Goffredo il Magnifico

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Il musicista Petrassi ha festeggiato ieri il novantesimo compleanno


La longevità di Goffredo Petrassi, i suoi splendidi novant’anni, rispecchiano una vita pervasa da molteplici interessi, esercitati con la passione della curiosità sottesa all’equilibrio di un ‘intelligenza lucidissima. Il catalogo delle opere rappresenta degnamente la forma perfettamente conchiusa della sua creatività. Ripercorrerne le tappe significa anzitutto riconoscere la coerenza di un percorso tutto interno alle ragioni della musica intesa come fatto inventivo ed espressivo, al di là delle adesioni di poetica e di stile. A differenza del suo grande coetaneo Luigi Dallapiccola, che della scelta dodecafonica aveva fatto un imperativo categorico morale non meno che compositivo. Petrassi si è mantenuto aperto alle esperienze più diverse, senza appoggiarsi o appoggiare un sistema. L’epoca della sua formazione, tra le due guerre, aveva consentito una fertile continuità col passato nella stessa esigenza di rinnovamento dei linguaggi e nel recupero di una antica consuetudine con l’artigianato musicale, dove il comporre avesse ancora un valore affermativo di responsabilità sociale, non solo individuale.

Petrassi stesso ha narrato in più occasioni come il suo accostamento alla musica avvenisse per intima necessità di un destino, senza realizzarsi seguendo i canali consueti dell’istruzione scolastica. Ciononostante non ha mai avallato la retorica fiorita sul provinciale di campagna nato a Zagarolo e avviato alla musica come ragazzo cantore nelle chiese romane, se non per far notare che dopo tutto non mancavano in passato esempi illustri di analoghi apprendistati. Del periodo in cui per vivere lavorò come commesso in un negozio di musica ha sempre ricordato non solo le tante ore passate a compulsare testi che in altro modo non avrebbe potuto conoscere, ma anche, più realisticamente, un certo complesso di inferiorità derivante da quelle finestre aperte sul mondo, apparentemente lontano. La ricchezza di queste esperienze giovanili si cementò in seguito con lo studio, prima privatamente poi al Conservatorio di Santa Cecilia, allievo di

Alessandro Bustini, maestro di severa formazione, e di Fernando Germani, organista colto e sensibile. Nel 1932 prese il diploma di composizione, nel ’33 quello di organo: non erano passati che quattro anni da quando aveva deciso con orgoglio di abbandonare la condizione di autodidatta. Da quel momento la carriera di Petrassi si è ramificata in molte direzioni, assumendo ben presto più ruoli ufficiali accanto a quello, su tutti preminente, del compositore. Già nel ’34 ebbe la cattedra di armonia, contrappunto e composizione corale al Conservatorio di Santa Cecilia, poi quella di composizione (dal ’39 al ’60); infine divenne titolare del corso di perfezionamento all’Accademia, di cui era diventato membro già nel ’36, fino al pensionamento per raggiunti limiti di età, nel ’78. Dire che in queste funzioni Petrassi è stato un punto di riferimento per la cultura musicale non solo italiana significa ratificare un dato di fatto. Non meno costante è stata la sua presenza nel campo dell’organizzazione; sia con incarichi ufficiali (sovrintendente della Fenice di Venezia, direttore artistico dell’Accademia Filarmonica Romana), sia in veste di osservatore dei fatti musicali: testimone attento di un degrado delle istituzioni che lo lasciava impotente, fino a suggerirgli il ritiro in una sfera privata di memorie e di fedeltà, di cui non ha mai mancato di ribadire e spirito e sostanza.

Come compositore Petrassi nasce nel 1932 con la Partita per orchestra: un lavoro che prende le mosse dalla rivalutazione della tradizione strumentale italiana e la inserisce nel complesso dei più recenti stili europei. Da questo osservatorio, nel clima di rinascita della cultura italiana di cui proprio la musica offriva la temperatura, riconnettendosi su un piano di parità con le altre arti, Petrassi estese i suoi orizzonti espressivi, affinando la tecnica e maturando una propria personalità. La quale, pur bordeggiando le manifestazioni eminenti tra le due guerre, e sovente accettandone il confronto, si venne sviluppando, quasi senza fratture, sui cardini di un’idea della musica fatta di estri e di costruttiva solidità: gli uni resi possibili, come segnali di un’invenzione continua, solo dalla presenza non meno costante e ricercata dell’altra istanza.

Se l’affermazione del magistero strumentale si compie ai massimi livelli nella serie degli otto Concerti per orchestra, la musica da camera presenta una varietà di accenti, anche nella spesso inedita combinazione degli organici, che ha pochi termini di paragone nel panorama contemporaneo. Si mostra qui il lato più squisitamente artigianale della vena petrassiana, il piacere supremo di cesellare il suono piegandolo fino alle più piccole sfumature: quasi spingendolo all’avventura, alla sfida. Sul versante opposto si collocano le compatte composizioni corali, grandiosa rivisitazione della lussureggiante polifonia rinascimentale e barocca (il Salmo IX o il Magnificat, dove la coralità palestriniana sembra rivissuta attraverso Stravinskij), e le vette tese del neo-madrigalismo: da quello drammatico, inquieto e amaro del Coro di morti (massima epigrafe musicale del pessimismo leopardiano) a quello asciutto e umorisitico dei «folli» epigrammi a cappella di Nonsense. Punto d’arrivo di questa fase del dubbio nell’arte di Petrassi è la cantata Noche oscura: senso religioso e laica razionalità combattono attraverso i suoni un’aspra battaglia, arroventando l’espressione fino all’illuminazione mistica; oggettivata da ultimo nella sua verità essenziale col capolavoro della definitiva maturità strumentale e corale, le Orationes Christi. Gli anni della guerra e del dopoguerra sono contraddistinti dall’avvicinamento al teatro, nel quale Petrassi ha riversato alcune sue predilezioni di natura anche extramusicale, letteraria: ai due balletti La follia d’Orlando e Ritratto di don Chisciotte fanno seguito i due atti unici Il Cordovano e Morte dell’aria. Anche qui realtà e fantasia si mescolano in una visione del teatro come luogo di evocazione figurata che relativizza l’angoscia della crisi, occasione di chiarificazione del rapporto tra suono, parola e dramma, risolto ancora una volta nella immediata evidenza del segno. E una parentesi limitata nell’arco della sua produzione, ma che basta per confermare l’intima coerenza di una parabola compositiva tra le più rappresentative della civiltà musicale contemporanea.


da “”La Voce””

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