regola, pur segnata dal suo genio innovativo, ma che quest’opera non è il Fidelio del 1814, bensì, appunto, la prima versione del 1805. Di conseguenza, ciò che siamo soliti apprezzare come il punto di arrivo di un processo migliorativo, è in realtà tutt’altro, la negazione di un progetto, ovvero la rinuncia, che poi si sarebbe dimostrata definitiva, a essere un operista. Il Fidelio non è dunque un’opera, ma la riduzione, il prosciugamento di un’opera intesa come fatto teatrale di cui egli stesso aveva voluto fare esperienza, per poi compiere un passo indietro e riconoscere altrove – in altri territori della forma e del linguaggio strumentale, sinfonico, nel frattempo approfonditi – la propria identità di compositore. Solo considerando il Fidelio non un’opera, ma una “”cantata drammatica””, o forse meglio un “”dramma cantato”” (dove dramma va inteso nel senso beethoveniano di accumulo e scioglimento di tensioni per via d’azione essenzialmente sinfonica), si può comprendere perché Wagner, un fanatico, certo, ma dotato di fenomenali antenne recettive, lo considerasse in nuce un precursore, un antecedente del “”dramma musicale””: non Oper bensì Drama.
Teatralmente, l’Ur-Fidelio, o Leonore che lo si voglia chiamare, è non soltanto un’opera in piena regola, ma anche un’opera perfettamente realizzata, almeno nelle misure consentite a un Singspiel. Il passaggio dalla commedia borghese al dramma d’ideali culminante nella celebrazione dell’amor coniugale e quindi nella consacrazione dell’impresa salvifica, distribuito com’è in tre atti, è non solo più equilibrato ma anche assai convincente, corrispondente e simmetrico: non a caso la modulazione (non frattura, come nel Fidelio) avviene alla fine del secondo atto, in modo del tutto naturale e conseguente. Occorrerebbe molto spazio per verificarlo, analizzando i singoli numeri (non solo le differenze: la grande aria di Leonora, il coro dei prigionieri, l’aria di Florestano). Ci limitiamo qui a portare due esempi. Nel primo contesto il Quartetto a canone Mir ist so wunderbar non è affatto un improvviso salto di qualità che immette senza preparazione nell’aura superiore dell’ideale (musica assoluta se mai ve ne fu una), ma al contrario l’espressione musicale di un idillio che si realizza sulla scena, nella contemplazione statica di stati d’animo che caratterizzano i personaggi come in un tableaux vivant. Secondo esempio. Nella Leonore, dopo l’annuncio provvidenziale della salvezza nella scena del carcere, ha luogo un Recitativo con orchestra abbastanza esteso prima del Duetto O namenlose Freude, apparentemente convenzionale, ma teatralmente efficace e addirittura drammaturgicamente logico (i due coniugi ritrovati si abbracciano a lungo: sono loro il fulcro della vicenda giunta a compimento), fra l’altro di alta qualità musicale (la natura della musica di Beethoven quando agisce nella convenzione meriterebbe da sola un lungo discorso). Tutta questa sezione fu soppressa nel Fidelio, onde passare rapidamente al quadro finale (che il problema fosse avvertito prima di tutto dai direttori, lo dimostra l’interpolazione, in sé assurda ma sottintendente una falla, della Leonora n. 3 proprio come cerniera di questo scabro cambiamento di scena). L’osservazione che ne consegue aprirebbe orizzonti sconfinati: l’Ur-Fidelio non nacque per innalzare un inno sublime alla fratellanza e alla libertà universali, estaticamente trascendente la sfera terrena, ma per raccontare una storia umana in un conflitto a lieto fine. Fu l’ultimo Fidelio a mutare di pelle e di sostanza, rinunciando alla incarnazione nel teatro per divenire un “”cartone”” di idee elidente la scena in nome dell’assoluto musicale, preparatorio dei vertici della Nona Sinfonia e della Missa solemnis.
Queste e tante altre rivelazioni particolari offrì all’ascoltatore l’edizione bolognese di Leonore, ben narrata, ad onta di qualche inutile provocazione, dalla regia di Francisco Negrin nell’allestimento ripreso dalla De Vlaamse Opera di Anversa, resa con sostanziale adeguatezza da una compagnia di canto omogenea e affidabile, ma soprattutto illuminata dalla magnifica direzione di Daniele Gatti, qui trionfante in una delle prove più difficili e delicate della sua carriera. Tra i tanti meriti di una concertazione puntuale e matura, di uno gli siamo specialmente grati: averci fatto scoprire e capire il “”suono teatrale”” di questo Beethoven anno 1805, talmente diverso da quello del Fidelio da configurare per sintassi e lessico, anche nei passi consimili, quasi un’altra partitura. Che dire di più? Forse semplicemente che Gatti è oggi uno dei direttori, non solo della sua generazione, che ci interessa davvero ascoltare e seguire.      
                                                                                        Sergio Sablich  

Dalla lettura delle 1359 pagine (indici e cataloghi compresi, fondamentali) del Beethoven di Piero Buscaroli si esce come spianati da una schiacciasassi. Non tanto per la mole del volume, reso accattivante e addirittura agevole da una scrittura tanto magistrale quanto chiara, quanto per il martellamento continuo, ossessivo, scandito da insulti, reprimende, anatemi, sarcasmi, irrisioni equamente distribuiti fra interpreti ignoranti e musicologi inetti, con il quale l’autore dà voce alle sue tesi. Chi conosce Buscaroli non foss’altro per i suoi lavori su Bach e Mozart, e lo ammira non ricambiato, sa quanto tagliente e radicale possa essere il suo pensiero, nel quale non vi sono vie di mezzo o sfumature, ma soltanto granitici blocchi o bianchi o neri. Annunciato come la messa a fuoco della “”nuova immagine che mancava””, fieramente teso a compiere un lavoro di revisionismo a trecentosessanta gradi, Buscaroli rilegge le fonti e le testimonianze più disparate in una luce nuova e totale, traendone aggressive e perentorie conclusioni. Al punto che questo suo libro, quasi per una sorta di fatale, lunga immedesimazione, assomiglia più a una proiezione autobiografica che a una oggettiva disamina del soggetto in questione (del resto, la scultura di Max Klinger messa in copertina, un Beethoven particolarmente corrusco, sembra quasi l’autoritratto di Buscaroli stesso). Ma quali sono queste tesi? Per esempio che Beethoven non fu mai illuminista, e neppure giacobino, ma anzi antifrancese, un autentico nazionalista profondamente tedesco e un patriota accanito, divenuto suo malgrado vittima – e giù contumelie – di uno sciagurato umanitarismo buonista che ha voluto farne un cantore della “”cosiddetta fratellanza universale””. La Nona Sinfonia? Una Sinfonie allemande che canta l’abbraccio pangermanico. Il Fidelio? Un’opera indiscutibilmente controrivoluzionaria. I lavori più significativi? Quelli, regolarmente occultati dai critici, delle musiche patriottiche, i canti guerrieri per i volontari del 1797, l’Oesterreich über alles del 1809 e l’inno Germania risorgi del 1814 (ma le ha mai sentite, Buscaroli, queste composizioni, musicalmente di una bruttezza spaventosa?). Insomma, la rivendicazione di una nuova immagine di Beethoven è il frutto di una pesante ipoteca ideologica, nella quale i dubbi, le ambiguità, le contraddizioni, le ombre non hanno accesso. Facendo suo un aforisma di Nietzsche (“”Vi è solo biografia””), Buscaroli fa della biografia del più grande musicista prodotto dal “”classicismo rivoluzionario”” (e qui concordiamo) la chiave della sua revisione sopra l’età seguita alla Rivoluzione, estendendo il suo sguardo alla storia universale: e si capisce benissimo dove voglia andare a parare. Anche accettando il principio di Nietzsche (ma quante sciocchezze si sono dette in nome di Nietzsche, ammoniva Elias Canetti), la visione rischia di divenire unilaterale se non monolitica, di presupporre un’adesione più o meno incondizionata al prescelto punto di vista. E ciò finisce per essere il vero limite di un lavoro altrimenti gigantesco, che trova i suoi momenti migliori quando Buscaroli, che evidentemente ama e capisce non solo Beethoven ma anche la musica, sospende o dimentica i suoi pregiudizi. E ciò avviene non soltanto nelle pagine illuminanti, oltretutto degne di un grande scrittore, che affrontano aspetti “”biografici”” come il significato della sordità o i risvolti sottesi al testamento di Heiligenstadt, ma anche quando si parla di stili, caratteri e composizioni, senza scadere nell’aridità critica di generi, materie e fissazioni, ma anzi entrando nelle pieghe più riposte del tema: raramente si sono lette osservazioni così acute e pertinenti sulla questione controversa della dedica dell’Eroica, sul cosiddetto tardo stile (giacché l’autore dimostra come la divisione tradizionale in periodi non abbia senso in una parabola a suo modo continua e ascendente) e soprattutto su quello che Buscaroli non fa mistero di ritenere l’apice di tutto Beethoven, ossia la Missa solemnis (e qui gli si perdona volentieri perfino qualche parola di troppo contro Adorno: perché, al contrario di quel che pensa il nostro Führer, una cosa non esclude l’altra). Alla cultura sterminata profusa in questo volume e all’acribia aspra, dura, perfino cattiva di Buscaroli, voce comunque di una razza superiore (ma non nel senso che l’intenderebbe lui) vorremmo affettuosamente additare, dal catalogo del Titano, un piccolo cammeo “”brechtiano”” come il Rondò a capriccio in sol maggiore La stizza sul soldino perduto; ma lui ci risponderebbe in uno squillante do maggiore con la minacciosa scritta che appare ripresa a grandi caratteri sulla quarta di copertina: “”Fortunate le culture che quando tutto si polverizza e muore hanno ancora eroi a cui aggrapparsi””.
                                                                                               Sergio Sablich  

Piero Buscaroli, Beethoven, Milano, Rizzoli, 2004, pp. 1359, euro 45,00.

Giuseppina La Face Bianconi ha pubblicato, nella collana musicologica diretta dal suo insigne marito, un saggio, La casa del mugnaio, dedicato all’ascolto e all’interpretazione della Schöne Müllerin di Schubert, uno dei cicli del sommo liederista più enigmatici e complessi proprio per la sua apparente ingenuità e semplicità. Articolato in Premesse (dove le note bibliografiche sono più estese del testo), Analisi (dove invece si usano le tecniche più avanzate della ricerca testuale) e Contesto (ardito tentativo di coniugare psicologia, psichiatria, testo e musica per spiegare la depressione di Schubert, di cui Die schöne Müllerin è il monumento interiore, anzi, come scrive l’autrice, il “”musikalisches Selbstbekenntnis””), il lavoro non si sottrae all’impegno globalmente esegetico e perfino latamente interpretativo, mostrando una curiosa e apprezzabile disponibilità a evadere dalle maglie rigorose della scienza metodologica ortodossa, sia pur appoggiandosi su dotti e autorevoli riferimenti interdisciplinari. Capita quindi di leggere osservazioni come queste: “”Schubert, minacciato dalla malattia e con lo spettro della fine, negli anni ’23-’25 deve aver profondamente compreso il messaggio altissimo e doloroso che una certa poesia di Johann Mayrhofer trasmetteva: l’inanità di ciò che è terreno, la pochezza dell’umano, l’incommensurabilità perfino dell’arte di fronte all’eterno””. Il che va benissimo, ma è, come dire, assai poco conforme alle tendenze imposte dalla corporazione dei musicologi, apoditticamente. Completano il volume utili appendici storiche, i testi poetici dei Lieder e l’edizione musicale integrale del ciclo schubertiano secondo la Neue Schubert-Ausgabe.  
                                                                                                                         

Giuseppina La Face Bianconi, La casa del mugnaio, Firenze, Olschki, 2003, pp. 322, euro 32. 
        

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