Il Flauto Magico

I

Favola o dramma? Il problema del Flauto magico sta tutto in questa domanda. Nella storia dei suoi allestimenti si è avuta una oscillazione pendolare tra due impostazioni, allegorica e realistica. Manca purtroppo il materiale iconografico originale della prima rappresentazione viennese del 1791; tuttavia le incisioni dell’epoca permettono di risalire alla “”messa in scena di periferia”” di Schikaneder: teatro d’effetto, molto agile, di gestualità tradizionale ma di sicura presa popolare. I grandi allestimenti storici del primo Ottocento accentuarono invece l’aspetto antiquario, classicistico-egiziano, come per esempio quello del pittore e architetto prussiano Friedrich Schinkel a Berlino nel 1816: grandi apparati monumentali di templi e colonne, statue e obelischi, rocce e caverne, con colori fortemente suggestivi (la volta stellata della Regina della Notte)  su ambienti architettonicamente spaziati, di preziosa simmetria geometrica. Su questa base Simon Quaglio, riprendendo per una produzione del 1818 a Monaco i bozzetti originali del 1793 di suo padre Joseph, introdusse una nota più aerea, più evocativa, più naturalistica: lo stile neoclassico si mescolava con quello romantico allora di moda. Goethe, grande estimatore dell’opera, volle per il suo teatro di Weimar un Flauto magico sobriamente decorato, sgravato di ogni orpello simbolico e metafisico: ciò che contava era la dimensione teatrale, il meccanismo interno della fiaba, i cui significati allegorici dovevano essere avvolti in un alone di mistero, non illustrati.
    Nell’Ottocento questi aspetti vengono filtrati attraverso un’intenzione più speculativa che drammatica: continua a dominare il tratto esotico, pittorico-decorativo e paesaggistico. E’ nel Novecento, con la nascita della figura del regista-interprete, e prima di lui dello scenografo-interprete, che Il flauto magico entra a far parte di un’altra storia. Nel 1909 Adolphe Appia schizza le scene per una rappresentazione dell’opera a Lipsia: tridimensionale, astratta, tutta giocata sulle luci e sulle ombre in un palcoscenico vuoto. Del tutto opposta è la strada di Alfred Roller per il ciclo viennese su Mozart del 1905-1906 con Mahler: figurativa, elegante nei costumi, raffinata e ornamentale, secondo il gusto della Secessione. Nei primi anni delle rappresentazioni al festival di Salisburgo, dove Il flauto magico entra nel 1928, è l’aspetto esteriormente scenografico a prevalere: ben cinque diversi registi si avvicendano su uno stesso allestimento firmato per le scene da Oskar Strnad, e l’ultimo è lo scenografo stesso. Ci vorrà Arturo Toscanini, nel 1937, per imporre anche al regista Herbert Graf e allo scenografo espressionista Hans Wildermann una coerenza interna, guidata dalla musica; da allora, quasi per contrasto, ogni nuovo Flauto magico a Salisburgo avrà un impatto dirompente anche sul fronte scenografico: Ludwig Sievert con la sua regia delle luci densa di simbolismi e Caspar Neher con le sue strutture funzionali, ieratiche, concentrate, ne saranno i principali artefici sul fronte astrattistico da un lato, costruttivo-razionalista dall’altro.
Nel corso del secondo dopoguerra la tendenza a una molteplicità di visioni si manifesta in modo più pronunciato, quasi a voler ribadire l’inadeguatezza di una lettura univoca del testo. Ogni nuova messa in scena sembra voler ricominciare da capo e arrovellarsi sul problema di fondo: fiaba o dramma? Se ciò non impedisce di trovare soluzioni con sfumature diverse, anche il rapporto tra regista e scenografo (e talvolta direttore) si complica: chi deve avere la responsabilità della scelta principale? A chi spetta la decifrazione, a chi il passo decisivo della concezione unitaria? Ma Il flauto magico continua a sopportare anche queste contraddizioni, anzi a presupporle: come in una coperta troppo corta, ogni realizzazione che raggiunga un esito ne lascia inesaudito un altro. Ciò che al massimo possiamo aspettarci è una definizione parziale, un’ipotesi di totalità. E ciò dipende dal punto di vista da cui si parte.
Importanti artisti che normalmente non lavoravano per il teatro si sono cimentati con il suo enigma attratti proprio dalla multiformità fiabesca: Oskar Kokoschka e Marc Chagall,  Ernst Fuchs e David Hockney, tanto per ricordare i massimi. I loro bozzetti, i loro costumi sono capolavori di fantasia pittorica, di parodia, di visionarietà: vere opere d’arte. Ma sono, più che destinati alla scena, cui mal si adattano con il loro sovraccarico di cromatismi sgargianti e di eccentricità caricaturale, variazioni sul tema del Flauto magico, istantanee di una reazione immediata, eccitata, all’innaturale e al sovrannaturale. Il mondo del Flauto magico ne esce come esaltato in un delirio di ebbrezza onirica, talvolta deformante se non grottesco. All’estremo opposto si colloca l’estrema riduzione dell’aspetto scenico a pochi elementi neutri, appena accennati, su spazi vuoti e irreali, tutti interiorizzati: Josef Svoboda, per esempio, nella sua versione per Monaco, creata nel 1970 ma rimasta poi a lungo, con poche varianti, nel repertorio, portava sulla scena il raggio laser per effetti di luce folgoranti. Su questa semplice base, il regista Günther Rennert armonizzava una recitazione statica e rituale nei personaggi seri (Sarastro e la Regina della Notte, Tamino e Pamina) con un brio effervescente in quelli buffi (Papageno e Papagena, Monostatos ma anche le tre Dame e perfino i tre Genietti), cogliendo un aspetto determinante del testo: la compresenza di piani diversi. Ossia l’implicita convergenza fantastica al di là della frattura tra il livello della fiaba e quello del dramma.
    Molti Flauti magici, soprattutto nei teatri di repertorio tedeschi, battono disinvoltamente la strada dell’immediatezza popolare, della gag e del gesto ad effetto, che immancabilmente provoca la risata, controbilanciandolo poi con una paludata, accademica solennità nei momenti corali, nelle arie e nei pezzi d’insieme, senza curarsi di cercare di stabilire un rapporto: sono regie di routine, di mestieranti del teatro, alle prese con una finta innocenza infantile, ben diversa da quella calda e umoristica della parabola raccontata con leggerezza da Peter Ustinov o dalle giocose, favolose animazioni del nostro Lele Luzzati. Ma anche caricare l’opera di significati esoterici, metafisici o ideologici, ha i suoi rischi: come cavarsela con il serpente che arriva in scena all’inizio, con gli animali che danzano al suono del carillon magico, e perfino con le prove dell’acqua e del fuoco? Proprio accettando problematicamente questa sfida, Giorgio Strehler, in una famosa e controversa regia a Salisburgo (scene di Luciano Damiani, 1974), trovò la quadratura del cerchio: il Flauto magico come immenso contenitore di uno specifico teatrale, nel quale la magia del teatro – interpretata come riflessione sul teatro – compiva il miracolo della sintesi. Per Strehler Il flauto magico era un’allegoria nient’affatto favolosa, ma un cammino iniziatico verso la conoscenza: della conoscenza intesa non come valore etico (c’era anche questo, è chiaro), bensì come avventura del teatro. Ed ecco allora che la commedia dell’arte tendeva la mano alla tragedia, il teatro popolare a quello colto, in una sorta di compendio di tutti i mezzi dell’inconscio collettivo, visti come finzione che ricrea la realtà. Un’operazione molto sofisticata, cui i cantanti (e il direttore, Karajan) reagirono con insofferenza. Nella riflessione di Strehler il teatro diventava questione di vita o di morte, un assoluto di ragione e anima. Con lui, il teatro poteva anche arrivare a inventare la felicità completa.
    Non occorrono vette come queste per venire a patti con il Flauto magico. Jean-Pierre Ponnelle ha dimostrato che anche un approccio più rilassato, più comprensivo e sorridente, quasi di familiare complicità con il testo vissuta con partecipazione, può sortire un esito emozionante. Meno convincenti sembrano invece quei tentativi che sposano una chiave di lettura preconcetta, come il variopinto mondo  del circo (Achim Freyer a Vienna) o la stilizzazione classica del teatro orientale (il Nô giapponese, cui si ispirava Julie Taymor a Firenze). Queste trasposizioni, che possono sortire notevoli reazioni sul piano visivo, come nel secondo caso, e nella vivacità dell’azione, come nel primo, sono tutto sommato un escamotage, un modo di aggirare il problema, aggiungendo semmai altri strati alla sua compagine. Resta così il fatto che la più completa realizzazione che fino ad oggi si sia data del Flauto magico è quella nella quale una partenza teatrale (la rappresentazione nel teatrino settecentesco di Drottningholm) si evolve in linguaggio filmico: ossia il Flauto televisivo di Ingmar Bergman. Dove è il mezzo stesso, potenziato da una progressione sapientemente scandita,  a favorire il ricongiungimento di fiaba e dramma, e nello stesso tempo a intendere il valore dell’opera come spettacolo immanente che concilia la piena coscienza dell’adulto con gli stupori dell’infanzia.                                 
                         
          
        

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