Fuori dalla Norma

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L’orchestra del Maggio Fiorentino si fa onore a Ravenna.

Muti dà a Bellini una luce nuova

 
Proporzioni neoclassiche e fuoco romantico convivono nella lettura del maestro, non sempre assecondata da regia e cast vocale

 

RAVENNA – L’orgogliosa rivendicazione del ruolo centrale del direttore d’orchestra nel melodramma italiano dell’Ottocento, punto d’impiego del lavoro che Riccardo Muti va svolgendo alla Scala, ha trovato radicale applicazione nella Norma di Bellini andata in scena sabato scorso al Teatro Alighieri per il festival di Ravenna.

Tale applicazione di un principio in sé sacrosanto restituisce globalmente dignità musicale e unità stilistica a un’opera bellissima, rivelandone finezze strumentali e drammatiche ben più profonde e ricche del consueto, localizzate in primo luogo nella continua evidenza concertante e solistica dell’orchestra, nello spessore della sua presenza e funzione. Alcuni corollari di essa, come l’esecuzione del testo nella sua integrità e la conseguente, maggior definizione dell’arco drammatico nelle sue studiate simmetrie non solo vocali, conferiscono davvero alla Norma quelle proporzioni neoclassiche che le sono proprie, senza sacrificare la venatura essenzialmente tragica e l’aura intimamente romantica altrettanto consone al suo carattere.

La lettura di Muti, ottimamente servita dall’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, che recuperava un sodalizio antico ancora assai forse, è parsa concentrare tutti questi elementi in una decisa affermazione dell’unicità di Norma, collocandola non tanto a rincalzo del primo Verdi quanto accanto a Cherubini, Spontini e al Rossini serio, al vertice di una stagione già crepuscolare ma fiammeggiante di splendide memorie dell’opera.

Ancora una volta, di fronte a un’intenzione radicale, il problema dei cantanti s’avvertiva come un ostacolo parziale alla realizzazione completa di nuovi equilibri. Non erano la nobiltà e la proprietà di accenti a far difetto alla protagonista, Jane Eaglen, voce importante, né tanto meno alla squisita delicatezza dell’Adalgisa di Eva Mei; slancio e dizione scultorea davano al Pollione di Vicenzo La Scola occasione di brillare convenientemente, e perfino l’opacità della voce di Dimitri Kavrakos (Oroveso) era compensata da chiara consapevolezza stilistica. Nessuno di loro, però, era in grado di reggere fino in fondo il confronto con il fraseggio strumentale imposto da Muti, e di trovare sempre il giusto peso nell’ambito di dinamiche così flessibili e di tempi così incisivi, tanto nelle perentorie accensioni drammatiche quanto nelle ampie, emozionanti distensioni liriche.

La prova dei cantanti non è stata aiutata dalla regia di Stefano Vizioli, rinunciataria e incolore, né dall’ambientazione oleografica delle scene di Susanna Rossi-Jost; imbarazzanti i costumi, di Anne Marie Heinreich: spettacoli così vanno nel segno opposto di ciò che Muti richiede dalla musica. Di grande rilievo, invece, la prova del Coro del Maggio Fiorentino, confermatosi anche in trasferta in Romagna di gran lunga il migliore d’Italia, e vibrante, per tutti quanti, il successo finale.

da “”La Voce””

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