Guerre stellari

G

Dopo la riforma di Wieland, si è imposta un’interpretazione nuova della mitologia wagneriana. Non più quintessenza dello spirito tedesco ma espressione di conflitti sociali, cosmici, universali.

“Entrümpelung”, fu questa la parola d’ordine che guidò Wieland Wagner nella riforma della messinscena wagneriana a Bayreuth dopo la guerra: “”sgombero””; anzi, di più: sbratto, piazza pulita. Wieland non era stato il primo a concepire una visione astratta del teatro di suo nonno (Adolph Appia, per esempio, lo aveva già fatto con le luci), ma fu il più radicale nel depurarlo, oltre che di corna e corazze, dell’eroismo di stampo teutonico e di orpelli naturalistici. Wieland Wagner riuscì a far vedere Richard Wagner con occhi liberi, a sottrarlo al fumo nazionalsocialista in cui era stato avvolto e a presentarlo al mondo intero con una dignità nuova: un capolavoro artistico e diplomatico al tempo stesso. Nel Ring inaugurale dell’epoca postbellica (1951) la scena era di una semplicità elementare, anche nei colori; ma faceva impressione il modo in cui i personaggi agivano sulla piattaforma gigantesca davanti alla scena vuota. Tutto era puntato sulla personalità dei cantanti, sulla parola, sulla forza della recitazione, sull’intreccio delle relazioni fra i personaggi e i piani dell’azione: il mondo degli dei, degli uomini e degli esseri oscuri del regno dei morti. Wieland metteva in scena un dramma universale intitolato L’anello del Nibelungo. Nessi rimasti fino ad allora nascosti riaffioravano alla luce.
Dopo la morte di Wieland (1966) fu suo fratello Wolfgang a rendersi garante di un ritorno alla tradizione che significava mediazione e compromesso. L’elemento decorativo fece nuovamente il suo ingresso in palcoscenico e, anche senza che si riproponessero i vecchi stilemi figurativi, lo spettatore riebbe i suoi spazi e le sue immagini. Ma nel frattempo nuove istanze si erano affacciate dopo la ricostruzione: gli anni del miracolo economico sembravano proiettarsi anche sui miti wagneriani e chiedere ad essi una risposta adeguata. Proprio Wolfgang, come reggitore delle sorti del festival di Bayreuth, si fece promotore di queste istanze e per la Tetralogia del centenario (1976) compì un gesto dimostrativo, affidandola a un team interamente francese, che lavorò in stretta unità d’intenti: Patrice Chéreau regista, Richard Peduzzi scenografo, Pierre Boulez direttore. Questa messinscena segnò una pietra miliare nella storia dell’interpretazione wagneriana, non foss’altro perché si differenziava da tutte le altre (il suo destino sarà naturalmente quello di essere poi a lungo imitata). La novità nasceva prima di tutto dall’atteggiamento di fondo: una spietata analisi dei meccanismi drammaturgici legata a una critica di natura politico-sociale. Il mondo del Ring si presentava fin dall’inizio degradato a simbolo dell’era industriale (le ondine come donne di strada, il contrasto tra Alberich e Wotan come conflitto tra vetero e neo capitalismo, eroi irrisi, sconfitti e abbacinati dall’utopia della rigenerazione spirituale dell’umanità), dunque del tutto smitizzato e intriso di profondo pessimismo, non più cosmico ma di denuncia di contraddizioni storiche. Wagner diventava così anche un manifesto rivoluzionario.
Giustizia vuole che si attribuisca a un nostro regista, Luca Ronconi, la primazia di questa intuizione. Nella Walkiria data alla Scala nel 1974 (il ciclo nibelungico cominciò con quest’opera, e non fu poi ultimato in quel teatro) Ronconi compiva, con le scene e i costumi di Pier Luigi Pizzi, uno spostamento dell’azione dall’epoca del mito a quella ottocentesca in cui la Tetralogia venne composta, connotandola come un dramma borghese da un lato, come riflessione del teatro nel teatro dall’altro: l’immagine di Siegmund in fuga che entra in scena portando in mano un modellino in miniatura della scena in cui si svolgerà l’azione, come a interrogarsi sulla sua identità e destinazione, si imprimeva nella memoria come un vero e proprio shock. L’umanizzazione del mito, sia pure in un contesto rappresentato da conflitti d’interesse e da beghe familiari (le dispute tra Wotan e Fricka, la stessa vicenda dell’ideale tradito dal dio e della condanna delle sublimi accensioni della figlia Brúnnhilde), e la parziale attualizzazione della vicenda (parziale perché non
riferita al nostro presente, ma a quello della nascita dell’opera: sicché per esempio Siegfried incarnava l’empito rivoluzionario di Bakunin), portarono alla scoperta di altri valori. Nella realizzazione integrale di Firenze (1980-81), pur rimanendo intatta l’impostazione generale, Ronconi tese a temperare certi eccessi e a recuperare semmai una dimensione fiabesca (come di una fiaba narrata in un interno domestico, crepuscolare, di fine Ottocento), accentuando anche il senso di un’allegoria ciclica (la grande ruota del tempo che costituiva l’elemento fisso della scenografia del prologo e delle tre giornate).
Il passo ulteriore compiuto negli anni seguenti riguarda, nell’ambientazione, una sempre più drastica attualizzazione. Tentativi antitetici, ossia di recupero della oleografia naturalistica e mitologica, non sono mancati per reazione, ma non sembrano aver lasciato il segno (caso sintomatico la realizzazione di Peter Hall a Bayreuth nel 1983, dismessa dopo poche repliche). Attualizzazione ha significato non soltanto spostamento dell’azione ai nostri giorni, o viceversa in uno spazio neutro fuori dal tempo, ma anche uso di mezzi tecnologici avanzati, in una prospettiva metateatrale e multimediale, di scena virtuale, all’estremo da civiltà dei videogiochi. Esempi delle due tendenze sono l’allestimento di Nikolaus Lehnhoff a Monaco (1987), che vedeva la Tetralogia come un’avventura spaziale di guerre interplanetarie, e quello di Harry Kupfer a Bayreuth (1988), tutto giocato sugli effetti dei laser luminosi in una livida atmosfera notturna, dove la recitazione espressionistica costituiva una specie di rivolta dall’interno all’apocalisse atomica. E ritornava per converso la vis polemica di una forte presa di posizione politica, connotata con chiaro schieramento di parte. Comune a tutte queste scelte era un’impostazione smitizzata e smitizzante, che tendeva a individuare nella Tetralogia una storia di brutale lotta per il potere e di tragica sconfitta degli ideali.
Ci siamo soffermati sulla storia delle interpretazioni sceniche della Tetralogia perché è in essa che le tendenze generali del modo di affrontare Wagner fino a oggi si palesano nel modo più evidente (Wieland stesso sosteneva che l’Anello era l’unica opera di Wagner che ogni dieci anni doveva essere guardata con occhi diversi). Naturalmente, anche se in modo meno sistematico, questa storia si riverbera anche sulle altre opere, soprattutto nell’Olandese volante, nel Lohengrin, nel Tristano e nel Parsifal (Tannhäuser e Maestri cantori rimanendo più condizionati dalla cornice storica originaria). Si notano qui una decisa inclinazione verso l’astrattezza simbolica (una sorta di scena invisibile, ma spesso con abiti moderni), e la predilezione per un’interpretazione onirica (ancora una volta senza spazio e senza tempo), ora sospesa sull’ignoto del mito ora attraversata da penetranti squarci realistici. Parsifal ne è l’emblema finale: la redenzione della colpa che si compie con un problematico atto di fede, quasi a lasciare Wagner come un libro aperto, su cui continuare a tornare alla ricerca di un’impossibile ultima parola.

The Voice Classic Opera n. 34, Marzo 2002

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