La lezione di Ahronovich

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Con Jurij Ahronovich se n’è andato non soltanto un musicista magnifico, entusiasta e generoso, ma anche un pezzo grondante di storia, della quale era stato testimone e protagonista. Era affascinante sentirlo raccontare le vicende spericolate della sua vita, di quando era stato un giovane, devoto pupillo di Prokof’ev e Šostakovič negli anni bui del regime sovietico e aveva salvato dalla distruzione alcune partiture di Skrjabin, della sua deportazione in Siberia, del ricongiungimento a Israele per affrontare una nuova giovinezza, dei rapporti contrastati con la Germania, che pure lo aveva accolto e in cui aveva ricostruito la sua esistenza senza radici. Il caso ha voluto che sia morto improvvisamente il 31 ottobre a Colonia, lontano da tutto, a sessantanove anni. Il suo luogo di riposo è ora Gerusalemme, la terra degli avi. Nell’intimo, però, nella nostalgia, la sua anima era profondamente, inguaribilmente russa: russo, emblematicamente, il suo destino di esule senza ritorno e senza perdono. In lui convivevano lo spirito di Gogol e di Dostoevskij, il lato comico e quello tragico, un che di infantile e di maturo come sospeso sull’abisso: pareva un personaggio uscito da un dipinto di Chagall. Musicista di talento schietto e prorompente, della razza degli ebrei russi alla musica naturalmente predestinati, non aveva mai affilato, come tanti suoi colleghi, le armi dell’astuzia e della furbizia, non foss’altro per affermare legittimamente il proprio diritto a essere riconosciuto e apprezzato. Difatti non faceva parte dello star system, e viveva ai margini dei grandi giri internazionali. Non che non vi fosse in qualche caso entrato e non ne avesse i requisiti artistici; ma la sua figura era per così dire troppo poco funzionale alle regole e alle convenzioni del sistema per stabilizzarvisi. Troppo immediato, troppo spontaneo, troppo modesto per non apparire cronicamente naïf. Troppo poco posato ed esteriormente inelegante, anzi quasi buffo quando impugnava la sua lunghissima bacchetta di legno grezzo, per rappresentare l’immagine demiurgica del direttore d’orchestra dei nostri giorni. L’immancabile serie di gesti che accompagnava la fine di ogni concerto, di ogni rappresentazione d’opera – l’abbraccio a ogni singolo musicista, la partitura alzata dal leggio e additata agli applausi del pubblico – faceva tenerezza, in un certo senso abbassava l’aura del rito a una sorta di quadretto intimo e familiare, quasi impudicamente esibito. Di colpo cadeva ogni barriera, e si manifestava che di ciò che avevamo ascoltato dovevamo essere grati a tutti gli esecutori indistintamente e soprattutto al compositore, il direttore rimanendo quasi un punto etereo sullo sfondo. Troppo vero, troppo dichiarato per non essere perfino sospetto. Ahronovich però non bluffava. Le prove, le sofferenze che lo avevano segnato a fondo, la sua solitudine, avevano dato un risultato sorprendente: un ottimismo candido e positivo, una serenità decantata, la semplicità di chi, felice di essere sopravvissuto senza rancori agli orrori, guarda con animo grato, dopo averli soppesati, ai valori della vita. Resta da dire specificamente del direttore, ora che la sua carriera si è conclusa. L’esuberanza del musicista metteva talora in secondo piano le doti tecniche, che pure erano notevoli, tutt’altro che approssimative, anzi del tutto consapevoli. Dietro a un approccio a prima vista di getto e infuocato, teso a creare una tensione musicale di respiro ininterrotto (apparteneva alla vecchia scuola dei direttori per i quali la sintesi contava più dei singoli dettagli), si celava una ricchezza umana e intellettuale che si trasmetteva all’orchestra per via interna, di cui il gesto era un indicatore di segnali anzitutto emotivi, ma senza che ciò pregiudicasse la tenuta dell’insieme e la sicurezza della resa professionale. I musicisti con lui si sentivano al tempo stesso spronati e protetti: messi nella condizione di esprimersi secondo le proprie qualità. Era semmai questo senso di responsabilità, a cui Ahronovich si appellava senza imporlo autoritariamente, a non essere talvolta adeguatamente compreso e assecondato. Disse una volta a una prova: «Dovete suonare ogni nota come se fosse una scelta morale. In ogni nota che suoniamo c’è tutta intera la nostra vita». Detto da quell’ometto rubizzo e bonario, che quasi sembrava scusarsi ogni volta di stare là sopra a dirigere, che amava la compagnia ed era pieno di attenzioni per tutti, poteva sembrare un’esagerazione: e difatti qualcuno sorrise. E invece era proprio così.

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