Il problema dell’«antico» in Cesari musicologo

I

Affermare, di Gaetano Cesari, che le esperienze in senso proprio musicologiche contribuirono in modo decisivo a determinarne la personalità di critico, studioso e storico della musica, non pare azzardato. E ciò per più di un motivo. Anzitutto esse furono, e non soltanto dal punto di vista biografico, il centro e la svolta della carriera di Cesari, dopo la scelta di dare alla sua vocazione musicale, fino ad allora seguita per così dire da irregolare, più solide e comprensive basi. Questa scelta, che avvenne in età non più giovanissima, si concretizzò nella decisione di completare gli studi liceali e musicali al fine di poter accedere adeguatamente preparato ai corsi universitari in una sede fra le più qualificate e prestigiose d’Europa, quella di Monaco di Baviera. A Monaco, come è del resto noto, Cesari si procurò il diploma di Magistero in composizione alla Reale Accademia di Musica, frequentò i corsi universitari di filosofia e si laureò brillantemente in Scienze musicali e Filosofia con una tesi di argomento musicologico: lavoro che fu pubblicato nel 1908 con il titolo Die Entstehung des Madrigals im 16. jahrhundert (1). Nello stesso anno questo studio venne pubblicato a Cremona presso la tipografia Pietro Fezzi; quattro anni più tardi, nel 1912, esso apparve, appositamente rielaborato, sulla «Rivista Musicale Italiana» dei fratelli Bocca di Torino con il titolo definitivo Le origini del Madrigale cinquecentesco (2), e contribuì a consacrare anche in patria la fama dello studioso, nel frattempo già innalzato a incarichi professionali di prima importanza nel campo della ricerca e della catalogazione dei manoscritti musicali antichi.

A Monaco Cesari ricevette una formazione completa in tutti i rami della disciplina storico-musicale, giovandosi di maestri di primissimo piano e di una tradizione ormai consolidata negli studi musicologici. La Germania era a quel tempo ancora la mèta ideale di quanti volessero dedicarsi a questi studi e non a caso proprio in Germania era avvenuta la Bildung o l’esordio musicologico di molti pionieri della musicologia italiana: da Torchi a Perinello a Benvenuti, da Alberto Gentili al Chilesotti.

L’ambiente accademicamente austero e dotto dell’università monacense plasmò le forze rigogliose dell’apprendista ma non le irregimentò in modo univoco. Cesari vi affinò gli strumenti d’indagine, apprese i metodi e le tecniche e conobbe le stesse diverse scuole d’analisi filologico-critica; seppe però dimostrare subito una personalità matura e un indirizzo proprio nell’orientare i suoi interessi. Essi si palesano subito votati alla lunga gittata storica e alla contemporanea, se non preventiva, verifica delle fonti: ciò che vuoi dire anche alla ricerca, alla raccolta e alla trascrizione di prima mano. Non è senza peso che Cesari seguisse con particolare dedizione le lezioni di Storia della Musica di Adolf Sandberger e di paleografia musicale di Theodor Kroyer privilegiandole rispetto a quelle di estetica e di psicologia della musica, nelle quali l’università di Monaco, per lunga tradizione, si era pur distinta e ancora eccelleva. Se Cesari, che pure fu uno dei padri della storiografia italiana, non divenne mai un musicologo di professione e svolse la sua attività anche in altri, più divulgativi campi – in essi portando però la profondità e la professionalità della sua preparazione specifica – ciò fu dovuto anche a questa istintiva tendenza a non assolutizzare il dogma della ricerca e ad inserirla nel quadro più generale della storia della cultura e dell’evoluzione delle forme; nonpertanto la sua visione apparirà limitata alla storia delle idee, dell’estetica e della ricezione – i campi d’elezione della musicologia germanica tardo-ottocentesca -, ma si aprirà anche all’indagine della storia della composizione, dei generi, degli stili e degli autori come realtà dalle quali soltanto può uscire la ricostruzione di una Storia universale della musica. E una Storia universale della musica è la meta ideale cui Cesari tende al fine di colmare una mancanza atavici nella cultura e nel costume intellettuale italiano.

La tesi di dottorato del 1908, ancor più nella snellita rielaborazione del ’12, in italiano, è sotto questo profilo indicativa: un opus primum con tutte le caratteristiche di un impianto metodologico e critico solidamente costituito. L’assunto musicologico si indirizza non soltanto sul problema dell’«antico», ma anche sul problema delle origini: in questo caso le origini del madrigale cinquecentesco. Ma, come vedremo, questo problema sarà esteso più tardi anche ad altri, affini campi d’indagine, sia della musica vocale che di quella strumentale. Ora, se il problema dell’«antico» come espressione di una ricerca sul passato volta al suo recupero o alla sua attualizzazione è un aspetto centrale della disciplina musicologica – oltretutto assai sentito in area italiana in quel preciso momento storico -, il problema delle origini di una forma o di uno stile musicale che giungerà a dominare una vasta epoca della storia della musica con l’eccellenza e la durata della sua fioritura appare un interesse assai più circoscritto e specifico, non molto comune agli studiosi italiani della generazione di Cesari, tipico semmai della scuola tedesca. Non si dimentichi infatti che in Italia il movimento volto al recupero e alla riacquisizione del passato e della musica antica – movimento all’interno del quale sarebbe nata di lì a poco l’Associazione dei Musicologi italiani – era ispirato da due intenti convergenti: trarre dall’oblio la produzione soprattutto strumentale italiana antica, quella produzione che nell’Ottocento era stata soffocata dalla generale infatuazione per il melodramma; riproporre all’attenzione i sommi musicisti del passato in funzione polemica verso lo strapotere della musica straniera, tedesca in primo luogo. Erano dunque soprattutto le «grandi glorie italiche» – da Palestrina a Monteverdi, da Frescobaldi a Scarlatti – ad essere oggetto dell’interesse degli studiosi e dei musicisti vicini a questo movimento, e con chiara, esibita intenzione nazionalistica. Quest’intenzione, sia detto subito, non compare nell’opera di Cesari se non come una pallida eco dello spirito del tempo, tutto sommato fievole: fatto che non può non venir sottolineato, dato il contesto. Istruttiva è a questo proposito la posizione di Cesari circa il problema delle origini della Sinfonia moderna, se posta a confronto con le successive, famigerate tesi di Fausto Torrefranca (3). In uno scritto del 1916 sulla Sinfonia (poi ripreso nella raccolta postuma curata da Franco Abbiati) (4), dopo aver brevemente riassunto lo stato delle sue ricerche sui sinfonisti della scuola lombarda (di Sammartini e di un suo allievo milanese, il conte Giorgio Giulini, cui avrebbe dedicato successivamente uno studio monografico di esemplare rigore scientifico) (5), Cesari così concludeva la sua pacata e attenta disamina (6):

 

Piaccia o non piaccia ai fautori della scuola lombarda, Stamitz e le sue sinfonie sono esistiti; e la fortuna che godettero è cosa certa, quanto certe sono le fonti alle quali Stamitz stesso e i compagni suoi attinsero. Né ci sono teorie sufficienti, e nemmeno trovate come quella dell’impressionismo ritmico applicato alla sinfonia sammartiniana, che valgano a ravvicinare le sinfonie della maturità di Haydn, con quelle lombarde della prima metà del 700.

Anche se nel linguaggio figurato tipico del suo tempo, Cesari preferisce analizzare obiettivamente e studiare le relazioni piuttosto che far polemica nazionalista, forzando i fatti. Ciò non è disimpegno, ma quasi istintivo rifiuto dei pregiudizi interessati, anche «a fin di bene»: una sorta di ritrosia e di moralità proprie dello studioso che ami sopra ogni cosa la verità storica come gli appare, e rifiuti i grandi proclami e le invettive apodittiche.

Se ne possono cogliere di passaggio due conseguenze importanti. In primo luogo l’estraneità di Cesari dai partiti e dalle correnti che animavano – talvolta anche veementemente – la polemica e le guerre intorno al problema della musica antica (estraneità che si riflette anche nei rapporti labilissimi ch’egli intrattenne con l’Associazione dei Musicologi italiani). In secondo luogo il rifiuto della mitologia del genio creatore che emerge dal nulla «a miracol mostrare»; mentre a Cesari interessano semmai lo sfondo e le condizioni storiche da cui un fenomeno poi si distaccherà in forma individuale: «Perché» – egli scrive con ardito paradosso – «l’arte è bella quando si libera dal fatto umano che sopra le incombe: l’uomo, l’artista» (7).

Dicevamo del problema dell’«antico» visto anzitutto sotto specie di problema delle origini. Su questa linea di ricerca si pone la gran parte dei lavori cesariani. Molti degli scritti inediti pubblicati postumi dall’Abbiati trattano argomenti di questo tipo: Le fonti del pensiero musicale latino nel medioevo, La musica vocale in Italia dalle origini al secolo XVII, Le origini del basso continuo, Gli albori della musica strumentale, Origine del Trio con pianoforte. Per quanto non si tratti di studi propriamente musicologici bensì latamente storici, l’impianto metodologico è granitico e il modo di procedere sistematico: a Cesari interessa cogliere quel momento critico in cui un fenomeno musicale si distacca da un contesto ambiguo o confuso (le epoche di «accumulazione» e di «transizione» della storia) per svilupparsi in modo individuale e autonomo fino alla definitiva compiutezza di un genere o di uno stile. E ciò può avvenire appunto soltanto con una disamina

attenta delle fonti e delle origini. Riallacciandosi ad esse, Cesari sembra voler inquadrare il problema dell’antico nella cornice di un eterno presente: non nel senso che le epoche del passato vadano attualizzate e studiate in funzione del presente (sarà anzi vero il contrario quando si tratterà di proporre in concreto un’esecuzione di musica antica), bensì in quello che lo studio del passato non può avvenire senza una immedesimazione nella cultura e nelle situazioni storiche in cui i singoli fenomeni si maturano; quasi che lo studioso idealmente dovesse parteciparvi come un testimone del tempo. E di-fatti la forma della sua trattazione è il presente storico. L’acribia e il puntiglio con cui Cesari distingue e subordina, scava e mette in relazione situazioni, eventi, manifestazioni, personalità e opere d’arte in un ambito circoscritto, sono vivificati da un’esposizione partecipata e sensibile, letterariamente di tono elevato, come di chi intenda capire e interpretare piuttosto che semplicemente registrare e catalogare.

La collana di antiche musiche italiane strumentali e vocali «Istituzioni e Monumenti dell’arte musicale italiana», concepita da Cesari in collaborazione con casa Ricordi già dal 1920, costituisce una delle imprese più importanti della sua attività musicologica. Se Cesari, che ne era anche il direttore, non giunse a vederla compiuta (per tutta una serie di vicissitudini e di difficoltà di ordine finanziario e organizzativo che ne ritardarono l’attuazione), quel che rimane della sua opera è di grande interesse e significato. I primi due volumi, stampati rispettivamente nel 1931 e 1932 e dedicati ad «Andrea e Giovanni Gabrieli e la musica strumentale in San Marco», benché curati da Giacomo Benvenuti recano il segno della personalità di Cesari: la lunga prefazione da lui stesa per il secondo tomo, suddivisa in due parti intitolate Origini della canzone strumentale detta «alla francese» e Canzoni e sonate a più strumenti contenute nelle «Sacrae Symphoniae» del 1597,8 è il pendant ideale dello studio universitario sul madrigale cinquecentesco e la conclusione, sul versante questa volta strumentale, dell’appassionata ricognizione su di un secolo – il Cinquecento – che fa da cerniera tra epoca «antica» ed età moderna. (Ricorderemo qui di sfuggita come questa ricognizione si realizzasse in una continua opera di raccolta e di trascrizione di musiche antiche, soprattutto cinquecentesche; opera che, iniziata nelle biblioteche e negli archivi ricchissimi di materiale della capitale bavarese, si protrasse instancabilmente e dette frutti copiosi anche se conosciuti postumamente: come nel caso della trascrizione delle Frottole nell’edizione principe di Ottaviano Petrucci (9), una delle fonti più preziose per la conoscenza dell’evoluzione della musica del Cinquecento).

La citata prefazione al secondo volume di «Istituzioni e Monumenti dell’arte musicale italiana» conferma le direttive del metodo analitico cesariano: alla trattazione specifica delle musiche contenute nel volume (le partiture di tutte e sedici le composizioni strumentali facenti parte delle Sacrae Symphoniae del 1597) il musicologo antepone un ampio studio sulle condizioni storiche e artistiche che portarono alla fioritura in San Marco di quella pratica strumentale che ebbe in Giovanni Gabrieli il suo più alto rappresentante. A questo egli aggiunge a sua volta un’indagine sulle origini della canzone strumentale italiana, dalla sua relazione con quella comunemente detta

«alla francese» (inizialmente connessa alla lirica popolaresca italiana) sino alla trasformazione della trascrizione per strumenti di musiche vocali in manifestazione originale e autonoma, indipendente dal punto di vista sia linguistico che formale: ciò che avviene appunto con Giovanni Gabrieli. L’arco della trattazione cesariana si fa qui più teso, puntuale, particolareggiato, senza perdere di vista la prospettiva storica in un senso più ampio; e si appoggia saldamente su una conoscenza dettagliata della bibliografia specialmente tedesca sull’argomento. Nella seconda parte si fa strada un giudizio più direttamente estetico delle musiche contenute nella raccolta: qui Cesari non può fare a meno di ricorrere a esemplificazioni e paralleli con la dottrina estetica moderna, come quando stabilisce un paragone fra Gabrieli e Wagner (10); ma riconosce che un giudizio estetico adeguato non può sottrarsi alla individuazione di quei procedimenti tecnici e formali che costituiscono, nel loro tempo, l’individualità di un fatto musicale. In altri termini, ciò significa che l’arte antica non deve venir giudicata sul metro di valori della coscienza artistica moderna – cioè ottocentesca o novecentesca – né secondo una teoria del «bello assoluto», ma deve nascere dalla ricostruzione delle condizioni storiche in cui si è maturata. Ancora una volta la consapevolezza storica è viatico a ogni ulteriore elaborazione estetico-concettuale.

Ed anche pratica. Tutto ciò a noi oggi appare ovvio; ma non bisogna dimenticare che ai primi del Novecento il modo in cui il problema della musica antica era risolto in sede esecutiva trascendeva ogni criterio di fedeltà storica e di rigore filologico: e la libertà, sovente il libertinaggio, con cui quella musica veniva presentata, trascritta e adattata secondo lo stile moderno, lo stanno a dimostrare. Quando a Cesari fu chiesto di allestire secondo criteri moderni un’opera di Monteverdi – ciò accadde intorno agli anni dieci a proposito dell’Incoronazione di Poppea nella sua trascrizione -, il musicologo ebbe occasione di scendere sul terreno spinoso dei problemi della prassi esecutiva e della messa in scena. Le sue idee si evincono eloquentemente da una lettera al Tebaldini del 1909, scritta per illustrare le proprie convinzioni. Esse sono di due tipi. Anzitutto che la rappresentazione, necessariamente scenica, non si limiti soltanto all’opera ma si estenda anche «all’ambiente entro il quale essa venne rappresentata nel 1642, in modo che il pubblico osservi e giudichi sotto la suggestione di una cornice storica che noi creeremo intorno al quadro scenico principale»; in secondo luogo che «le riproduzioni delle opere storiche devono rispondere non soltanto alle necessità imposte dalla storia, ma debbono anche trar profitto di questa al fine di splendere innanzi a noi, idealizzate, nella loro artistica luce» (11). Non abbiamo qui lo spazio per addentrarci nei particolari del progetto (peraltro mai realizzato), alcuni dei quali sono davvero curiosi; basti dire che la soluzione ipotizzata da Cesari per fondere il principio dell’integrità storica dell’opera d’arte con quello di una riproduzione consona alle esigenze moderne (che per Cesari significa anzitutto offrire al pubblico «un giusto punto di vista») prevedeva la creazione, modernissima affatto, di un «teatro nel teatro», così da fornire all’ascoltatore due livelli di ricezione: uno per così dire storico (il pubblico avrebbe avuto chiaro che si trattava della «rappresentazione di una rappresentazione», con strumenti e costumi antichi) e uno estetico. Giacché «il godimento dell’opera d’arte» rimane, per Cesari, il fine ultimo di qualsiasi prodotto artistico.

Il concittadino Claudio Monteverdi fu senza dubbio la passione più forte della vita di Cesari: una passione non esibita, incompiuta ma non per questo meno profonda e determinante. Fin dagli inizi, ritornato da Monaco con una gran messe di opere monteverdiane da trascrivere e riordinare, Cesari si adoperò per giungere ad avviare la pubblicazione degli opera omnia, coinvolgendo non soltanto la città natale ma anche editori e organi ministeriali. È noto che il filo realizzativo di questo piano passò poi ad altre mani, senza che Cesari potesse giungere a vederne il compimento; ciononpertanto la sua opera illuminata venne meno. Essa è testimoniata, oltre che dalle trascrizioni, da una serie di saggi che sarebbe dovuta culminare in un lavoro organico da inserire nella collana «Istituzioni e Monumenti dell’arte musicale italiana». Parte di questo lavoro apparve postuma nel 1939, come volume sesto della collana, con una prefazione di Guido Pannain redatta sugli appunti lasciati dal curatore; il titolo esprime ancora una volta la visuale dello studioso cremonese: La musica in Cremona nella seconda metà del XVI secolo e i primordi dell’arte monteverdiana (12). Vi si ripercorrono le tappe iniziali di un’attività creativa che non avrebbe tardato a decollare verso altri e più vasti orizzonti portando però con sé i frutti di quelle prime esperienze e dell’ambiente nel quale esse si erano sviluppate. E forse a sua volta questa ennesima indagine sugli «inizi» avrebbe dovuto costituire, nelle intenzioni di Cesari, il principio di una definitiva sistemazione di tutto il complesso della personalità e dell’arte monteverdiana.

Quando Cesari morì, nel 1934, la musicologia italiana stava vivendo una delicata fase di passaggio verso il formarsi e costituirsi di una disciplina storico-critica autonoma, dotata di leggi e metodi propri. Molti dei protagonisti della fase pionieristica erano scomparsi da tempo, molte delle bandiere in nome delle quali ci si era battuti anche aspramente erano state riposte o travolte, nuovi portabandiera si erano affacciati alla ribalta in un nuovo clima culturale e generazionale. In questa prospettiva, probabilmente, per Cesari non ci sarebbe stato molto spazio; ma certo è che il suo insegnamento, pur appartato, isolato in una di quelle «fervide solitudini spirituali» di cui Pestelli giustamente invita a diffidare (12), guardava in quella direzione. Il Cesari musicologo postumo è anche il Cesari che guarda avanti, verso questi orizzonti e queste nuove prospettive. Con nessun’altra bandiera che la fede nell’onestà intellettuale e l’impegno appassionato dello studio, della ricerca, della produzione che congiunge, nella continuità della storia, anello ad anello. E sono valori per i quali si può sbagliare, ma non mentire.

 

NOTE

 

(1) Inaugural-Dissertation der Kgl. Ludwig-Maximilians-Universität, München 1908; poi Cremona 1908.

(2) In «Rivista musicale italiana», XIX, 1912, pp. I-34 e 380-428.

(3) F. TORREFRANCA, Le origini italiane del Romanticismo musicale, Torino, Bocca, 1930; ID., Giovanni Benedetto Piatti e la sonata moderna, Milano, G. Ricordi, 1963 (ed. postuma a cura di A. Bonaccorsi).

(4) G. CESARI, Scritti inediti, a cura di F. Abbiati, Milano, Carisch, 1937 (ed. postuma).

(5) G. CESARI, Giorgio Giulini, musicista. Contributo alla storia della sinfonia in Milano, in Nel secondo centenario della nascita del conte Giorgio Giulini…, Milano, Stucchi Ceretti, 1915, pp. 137-239.

(6) G. CESARI, La Sinfonia, in Scritti inediti, cit., p. 179.

(7) F. ABBIATI, Prefazione a Scritti inediti, cit., p. 26.

(8) Prefazione al secondo volume di Istituzioni e Monumenti dell’Arte musicale italiana, Milano, Ricordi, 1932.

(9) Le Frottole nell’edizione principe di Ottaviano Petrucci, tomo I (libri I, II e III), nella trascrizione di G. Cesari, edizione critica di R. Monterosso, con studio introduttivo di B. Disertori, Cremona, Athenaeum Cremonese, 1954 (ed. postuma).

(10) G. BENVENUTI, Andrea e Giovanni Gabrieli e la musica strumentale in San Marco, t. II, Milano, G. Ricordi, 1932. Prefazione, p. LXVIII: nella «Sonata pian e forte» Cesari riscontra una somiglianza con l’«onda mistica parsifaliana»; nella «Sedicesima e ultima canzone», invece, «toni tragicamente forti ed angosciosamente umani, simili a quelli in cui verrà più tardi riassunto sinfonicamente il tragico destino di Sigfrido».

(11) Lettera a Giovanni Tebaldini, Milano, 19 giu. 1909, in F. ABBIATI, Amore di Monteverdi in Gaetano Cesari, in Claudio Monteverdi. Edizione sotto gli auspici del Comitato cremonese. Tricentenario della morte, Cremona, Cremona Nuova, 1943.

(12) In Istituzioni…, cit., vol. VI, prefazione di G. Pannain, su appunti di G. Cesari (ed. Postuma).

Sergio Sablich, Il problema dell’«antico» in Cesari musicologo, Estratto da Studi e Bibliografie – 4 – Cremona, 1990

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